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Tirare su un figlio da sole in un mondo che giudica e non capisce

di Francesco Lamendola - 24/07/2009

Madre con bambino (particolare dalle Tre età della donna, c.1905 Stampa artistica


Questo articolo è dedicato a Milena, a Iole, a Paola e a tutte le altre come loro.

Alcune delle nostre migliori amiche - è una riflessione che l'evidenza dei fatti ci ha portato a fare - sono donne che hanno dovuto crescere da sole i propri figli; che, del tutto o in parte, si sono assunte anche il compito di surrogare la figura paterna e di fronteggiare le molte difficoltà, non solo economiche, legate alla loro condizione di madri sole.
La società borghese tradizionale è incentrata sulla misura della coppia, con o senza figli; quella borghese «alternativa», ancora e sempre sul metro della coppia - magari irregolare, magari addirittura omosessuale -, con o senza figli. Una famiglia composta da una mamma e da un figlio, o una figlia, non rientra nei canoni comunemente accettati; eppure è una realtà abbastanza diffusa, sulla quale varrebbe la pena di spendere qualche riflessione.
Oggi, una donna che abbia rispetto di se stessa e un minimo di indipendenza psicologica, non è più disposta a tollerare la convivenza con un marito o con un compagno che si rivelino totalmente difformi dall'immagine iniziale che avevano dato di sé.
Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, «Donne sole, con dignità» (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice); e, anche se la fragilità della odierna vita di coppia non può che rattristare chiunque abbia ben chiaro quanto sia essenziale la famiglia per la stabilità affettiva degli individui e dell'intera società, tuttavia è difficile non ammettere che esistono delle condizioni minime di benessere esistenziale, senza le quali una donna (e, naturalmente, un uomo) ha il diritto di sottrarsi ad un legame rivelatosi del tutto insoddisfacente.
La società dei benpensanti, tuttavia, guarda arricciando il naso queste donne che, con sforzi notevolissimi, e talvolta con autentico eroismo, hanno tirato su un figlio tutto da sole, magari dopo aver lasciato un marito e un padre inesistente dopo appena pochi mesi di matrimonio; e che sono riuscite ad accompagnarlo fino all'età adulta, iscrivendolo all'università o aiutandolo ad inserirsi nel mondo del lavoro.
E ciò per almeno due ragioni: primo, perché ai suoi occhi una donna con figli, ma senza marito, appare come un essere strano e incompleto, una specie di Centauro, una creatura indefinibile, che non  si riesce a collocare in alcuno schema noto; secondo, perché la sua riuscita, testimoniata nell'ingresso di quel figlio nella vita adulta, suona come una sfida alla pretesa del maschio (e anche, in verità, di molte donne poco consapevoli) che, senza un marito e un padre, una vera famiglia non possa sussistere, e i figli non possano crescere bene.
La società, insomma, non aiuta le donne sole con figli, e raramente mostra comprensione o simpatia nei loro confronti, per le ragioni opposte e complementari che non crede in loro, o che ci crede anche troppo (nel senso che teme l'esempio del loro successo). Eppure, soltanto queste donne sanno che cosa voglia dire dover fare da madre e anche da padre; sforzarsi di conciliare pressanti esigenze di lavoro con il ruolo di genitore unico; e anche, talvolta - ma non è poi un caso tanto raro - arrivare a fine mese con il frigorifero vuoto e con le bollette del riscaldamento, della luce e del telefono ancora da pagare.
