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Il distacco dalle persone amate ci sfida a compiere un salto qualitativo verso l'Essere

di Francesco Lamendola - 24/07/2009

A un assiduo lettore di nome Renato


Benché noi siamo, dal punto di vista fisico, degli esseri-per-la-morte, come sosteneva Martin Heidegger, e l'unica cosa certa verso la quale andiamo sia l'evento della nostra morte individuale, nondimeno c'è, in noi, un istinto potente che lotta per la vita, che agogna la vita, che ha sete, una sete bruciante, di vita piena, luminosa, incondizionata (cfr. il nostro precedente articolo «La vita non è frutto del caso, ma di un disegno intelligente e benevolo», inserito nel sito di Arianna Editrice in data 9/4/2009).
Il materialista non può non registrare la presenza di un tale istinto, ma lo qualifica sbrigativamente come irrazionale, e ritiene di poter liquidare tutte le filosofie della sopravvivenza come altrettante  forme di nevrosi: nevrosi originata dall'angoscia di morte (cfr., in particolare, i nostri precedenti articoli: «Religione, politica, cultura come difesa paranoide dall'angoscia di morte, secondo Luigi de Marchi» e «Ritrovare il senso del limite per superare l'angoscia del morire», quest'ultimo  inserito nel sito di Arianna Editrice in data 18/8/2008).
Per lo spiritualista, al contrario, la lacerazione presente nella coscienza, che da un lato corre consapevolmente verso la propria fine, mentre, dall'altro, vi si ribella con tutte le proprie forze, è, in un certo senso, la dimostrazione del fatto che l'annientamento non è il nostro ultimo destino, perché noi non saremmo radicalmente protesi verso la vita, se essa non fosse che un breve e casuale incidente nell'incessante  processo di trasformazione della materia; così come non si darebbe la realtà fisiologica della sete, se non esistesse l'acqua, capace di spegnerla.
D'altra parte, nemmeno lo spiritualista può sottrarsi al brivido di orrore che chiunque prova davanti alla ineluttabilità e al carattere misterioso, impenetrabile della morte. E, per una persona capace di amare fortemente, la prospettiva della morte delle persone care è ancora più angosciosa di quella della propria stessa morte. I Vangeli riferiscono che Gesù Cristo, davanti alla tomba del suo amico Lazzaro, scoppiò in un pianto dirotto, con grande impressione dei presenti.
Di fatto, il distacco definitivo dalle persone amate, la separazione irrimediabile da esse, il senso di vuoto radicale, di assoluta impotenza e di inutilità della vita, in colui che sopravvive alla perdita di una persona amata, costituiscono, senza alcun dubbio, la prova più terribile che le creature umane debbano affrontare nel loro pur travagliato cammino terreno.
Nondimeno, se tutto questo è vero, non è meno vero che non esistono delle ragioni propriamente filosofiche per dedurre, dalla fine del corpo, la fine di tutto, a meno di identificare con il corpo tutto il nostro essere, senza residuo alcuno; cosa che non è possibile dare per scontata sulla base di una supposta evidenza sensibile, dato che quest'ultima non può dire l'ultima parola in merito alla realtà delle cose.
L'evidenza sensibile, per esempio, ci dice che il sole di giorno, le stelle di notte, sorgono ad Est e tramontano ad Ovest; ma noi sappiamo che tale movimento della volta celeste è solo apparente e che dipende, in realtà, da un opposto movimento di rotazione del nostro pianeta sul proprio asse. E, se ciò è vero per la dimensione fisica della realtà, a maggior ragione dovremmo essere estremamente cauti quando ci avventuriamo ad esprimere giudizi circa le realtà spirituali, invisibili ai sensi ordinari , e delle quali così poco sappiamo.
Un classico esempio di insipienza filosofica del materialismo, a proposito del fenomeno della morte, è dato dal filosofo indiano Kesakambalin.
Così egli era solito esporre la propria teoria della distruzione - in sanscrito, «uccheda» - agli uditori (in: Giuseppe Tucci, «Storia della filosofia indiana», Roma-Bari, Laterza Editori, 1957, 1977, vol. 1, p. 89):

