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Una pagina al giorno: Essere o non essere, di Mino Milani

di Francesco Lamendola - 27/07/2009


Dal libro di Mino Milani «La realtà romanzesca» (Milano, Mursia, 1967, pp. 171-176):

«Paese dei Babwende (Congo), 31 maggio 1877
Spedizione Stanley nell'Africa Centrale 

"Essere o non essere, questo è il problema…"
Henry Stanley non continuò a leggere. Chiude il libro., rimase immobile sulla branda, a fissare il tetto della tenda. No, non avrebbe seguito Amleto nelle sue meditazioni. Aveva già fin troppi problemi. Il suo viaggio di esplorazione durava da quasi tre anni, ormai, ed egli cominciava a sentirsi stanco. Aveva bisogno di sonno, e non di lettura.
Sorrise mestamente, posando il grosso volume ("Tutte le opere di Shakespeare", edizione Chandos) sulla traballante sedia pieghevole. In fondo, quel libro rappresentava, per lui, la civiltà nel cuore dell'Africa tenebrosa: era il suo unico legame con la poesia.
Mormorò: - Grazie, William - e soffiò sulla lanterna.

Era la notte sul 31 maggio 1877. Le centoventicinque persone della spedizione - uomini, donne e bambini: i portatori s'erano condotti dietro le famiglie - dormivano tranquille nel campo, fra le colline. I fuochi erano accesi, le sentinelle sonnecchiavano distratte. Inutile stare in guardia. Si era nel paese dei Babwende, gente guerriera,, sì, ma amica. La spedizione era stata ben accolta, aveva trovato da comprare cibo e vino di palma, amuleti e medicine. C'era tempo per riposare, finalmente, prima del viaggio finale verso la costa.
C'era tempo anche per sistemare gli appunti sull'ultima fase della spedizione. La mattina del 31 maggio, Stanley, davanti alla sua tenda, cominciò a sfogliare ed esaminare una quantità di foglietti, e a scrivere sul libro di viaggio. Accanto a lui, c'era il suo fedele servitore arabo, Safeni, che masticava pensosamente tabacco. C'era una grande tranquillità nel campo, un grande silenzio.

E d'un  tratto Safeni smise di masticare. Levò la testa,. Corrugò la fronte. Adagio, si tolse il tabacco di bocca:
- Effendi… - mormorò.
- Che c'è? - rispose Stanley continuando a scrivere.
Safeni ripeté: - Effendi… -
- Bene, Cosa vuoi dirmi, allora? -
L'arabo non parlò, accennò, col capo, al ciglio riarso di una colina, a qualche centinaio di metri dal campo. Stanley guardò. Non trattenne una esclamazione di sorpresa.
C'erano cinque o seicento guerrieri, là. Guerrieri Babwende. Erano apparsi in silenzio, e coronavano il colle, ora, schiera irta di lance e di fucili. Stavano immobili a guardare l'accampamento. Le bianche piume, sulle loro teste brune, ondeggiavano alla brezza.
Stanley chiuse il grosso libro e si alzò: - Che è successo, Safeni? - domandò a bassa voce. L'arabo scosse il capo: - Non lo so, Effendi. Non è successo nulla.
- No, ma…
In quel momento, i Babwende cominciarono a levare il loro canto di guerra e a muovere giù dalla china erbosa verso il campo. Gli aiutanti di Stanley, che avevano frettolosamente impugnato i fucili, corsero in fretta dal comandante. I malati, le donne, i bambini si radunavano, smarriti e pieni di muto terrore, al centro del campo, fra le tende. Davanti alla nera avanzata dei Babwende, le sentinelle si ritiravano, lentamente, camminando incerte all'indietro. Franck Polok, l'unico bianco rimasto in vita, dei quattro che avevano seguito Stanley, s fece avanti brandendo la sua pesante pistola: - Ce si fa, signore? - chiese.
Stanley chinò la testa; slacciò adagio il cinturone con il revolver:
- Nulla - rispose. Guardò i suoi: - State qui. Vado a vedere cosa vogliono.
- Ma, signore…
- Vorranno pure qualcosa, Franck.
- Sì, ma… andare da loro…è pericoloso!
- È pericoloso non fare nulla, - rispose Stanley - o lasciarsi tentare da quelle… - e accennò alla pistola che Polok impugnava. Poi: - Andiamo, Safeni - disse, e si avviò senz'altro. L'aria risuonava dello stridulo cantilenare dei Babwende.
I guerrieri s'erano fatti avanti nell'erba gialla, a semicerchio. Quando videro Stanley uscire dal campo, camminare verso di loro, s'arrestarono; canti e grida si spensero in un mormorio ostile. Poi scese un silenzio incerto e pesante. In quel silenzio, Stanley avanzò per un centinaio di passi , per poi fermarsi e sedere su di un tronco, tranquillamente, in attesa.
Non attese a lungo: una ventina di Babwende, dipinti con i colori di guerra, si fece lentamente avanti. Brandivano i fucili comperati dai mercanti arabi della cista, e le loro lance sottili e acuminate. S'arrestarono in un tintinnio d'amuleti a qualche decina di passi.
- Che succede, amici? Venite in tanti, armati come per combattere. Combattere contro di noi, i vostri amici? È un grande errore, questo!
Stanley aveva parlato calmo, senza alzarsi. I negri mormorarono qualcosa. Uno di essi avanzò un poi: - Mundelé, mercante - disse - noi ti combatteremo, e ti distruggeremo. - Perché tu - seguitò, duramente - vuoi distruggerci con la tua magia! - Un confuso mormorio di minaccia seguì a queste parole; la nera schiera dei Babwende ondeggiò, e, dal grosso, che attendeva immobile, cominciò nuovamente a levarsi il canto di guerra.
Stanley si levò in piedi, la destra alzata: - Quale magia ho operato?
Il capo accennò alla tenda: - Ti abbiamo visto, - disse cupamente - fare dei segni su un "tara-tara", Mundelé. Questa magia è molto male. Il nostro paese sarà devastato, i nostri capretti moriranno, i nostri banani marciranno, e seccheranno i seni delle nostre donne. Siamo amici, Mundelé, ma tu ci vuoi distruggere. Siamo qui, - aggiunse dopo una lunga pausa, nella quale il vanto di guerra di nuovo si spense, - perché tu bruci il "tara-tara". O ti uccideremo.

