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Lo sviluppo sostenibile, crisi di un mito

di Raffaele Ragni - 24/07/2009

 

 

L’era dello sviluppo è iniziata nel 1949 con una dichiarazione del presidente Harry Spencer Truman. Al punto quarto del tradizionale discorso sullo stato dell’Unione, egli divise il mondo tra Paesi sviluppati e sottosviluppati, impegnando gli USA ad aiutare la crescita delle regioni economicamente arretrate.

 

Truman non inventò nulla. La nuova concezione dello sviluppo era stata delineata, tra il 1942 ved 1944, da alcuni burocrati mondialisti, in particolare Paul Rosenstein-Rodan e Wilfred Benson. Il presidente americano si limitò ad ufficializzare un lessico ed un progetto epocali, conformi al ruolo internazionale che gli Stati Uniti avevano assunto dopo la seconda guerra mondiale. Gli USA avevano interesse a smantellare gli imperi europei per avere libero accesso a nuovi mercati. La decolonizzazione fu il prezzo imposto agli alleati per l’intervento contro il fascismo e per l’impegno militare contro il comunismo.

Il principale apporto teorico al mito sviluppista, giunse dall’economista americano Walt Whitman Rostow che, nel 1960 elaborò la teoria degli stadi dello sviluppo, secondo cui, la crescita economica di qualunque nazione avviene per tappe secondo una progressione geometrica, paragonabile al meccanismo dell’interesse composto. Toccò invece ad un africano - il presidente della Tanzania Julius K.Nyerere -  il compito di aggiornare il paradigma dominante introducendo l’idea dello sviluppo autocentrato. Esso implicava, con particolare riferimento al Terzo Mondo, l’utilizzo prioritario dei fattori produttivi disponibili localmente, il sostegno all’agricoltura destinata all’autosufficienza alimentare, un’etica del lavoro e stili di vita conformi ai valori tradizionali. Ciò avrebbe dovuto consentire di ridurre la dipendenza dal commercio estero e dagli investimenti stranieri, valorizzando le specificità locali e minimizzando il ruolo dell’industrializzazione, almeno nella fase iniziale della crescita.

Il concetto di sviluppo autocentrato rinnovò la credenza sviluppista, ma non produsse alcun modello economico capace di risolvere il problema della dipendenza e della povertà nel Terzo Mondo. Piuttosto che distruggere un fondamento della mitologia neoimperialista, si preferì ridefinirlo in forma critica. Così, con il Rapporto Meadows (1972) si affermò, per la prima volta nel lessico internazionale, che lo sviluppo ha dei limiti, concettuali ed operativi. La crescita industriale deve essere indirizzata a soddisfare i bisogni fondamentali (inner limits) e deve rispettare i vincoli ambientali (outer limits). Hanno priorità nel ricevere l’aiuto internazionale gli Stati che perseguono la giustizia sociale e rispettano i diritti dell’uomo. Si afferma che lo sviluppo è un processo endogeno, non solo economico ma anche culturale, che nasce dal foro interiore di ciascuna società e non può ridursi all’imitazione di un archetipo imposto dall’esterno. Ciò non significa, sia ben chiaro, che ogni popolo possa elaborare un proprio modello di sistema economico e sganciarsi dall’universo capitalista. Vuol dire soltanto che bisogna integrarsi nel mercato mondiale sfruttando meglio le risorse locali nell’elaborazione di strategie utili alla crescita.