«Immagina, o Kassapa, che qui (alcuni) uomini avendo afferrato un ladro che ha commesso peccato me lo presentino: 'Eccoti, signore, un ladro che ha commesso peccato; a costui infliggi quella punizione che desideri'. Così io direi: 'Allora, signori, dopo aver gettato quest'uomo vivo in un otre,  dopo avere a questo chiuso la bocca, dopo averlo ricoperto con pelle fresca, dopo aver fatto (sopra a lui) una spessa cementatura con umida creta., dopo averlo collocato in un forno, ponete fuoco'. E quelli dopo aver acconsentito (dicendo): 'Va bene' (c. s.) pongano fuoco. Quando noi conosciamo che quest'uomo è morto, allora, dopo aver tirato giù quell'orcio, dopo averlo liberato dall'involucro, dopo avergli aperto la bocca, celermente guardiamo pensando: 'Forse noi possiamo vedere la sua anima (jiva) mentre che esce'. Ma noi non vediamo l'anima che esce. Questo appunto, o Kassapa, è la prova per la quale io penso: 'Anche così non c'è un altro mondo, non ci sono esseri opapatika, non c'è frutto e maturazione delle azioni buone o cattive»

Dove non sappiamo se deprecare maggiormente la fredda, inumana  crudeltà con cui si immagina di disporre di una persona come se fosse solamente un corpo da torturare, uccidere ed usare quale oggetto di un esperimento scientifico, oppure l'incredibile rozzezza e l'inaccettabile semplificazione filosofica della «prova» che la morte del corpo è la fine di tutto. (Sia detto fra parentesi, un'altra «prova» addotta da Kesakambalin è che la morte non apporterebbe alcuna variazione di peso nel corpo: altra cosa che oggi è stata smentita dai fatti).
Dunque, noi non possiamo arguire che la morte rechi con sé l'annientamento totale della persona; e, se non esistono nemmeno prove incontrovertibili del contrario, tuttavia esistono elaborati ragionamenti filosofici che consentono, quanto meno, di considerare aperta ed impregiudicata la questione, ma con parecchi indizi a favore della sopravvivenza; come fa, ad esempio, Socrate nel più celebre dei dialoghi platonici, il «Fedone».
Resta lo scandalo della morte, l'orrore che essa porta con sé, la pena indicibile di coloro che devono confrontarsi con essa, magari in condizioni particolarmente dolorose e difficili. Nessun ragionamento filosofico, se si vuole essere onesti, per quanto sapiente e bene impostato, riesce a dissipare interamente lo scandalo, l'orrore, la pena.
Il senso di annientamento e di vuoto bruciante provocato dalla perdita di una persona amata p stato efficacemente descritto, fra gli altri, dalla scrittrice francese Brigitte Giraud nel suo breve ma intenso romanzo «E adesso?», del quale ci piace riportare le battute iniziali (titolo originale: «À présent», Éditions Stuck, 2001; traduzione italiana di Marella Uberti-Bona, Parma, Guanda, 2009, pp. 13-17):