Stanley rimase immobile. Ecco quel che volevano. Il "tata tara", il libro della spedizione. Di tutte le cose che poteva indicare la loro tenebrosa superstizione, avevano scelto la più preziosa, l'unica. Ma occorreva decidere subito.
- Aspettate! -, disse solennemente l'esploratore, e si volse., e prese a camminare verso il campo. Bruciare il diario! Una stregoneria, quella! No,., non poteva negare di aver scritto, non poteva convincere i Babwende che non c'era magia nei segni neri… Bruciare il diario!
Dovette controllarsi per non mettersi a correre. Un passo di corsa, e una lancia avvelenata l'avrebbe raggiunto a spaccargli il cuore, o la nuca. Bruciare il diario!,,,
- Signore - disse Polok andandogli incontro; Stanley scosse la testa e non rispose; entrò nella tenda. I Babwende tacevano.
Stanley prese il libro dal tavolino.
Rilievi, notizie, distanze, appunti di etnografia e filologia, nomi di tribù, di monti, di fiumi; mappe di territori, indicazioni, laghi, cascate, tutto concentrato in quei fogli; tre anni di sofferenze d di combattimenti, tre anni di battaglie e di angosce, erano morti più di cento uomini, rimasti nella savana, o nella foresta vergine, uccisi dai negri ostili, dalle fiere, dai serpenti, rapiti dagli schiavisti… Bruciare il diario. Annullare tutto, fare di quel viaggio d'esplorazione una folle, grottesca passeggiata nell'ignoto. Distruggere le prove dell'identificazione del grande mistero del fiume Congo; distruggere i dati sui laghi Victoria, Alberto, Tanganika; rimandare a chissà quando la soluzione degli ultimi grandi problemi geografici dell'Africa. Il diario, già… tre anni.
Bruciarlo, o morire.
Stanley volse attorno uno sguardo smarrito. Aiuto. Ecco, non aveva mai pensato a quella parola. Aiuto. Che fare? Uscire, schierare i suoi, ordinare il fuoco, e sperare che un primo massacro avrebbe fermato i Babwende, posti in fuga? No, no. Aiuto.
Ma chi lo poteva aiutare?

Uscì dalla tenda dopo cinque o sei minuti. Quando i Babwende videro che aveva fra le mani il "tara tara" si ritrassero mormorando. Stanley andò duro e deciso verso di loro.
- È questo - chiese - il "tara-tara" che volete distruggere?
- Il capo dei guerrieri gli rivolse un'occhiata piena di diffidenza e di superstizioso allarme: - Sì, sì - rispose, - è proprio questo.
- Stanley allungò la destra: - va bene. Bruciatelo.
I Babwende si fecero indietro, tutti insieme.
No! No, è un feticcio! Non vogliamo toccare la tua magia! - Il capo levò la zagaglia adorna di crini di zebra: - Brucialo tu, Mundelé!
Stanley esitò, scuro in volto; poi si diresse verso un fuoco che ardeva al limite del campo, fra grosse pietre. Migliaia di occhi sbarrati seguivano i suoi movimenti. Egli sentiva quegli sguardi come se gli pesassero sulle spalle. Ora non c'era assolutamente alcun rumore.
"Essere o non essere, questo è il problema", mormorò. Il "tara-tara" cadde sulle fiamme. S'aprì, le pagine presero ad ardere arricciandosi.
Un attimo ancora di grandioso silenzio.
Poi, un grido di vittoria; e la folla nera dei Babwende cominciò a danzare. Lo spirito maligno abbandonava la loro terra. Erano salvi.