Inoltre, esse hanno dovuto proteggere il proprio figlio dalla curiosità indiscreta o dalla tacita disapprovazione degli altri, dai vicini di casa ai compagni di scuola, passando, magari, per i propri genitori, che non capiscono e non aiutano; trovandosi a dover camminare in salita anche là, dove una madre felicemente sposata non si accorge neppure della strada da fare.
Nel precedente articolo avevamo osservato che, pur essendo passata da molto l‘epoca in cui il matrimonio era visto come la meta necessaria per realizzare l’obiettivo di una vita felice, e in cui esso era considerato praticamente indispensabile perché una donna potesse realizzarsi pienamente,  tuttavia sia la convivenza di fatto, sia la promiscuità sessuale che lo hanno sostituito, o, più semplicemente, che lo hanno relegato in posizione cronologicamente secondaria, non hanno scalfito nel profondo, al di là delle apparenze, il vecchio assunto in base al quale la persona sola (e non single, che è cosa ben diversa) è una persona non realizzata, fallita e infelice, specialmente se si tratta di una donna.
Nonostante la cosiddetta rivoluzione sessuale degli ani Sessanta e Settanta del Novecento, nonostante il femminismo o, molto più semplicemente, il pragmatismo e perfino il cinismo con cui moltissime persone si pongono nei confronti dell’altro sesso, rimane al fondo di quasi tutti la segreta e radicata convinzione che, se non si possiede un compagno o una compagna almeno per andarci a letto, si è dei frustrati pieni di complessi, invidie e rimpianti o, quanto meno, delle persone di poco valore, che non sono amate perché non sanno voler bene a se stesse. Il grado di autostima, sempre più spesso, è legato alla propria capacità seduttiva e al numero di uomini o donne che ci si  porta a letto; e ciò, per tutta una serie di ragioni che altrove abbiamo cercato di lumeggiare, vale specialmente per il sesso femminile.
La conseguenza di tutto questo è che lo spauracchio di rimanere “zitella” è più vivo che mai, a dispetto della apparente evoluzione della società e della cultura. Un tempo, le donne senza marito venivano crudelmente derise in certe feste di paese, quando i giovanotti appendevano alle loro finestre simboli allusivi al loro forzato celibato; e la parola stessa “zitella” suonava come decisamente offensiva, al massimo come pelosamente compassionevole. Oggi, INVECE, le cose sono rimaste esattamente allo stesso punto: anche se non ci sono più crudeli scherzi di paese e anche se la parola tende a scomparire. Sono allo stesso punto, perché le donne sole, per prime, hanno introiettato a fondo una tale filosofia: e, se anche il mondo non le giudica, loro stesse si ergono a giudici estremamente severi di se stesse.
Alcune di esse pensano che, se non sono state capaci di acchiappare un marito, un fidanzato, un compagno o, almeno, un certo numero di amanti, vuol dire che non valgono davvero nulla: inevitabile conseguenza di una società in cui l’avere prevale sull’essere, l’apparire sul sentirsi, la «vox populi» sulla voce della propria interiorità; e dove i miti sociali sono costruiti dalla pubblicità televisiva più che da qualunque altro fattore, sia esso materiale o spirituale.