«Questa sera Claude è morto. L'amavo.
La mia vita si ferma e comincia nello stesso tempo. Per evitare di nominare l'evento dico PRIMA e ADESSO… Prima, come se si trattasse di un paese, vasto territorio lussureggiante, il mio continente. Prima, ovvio, era bianco, leggero, luminoso, evidente. Prima, era liscio, a volte eccitante., eravamo immortali e cinici. Eravamo vivi. La morte degli altri non ci turbava, usavamo verbi come "crepare", eravamo eroi. Eravamo spirituali e nervosi. Guardavamo ai dettagli, eravamo spesso insoddisfatti, impazienti. Pretendevamo che la vita fosse perfetta. Avevamo i nostri criteri, in tutta innocenza. Mettevamo in scena la nostra ordinaria arroganza. Organizzavamo i nostri drammi quotidiani, rimproveravamo l'altro se non aveva comprato il pane. Era prima, era altrove. Eravamo noi.
Stasera Claude è morto, e io sono viva. Mi lascia senza averlo voluto, per distrazione. Mi lascia con il mio desiderio, con le mie domande. Sono all'ospedale, accompagnata da G. La donna dell'accettazione mi chiede la carta d'identità e il numero della tessera sanitaria.  Ci indica delle sedie di plastica arancione. Dico grazie. Faccio esattamente ciò che mi si chiede. Seduti senza parlare, il mio amico e io, vietato fumare. Calzo sandali di cuoio marrone, un po' grandi, e i miei piedi si muovono da soli. Sono circa le nove di sera.  Claude ha avuto un incidente con la moto, è in sala operatoria. Fino a qui siamo ancora nella trama della nostra storia, posso ancora dire noi. Sino ancora all'ospedale, tutto è in gioco, nulla è definitivo.  Penso che un incidente è una cosa idiota. Tre giorni prima del trasloco, una vera fesseria. Ho voglia di dirgliene di tutti i colori, e anche di consolarlo.  Sembra che vi sia una lesione a una spalla. Me l'immagino con il gesso e un'aria furiosa. Non oso agitarmi. Non sospiro. Non cammino avanti e indietro. Ho l'aria tranquilla. Aspetto il seguito.
Il seguito dura ore. Viene la notte. Facciamo la spola tra la casa e l'ospedale, perché non ci permettono di fermarci. Disturbiamo. Ci sbattono gentilmente fuori. Ci allontanano. Fumiamo in macchina. Io, che non fumo più da due anni, aspiro la prima boccata. Non è un piacere, ma non posso stare senza far nulla, senza niente. Fumo vicino a un'altra persona che fuma.  Ritrovo quella sensazione dimenticata, inspirare, far uscire il fumo dal finestrino aperto. Scuotere la cenere al momento giusto, nel posto giusto, non troppo presto né troppo tardi.  Gettare il mozzicone con un gesto che parla da sé.  Vivere al ritmo della sigaretta quando il ritmo del mondo circostante si è interrotto. Fumare nell'attesa, marcare ogni secondo. Mi sembra che questa storia della sala operatoria duri un po' troppo. L'incidente è successo alle quattro e mezzo, poco prima dell'uscita da scuola.  Sono passate le dieci. C'è qualcosa che non torna.  Si possono solo fare ipotesi, in silenzio. Non dire nulla, non guardarsi. Vietarsi di pensare, d'immaginare. Attraversare la città, nel tepore della sera. Non avere una meta. Inventare un obiettivo: rientrare a casa mia; poi un altro: tornare all'ospedale. Ci diciamo che, tra tutti e due, riusciremo a ottenere qualche informazione. Non sono arrabbiata, né con Claude né con l'ospedale. Provo solo un'inquietudine confusa.  Un sentimento che non mi è familiare. So di vivere qualcosa di eccezionale, di singolare. Istanti rari, di cui certamente riparleremo in seguito. Ridendo,  addirittura, quando tutto sarà finito. Si ride di tutto, dopo, si rivive la scena, la si racconta, magari esagerandola. Ci si confessa la paura provata. Si distorcono i fatti.  Li si amplifica, si esagera, si mente.  Ci si aspetta quel piacere: il privilegio di raccontare, tutti insieme intorno a un tavolo. È bello flirtare col pericolo quando ormai si è al sicuro, scherzare con la morte, è un buon argomento per riderci su. Quando ormai si è scampati,
Poi arriva il momento in cui so. Poco prima di mezzanotte "Non c'è strato nulla da fare": la frase che segna il confine tra il prima e l'adesso… "Non c'è stato nulla da fare." Si è già nel niente. È la fine della storia. Così semplice. Uno è vivo, e poi è morto. La pelle è calda, poi è fredda. Ci sono tante cose da dire; ma si sta zitti. Gli occhi sono aperti, gli occhi sono chiusi. Non ho più visto i suoi occhi di velluto scuro. "Non c'è stato nulla da fare." Sono muta. Stranamente calma. Che cosa separa la vita dalla morte? Si è tutto, poi non si è niente. Niente. Non si ha più voce, non si ama più, non si sa più. Di avere una moglie, di avere un figlio. Che è estate, e che bisogna traslocare in una casa nuova. Che c'è da lavorare per mesi. Che si era deciso di non andare in vacanza per levigare, scrostare, dipingere. Si vive, è normale, poi si muore, e nessuno ci è abituato. Allora improvvisi. Imbastisci il niente con il niente. Devi restare viva perché hai un figlio, questo lo capisci subito. Colui che ami diventa un corpo. Senti dire "il corpo". Non ha più nome, consistenza, desiderio. Attraverso di lui non passerà più nulla, non protesterà, non darà consigli, non esprimerà mai il suo dolore. È una massa inerte. Tutto gli è indifferente. Che cosa si può fare con un corpo senza vita? Niente, non se ne può fare niente. Si può solo metterlo in un angolo, sottrarlo alla vista. Bisogna vivere questa realtà.»