Stanley guardava il libro delle opere di Shakespeare che si consumava rapidamente al fuoco. Ecco. Ormai non c'era più poesia, né civiltà con lui. Solo la grande tenebra di un continente nemico.
Ma restava il vero "tara-tara", il libro della spedizione, i suoi tre anni di vita. E lui, Stanley, era salvo, e con lui tutti i suoi compagni. Mormorò: - Grazie, William! E pensò insieme che era maledettamente strano essere debitori della vita a un uomo morto da più di duecentocinquant'anni…»

Questo racconto offre un classico esempio della particolare arte narrativa di Mino Milani, il cui nome, nella memoria degli Italiani di due generazioni fa, resta legata indissolubilmente alla famosa rubrica della «Domenica del Corriere» intitolata, appunto, «La realtà romanzesca».
Si trattava di racconti abbastanza brevi, tutti accomunati dal brivido dell'imprevisto, dell'avventura, del pericolo, e tutti rigorosamente ispirati a fatti di cronaca realmente accaduti; racconti nei quali il lettore veniva assorbito e, per così dire, risucchiato in un crescendo di tensione emotiva sapientemente dosato, con la sensazione di angoscia quasi fisica per il fiato di un sinistro destino che si fa sempre più vicino e minaccioso.
Ma, per la maggior parte, i racconti di Milani terminavano con un inaspettato colpo di scena e con un lieto fine tanto imprevedibile quanto rasserenante. Il climax drammatico non era finalizzato all'orrore per se stesso e non intendeva trasformarsi nel veicolo di una visione pessimistica della vita; anzi, si risolveva generalmente in una celebrazione delle capacità dell'uomo di districarsi da una situazione difficile e rischiosa.
In questo senso, i racconti di Mino Milani possono essere accostati a quelli del «Decamerone» in cui Giovanni Boccaccio esalta l'intelligenza umana, l'astuzia, le risorse dell'inventiva e l'arte di ribaltare, magari all'ultimo minuto, situazioni quasi disperate, come nel caso della celebre novella di Andreuccio da Perugia; oppure in quello, ancora più noto - anche perché illustrato dal pennello di Sandro Boticelli - di Nastagio degli Onesti.
Nato a Pavia nel 1928, Milani è stato anche autore di storie a fumetti e collaboratore del «Corriere dei Ragazzi»; inoltre, accanto al ciclo de «La realtà romanzesca», ha scritto numerosi romanzi storici e di genere avventuroso, come «Garibaldi e i Mille» (1960), «L'avventura di Tommy River» (1969), «I quattro di Candia (1973), «Romanzo militare» (1987), «Fine della battaglia» (1993), «Il figlio di Davy Crockett» (1995).
Tutto questo aiuta a capire la particolare commistione di generi che caratterizza i racconti che gli hanno dato maggiore notorietà; e anche le ragioni per le quali la critica accademica, notoriamente schizzinosa nei confronti della letteratura per ragazzi, specialmente quella di avventura, gli abbia negato in sostanza quel riconoscimento di cui invece il vasto pubblico, e specialmente i lettori de «La Domenica del Corriere», non sono mai stati avari.
Nel racconto che qui presentato, «Essere o non essere», si palesano tutti i pregi (e i difetti) della narrativa del Nostro.
Lo stile è vivacissimo, scattante, giornalistico; i dialoghi sono ridotti all'essenziale; ma, a differenza di quanto avviene nella narrativa di Hemingway, lo studio psicologico dei personaggi ha grande importanza per lo svolgimento dell'azione, e sia pure colto nei rapidi minuti che precedono la catastrofe o la salvezza, in un'alternativa secca che non lascia spazio ad alcuna soluzione di compromesso.
Il thriller si sposa con l'avventura, la psicologia con l'azione rapida e decisa: il tutto in un impasto ben confezionato, anche se con qualche tendenza alla semplificazione sia dal punto di vista storico, che da quello dei caratteri rappresentati.
Nel caso specifico, si potrebbe osservare che Henry Mortin Stanley (1840-1904) fu il tipico rappresentante dell'esploratore arrogante e crudele, che organizzava i suoi viaggi come vere e proprie campagne militari, assoldando decine di uomini armati e aprendosi la strada col ferro e col fuoco; e che egli mise le proprie indubbie capacità al servizio di un avventuriero senza scrupoli come Leopoldo del Belgio, l'uomo che nel giro di pochi anni trasformò il Congo in un inferno, ove milioni di indigeni erano sottoposti ai peggiori eccessi di un colonialismo affaristico, in cui la lentezza nel lavoro delle piantagioni era punita con il taglio della mano destra o con la fustigazione fino alla morte del malcapitato.