A queste donne sole, che hanno fatto la scelta di crescere un figlio lontano da un marito o da un compagno violento, egoista o irresponsabile, e che, spesso, lo hanno fatto senza domandare all'ex coniuge nemmeno un centesimo, imparando a contare solamente su se stesse, desideriamo esprimere tuta la nostra stima, la nostra simpatia e la nostra ammirazione.
Sono donne che hanno scelto la solitudine per sottrarsi a un marito sgradevole e ad un padre inadeguato per i loro figli; e che sono rimaste sole perché, invece di buttarsi tra le braccia del primo uomo che capitava loro a portata di mano, ammaestrate dalla precedente esperienza, hanno preferito rimanere fedeli a se stesse, e aspettare se e quando si presenterà all'orizzonte un compagno che sia degno di prenderle per mano.
Non sono superbe, sono semplicemente divenute sagge; la saggezza che si impara a proprie spese, soffrendo, e senza nessuno sulla cui spalla poter piangere; o, peggio, con qualcuno - i genitori, per esempio - sempre pronto a giudicare, a rinfacciare, a rimproverare. Hanno avuto una vita dura, ma spiritualmente libera e trasparente; una vita che molte donne (e uomini) felicemente accasate dovrebbero invidiare loro, quanto a forza, coraggio e dignità.
A volte - è quasi inevitabile - la solitudine, le difficoltà, le delusioni, le hanno rese un po' dure, un po' diffidenti, un po' sfiduciate, un po' amareggiate; ma, più spesso, hanno esse saputo rialzare la testa con fierezza dopo ogni caduta, orgogliose di essere rimaste fedeli a se stesse.
Queste madri sole, che hanno sacrificato gli anni più belli della loro vita per tirare su un figlio, o una figlia, senza un uomo accanto con cui condividere fatiche e preoccupazioni, hanno accumulato un grande bagaglio di umanità e potrebbero insegnare molte cose alle donne che non hanno conosciuto tale esperienza, e anche agli uomini abituati a giudicare cose e persone in maniera convenzionale e frettolosa.
La prima cosa che esse potrebbero insegnare è il valore inestimabile della libertà; non una libertà astratta e velleitaria, ma una libertà estremamente concreta, che deve misurarsi ogni giorno con il proprio limite: rappresentato, nel loro caso, in primo luogo dalle esigenze del figlio, specialmente negli anni dell'infanzia, allorché è più bisognoso di protezione e amore.
La seconda cosa è il valore della essenzialità; perché esse hanno imparato a tralasciare le cose effimere e puramente esteriori, per concentrarsi sulle cose che contano realmente: non i vestiti firmati (che non si potrebbero permettere), le vacanze alle Seychelles o il fuoristrada ultimo modello, ma la dedizione, il dialogo, il lavoro, la disponibilità al sacrificio.
La terza cosa è la fierezza; in una società dominata dalla pratica del compromesso, dell'abitudine, della svendita di se stessi in cambio di qualche miserabile vantaggio personale, queste donne ci ricordano che esiste una cosa che non ha prezzo: la stima dovuta a se stessi, e il limite oltre il quale l'arte della conciliazione diventa acquiescenza nei confronti di situazioni intollerabili, lesive della dignità personale.
Quelle che abbiamo avuto la fortuna e l'onore di conoscere, erano e sono tutte delle belle persone: non prive di difetti, come qualsiasi altro essere umano, ma decisamente al di sopra della media - spiritualmente parlando - delle persone che hanno avuto solo tappeti rossi su cui camminare, e soffici cuscini ove cadere, se mettevano il piede in fallo. Più riflessive, più responsabili, più attente, più sensibili, più consapevoli del valore delle cose, quelle materiali e quelle spirituali; insomma, come tutti coloro che sono passati per la porta stretta del dolore, più umane.
Dietro il loro sorriso dolce, ma un po' malinconico, infatti, c'è una ferita che non si è mai cicatrizzata e che mai si chiuderà del tutto: la ferita della decisione dolorosa che hanno dovuto prendere, la ferita della solitudine, la ferita dell'incomprensione altrui. Sono donne ferite, persone che hanno sofferto e che soffrono; ma che hanno saputo affrontare coraggiosamente la loro situazione e che non hanno mai ceduto alla tentazione, pur così naturale, di sedersi per piangersi addosso.
Molte donne sposate e molti uomini potrebbero e dovrebbero imparare qualcosa da loro, se avessero occhi per vedere e orecchi per udire. Dovrebbero pensare che tutte le fatiche e tutte le preoccupazioni che hanno vissuto nella crescita dei propri figli, esse li hanno vissuti moltiplicati per due: senza mai potersi consigliare con qualcuno nei momenti più difficili, se non con il medico o, magari, con il personale di qualche consultorio familiare.
Molte di esse hanno riempito la loro solitudine imparando a frequentare la natura, a camminare nei boschi, ad abbracciare gli alberi; molte hanno letto intensamente buoni libri, si sono fatte una cultura da autodidatta, hanno coltivato la loro intelligenza, il loro gusto e la loro sensibilità. Alcune hanno riversato su un animale domestico, su un cane o su un gatto, le riserve di amore non utilizzate; e, così, sono arrivate a comprendere più cose su quei nostri fratelli minori, di quante non ne possano neanche immaginare tante altre persone.
Non di rado sono accanite frequentatrici di Internet, dove hanno imparato a navigare alla ricerca di nuovi punti di vista, di nuove visioni della realtà; e così, anche per questa via, sono giunte a formarsi una concezione del mondo anticonformista e originale, e a coltivare ed esercitare assiduamente la loro indipendenza di giudizio.
È per questo che è così piacevole parlare con loro, per un uomo interessato alla sostanza delle cose e non alla loro apparenza.
Certo, non sono bambole di lusso che possano competere con le veline e le bellone della televisione e dei rotocalchi ilustrati; ma, in verità, nemmeno lo desiderano. Hanno cose più serie cui pensare, che non recitare la parte della maggiorata al silicone: più serie, e anche più belle.
Per questo sono belle esse stesse; di una bellezza autentica, che viene da dentro.