 Con l’idea che esistono limiti allo sviluppo, il rispetto degli ecosistemi assume sempre maggiore rilevanza. A partire dalla Conferenza sull’ambiente umano di Stoccolma (1972), che proclama il diritto degli esseri umani ad un ambiente di qualità, i principali documenti riconducibili all’approccio dei bisogni fondamentali contengono numerosi riferimenti alla tutela dell’equilibrio ecologico gravemente minacciato da un’industrializzazione incontrollata. Col rapporto conclusivo della Commissione Bruntland (1987) nasce il mito dello sviluppo durevole o sostenibile. La povertà generalizzata non è una fatalità, perché il genere umano ha tutti i mezzi per aspirare ad una crescita economica quasi illimitata. Ma occorrono tecnologie sempre meno inquinanti per consentire alla biosfera di sopportare gli effetti dell’attività produttiva.
 Già il Rapporto Medows (1972), nel porre limiti allo sviluppo, paventava il pericolo che le risorse naturali si sarebbero progressivamente esaurite per effetto della crescita economica e industriale. Questo filone di analisi fu oscurato, almeno momentaneamente, dai miti dello sviluppo autocentrato ed endogeno. Nel 1983, dopo oltre un ventennio di studi e dibattiti, l’ONU nominò una commissione presieduta da Gro Harlem Brundtland - medico, donna, ex-ministro dell’ambiente ed all’epoca primo ministro del governo norvegese - con l’obiettivo di formulare proposte concrete per conciliare il rispetto della natura con la crescita industriale e la giustizia sociale. Nelle sue conclusioni il Rapporto Bruntland si limitò a suggerire alle Nazioni Unite di organizzare “una conferenza internazionale incaricata di esaminare i progressi compiuti e suscitare gli accordi necessari per segnare le tappe sulla via del progresso umano e mantenerlo entro norme in armonia con i bisogni dell’uomo e con le leggi naturali”. Nel 1989 l’Assemblea Generale dell’ONU istituì la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED) e istituì il World Summit sul tema. Il primo vertice si tenne a Rio de Janeiro (1992), il secondo a Johannesburg (2002).
 Il paradigma dominante, ridefinito con l’utilizzo del nuovo ossimoro, sopravvive un altro decennio, tra inventari del degrado ambientale ed ostentazioni di forzato ottimismo. Gli apologeti della globalizzazione, ed anche alcuni critici riformisti, parlano di sviluppo durevole, ma non spiegano come possa realmente durare, visto il progressivo esaurimento delle scorte, minerarie ed agricole. Parlano di sviluppo sostenibile, ma non chiariscono come la natura possa continuare a sostenere l’inquinamento e lo sfruttamento delle risorse da parte di un sistema economico che vuole crescere globalizzandosi. I problemi di fondo restano irrisolti. Il compito di scrivere i capitoli successivi della grande narrazione sviluppista viene affidato ad un nuovo conclave - i periodici World Summit - dove convergono gli oracoli della credenza per auspicare una global governace dolce e illuminata.
 La metamorfosi del mito, lasciata all’iniziativa dei mondialisti buoni, serve a rafforzare, attraverso una sorta di romanzo a puntate, la versione ambientalista del paradigma dominante. All’origine, l’espressione sustainable development significava prevedere un volume di produzione che fosse sopportabile per gli equilibri naturali e che, per tale ragione, potesse essere considerato di lunga durata. Col tempo, è diventato un impegno a perpetuare un sistema economico malgrado i suoi limiti. Nei confronti dell’opinione pubblica, i World Summit hanno una duplice funzione strategica: rappresentano la buona coscienza dell’oligarchia mondialista e tracciano un percorso alternativo per arrivare comunque ad un potere cosmopolita sovraordinato rispetto agli Stati. Infatti, quando si parla in nome di un nuovo soggetto collettivo diverso dalle nazioni - definito umanità, genere umano, comunità mondiale, società civile planetaria - si arriva quasi sempre ad affermare la necessità di istituire un governo mondiale che abbia maggiori potere coercitivi delle organizzazioni internazionali esistenti per dare concreta attuazione ai buoni propositi enunciati.
Come corollario dello sviluppo sostenibile, la Dichiarazione di Rio (1992) enuncia il principio della responsabilità comune ma differenziata in materia di tutela ambientale. Il Nord, avendo più colpe e più risorse finanziarie, deve assumersi maggiori responsabilità nel risolvere l’emergenza ecologica. Invece il Sud, dovendo risolvere innanzitutto il problema della povertà, può considerare lo sviluppo come obiettivo prioritario integrandolo, ma senza porlo in alternativa, con la difesa dell’ambiente. In sostanza il Sud vede riconosciuto il suo diritto allo sviluppo e pretende di realizzarlo prima di poter seriamente proteggere la natura, mentre il Nord ottiene una sorta di nulla osta per continuare ad inquinare, a condizione che investa maggiori risorse nel disinquinare.
 Questa differenziazione di responsabilità giustifica il perverso sistema delle quote negoziabili in materia di emissioni nocive previsto dal Protocollo di Kyoto (1997). I Paesi ricchi che inquinano di più rispetto ai parametri fissati, possono comprare quote di inquinanti dai Paesi poveri che inquinano di meno, pagando il mancato rispetto degli impegni con una parziale riduzione del debito del Terzo Mondo. In tal modo una transazione di ricchezza fittizia, perché generata dal meccanismo dall’interesse composto, serve a giustificare il diritto di produrre inquinamento reale. Così, mentre alcune grandi multinazionali del settore energetico ingaggiano scienziati che divulgano analisi rassicuranti sui mutamenti climatici, il riscaldamento del pianeta, dovuto alle emissioni inquinanti, procede a ritmo più accelerato rispetto al passato.
 Autocentrato, endogeno, durevole, sostenibile, ed infine umano, come viene qualificato lo sviluppo secondo gli indicatori adottati dalle Nazioni Unite nella sua azione di monitoraggio annuale. Ma oramai non servono più aggettivi per ravvivare la credenza. Con la crescente attenzione verso le tematiche relative all’integrazione dell’economia mondiale, lo sviluppo - nei suoi contenuti e nella sua carica utopistica - è stato riassorbito nel concetto di globalizzazione e ne è diventato il simulacro. Infatti la globalizzazione, che non sembra avere altro fondamento se non la sua conclamata ineluttabilità, trae legittimazione proprio dal fatto che, secondo i suoi apologeti, essa porta sviluppo. Viene diffusa la convinzione che la libera circolazione di merci, servizi, capitali, lavoratori - in un grande spazio economico a dimensione planetaria - produrrà sempre maggiore ricchezza. Che gli squilibri distributivi tenderanno ad attenuarsi. Che la qualità della vita migliorerà per tutti. Che le vittime provvisorie della crescita industriale potranno essere reintegrate in mercati opportunamente affiancati da reti di sicurezza sociale e come tali definiti mercati conviviali, nuovo mistificante ossimoro funzionale alla strategia mondialista.