Un tipo, insomma, poco amante di Shakespeare e molto pratico, invece, di pistole e carabine; mentre, nel racconto di Milani, si direbbe un intellettuale disinteressato e romantico, che aborre dal versare il sangue, e che rischia la propria vita per la salvezza dei propri uomini.
Si potrebbe anche osservare, volendo, che la superstizione dei Badwende non è poi così assurda come ci si vuole far credere, visto che gli uomini bianchi in terra d'Africa erano appunto soliti servirsi della carta e dell'inchiostro per spossessare gli indigeni delle proprie terre e per imporre ad una controparte assolutamente ignara il protettorato della potenza di cui erano emissari. Valga per tutti il caso del commerciante tedesco F. A. E. Lüderitz che beffò, con un trattato in piena regola, gli indigeni dell'insediamento di Angra Pequeña, nell'Africa Sud-occidentale, estorcendo una loro firma che lo autorizzava a confiscare quasi tutte le terre avite (cfr. F. Lamendola, «Namibia 1904: il genocidio dimenticato del popolo Herero», nr. 1 del 2007 de «Il pensiero mazziniano» di Forlì, riv. Quadrimestrale dell'Associazione Mazziniana Italiana, pp. 137-171; consultabile anche sul sito di Arianna Editrice).
Tuttavia, riteniamo che si tratterebbe di critiche improprie, poiché Mino Milani non intendeva fare un resoconto storico, bensì delineare una situazione di emergenza che richiedeva a Stanley il massimo di capacità d'improvvisazione e di sangue freddo; ed è buona regola, per la critica letteraria (e artistica in genere) non pretendere da un autore più di quello che egli ha inteso offrire al suo pubblico, né rimproverargli di non avere adottato una diversa linea espressiva. Uno scrittore va giudicato per quello che ha voluto fare e non per quello che i signori critici avrebbero preteso da lui, in base alle proprie aspettative e alla propria ideologia.
Mino Milani conosceva l'arte di avvincere, di impressionare, di sorprendere, insomma di tenere il lettore avvinto alla sua pagina riga per riga, parola per parola, dall'inizio alla fine.
Gianni Rodari ha scritto di lui che «non è un romanziere di una volta, ma uno scrittore d'oggi,, contemporaneo del cinematografo e della televisione: due invenzioni con le quali ha fatto da un pezzo i suoi conti».
La sua tecnica narrativa, derivata in parte dalla sua frequentazione delle storie a fumetti e della narrativa per la gioventù (oltre che dell'ambiente cinematografico e televisivo, avendo collaborato con registi del calibro di Dino Risi e Carlo Lizzani), era una perfetta macchina per suscitare il coinvolgimento del lettore, svolgendo quella stessa funzione che, quasi un secolo prima, era stata ricoperta dai romanzi d'appendice, pubblicati a puntate sui giornali; e che qualche rotocalco italiano continuava a pubblicare, secondo tale formula, ancora negli anni Sessanta e Settanta del Novecento).
Inoltre, essa presenta non poche affinità con un altro genere disprezzatissimo dai critici paludati, ma non privo di interesse, se non altro sul piano sociologico, perché assai amato dal pubblico medio: quello del fotoromanzo.
Quindi, se non possono pretendere di occupare una posizione eminente nella cornice della produzione narrativa italiana, almeno a livello artistico vero e proprio, i racconti di Mino Milani meritano senz'altro un posto non irrilevante nella storia del gusto dei lettori italiani di più facile contentatura: quelli che compravano un libro giallo o un volumetto di fantascienza all'edicola della stazione, prima di salire sul treno dei pendolari, per recarsi al lavoro.
E non è un merito del tutto insignificante, visto che quel posto, i racconti di Milani, se lo sono guadagnato anche grazie ad una indubbia dose di buon gusto, a una grossa padronanza del mestiere, e infine ad un sincero calore umano che ne riscattava le atmosfera truculente e, generalmente, un po' sensazionalistiche.