Già: che cosa si può fare con un corpo senza vita? Niente: si può solo metterlo in un angolo, sottrarlo alla vista.
Questa, però, è l'impressione di coloro che restano; ma, in effetti, non ci dice nulla sul modo di essere di colui che ci ha lasciati.
Un grande fisico osservava che, se un essere tridimensionale entrasse improvvisamente in un mondo bidimensionale, la sua irruzione sarebbe sconvolgente per quelle altre creature, ma, paradossalmente, non sarebbe percepita in quanto tale: semplicemente, non sarebbero in grado di riconoscerlo, non avendone gli strumenti sensoriali.
Ebbene, la stessa cosa dovremmo dire di colui che, lasciandoci, è passato in un'altra dimensione: noi non lo vedremmo più, anche se fosse proprio qui, in questo preciso momento, perché sprovvisti degli strumenti atti a rilevarne la presenza.
D'altra parte, ed è questo il punto fermo del nostro presente ragionamento, che cosa dovrebbe fare colui il quale finisse per perdersi in un labirinto fatto di specchi, e non riuscisse più, in alcun modo, a trovare l'uscita? Dovrebbe, evidentemente, ricordare che, così come esiste una entrata, deve essere possibile ritrovare la strada per uscire, quand'anche vi fosse una sola via di accesso al labirinto. La stessa cosa dovremmo fare noi davanti al mistero della morte, allorché siamo presi dal dubbio che vi sia solo la porta per entrarvi, e non anche la via per oltrepassarla.
Dovremmo, cioè, ricordarci che la realtà fondamentale, a partire dalla quale tutto il resto trova la sua collocazione e la sua spiegazione, è l'Essere, fonte ed origine di tutti gli enti presenti, passati e futuri, materiali e immateriali. Ora, l'Essere è la negazione del non-essere, dunque anche della morte: se gli enti provengono dall'Essere, in quanto derivano da lui il loro esistere ed il loro esserci, allora non vi è dubbio che tendono anche a farvi ritorno, perché non sono che delle sue manifestazioni o emanazioni.
Rimandiamo il lettore ai concetti già espressi nel nostro recente articolo: «Che cos'è la realtà?» (inserito nel sito di Arianna Editrice in data 30/6/2009). In particolare, ribadiamo l'idea centrale che soltanto all'Essere spetta interamente l'attributo di «reale».
Tutti gli enti - materiali, ideali o spirituali - non sono che un riflesso dell'unica vera Realtà: quella dell'Essere, che attraverso di loro si manifesta.
Il concetto è reso nel modo più chiaro nel «Cantico delle creature» di San Francesco: è giusto cantare la bellezza degli enti, ma senza mai dimenticare che essi scaturiscono dall'Essere; che la loro bellezza proviene dall'Essere.
La realtà è lo splendore dell'Essere; tutto il resto non è che riflesso, ombra, illusione.
Anche la morte è riflesso, ombra, illusione: perché afferisce alla sfera materiale, non alla sostanza ultima delle cose.
Il giusto atteggiamento davanti ad essa, pertanto, è quello di cogliervi l'occasione per compiere un salto qualitativo, certo all'inizio assai doloroso, per innalzare il proprio piano di esistenza e avvicinarlo, in qualche misura, alla realtà vera ed ultima, la realtà dell'Essere, dal quale tutto proviene e al quale ogni cosa fa ritorno.
Solo così potremo collocare la realtà della morte nella giusta prospettiva, e restituire alla nostra vita la dignità di un disegno prezioso voluto dall'alto, sottraendola al nichilismo e alla assoluta casualità di una tragica beffa.
E solo così potremo trovare gli strumenti, intellettuali, ma soprattutto spirituali, mediante i quali ristabilire la giusta prospettiva nei confronti dei nostri cari, che solo in apparenza ci hanno lasciato; mentre, forse, sono più vicini e più indissolubilmente a noi legati adesso, di quanto non lo fossero mai stati prima, quando erano gravati - come noi lo siamo tuttora - dal peso della terra.