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Etologia, guerra e politica

di Leonardo Marchettoni - 28/07/2009

 

1. L'etologia, storia e concetti

In questo lavoro cercherò di affrontare la questione se nello scatenamento della conflittualità bellica entrino in gioco delle predisposizioni biologiche innate, operanti su un piano di autonomia rispetto alle motivazioni razionali. Per esplorare questa possibilità intendo servirmi degli strumenti concettuali elaborati dalla ricerca etologica, offrendo una sintetica presentazione degli scritti intorno all'aggressività e alla guerra di Konrad Lorenz e Irenäus Eibl-Eibesfeldt.

L'etologia è la disciplina naturalistica che studia il comportamento animale analizzandolo comparativamente alla luce dell'evoluzionismo darwiniano (1). In questa ottica il comportamento è visto come un fenomeno soggetto alla selezione naturale: nel corso delle generazioni si affermano ereditariamente i moduli di comportamento che in un certo habitat risultano più redditizi. Ma perché l'evoluzione possa operare sul comportamento, l'etologia deve presupporre la trasmissibilità genetica delle sequenze motorie di base, estendendo così la portata di un modello esplicativo, incentrato sul principio della selezione del più adatto, assai potente e 'corroborato'.

L'etologia, come ambito di ricerca autonomo, nasce all'inizio del nostro secolo con gli studi di Oskar Heinroth sul comportamento sociale degli anatidi ma la vera fondazione della disciplina avviene nel 1935, quando Konrad Lorenz pubblica l'articolo Der Kumpan in der Unwelt des Vogels (2). La novità dell'approccio lorenziano consiste nel rilievo attribuito all'azione istintiva. Lorenz, confrontando il comportamento di specie diverse, sviluppa il concetto di coordinazione ereditaria: nel repertorio dei comportamenti di un animale ci si imbatte sovente in movimenti riconoscibili, costanti nella forma, che l'animale non ha bisogno di apprendere; a tali movimenti Lorenz assegnò appunto il nome di coordinazioni ereditarie, intendendo evidenziarne in questo modo la natura istintuale rigidamente programmata. L'attivazione delle coordinazioni ereditarie richiede la presenza di opportuni segnali scatenanti, filtrati da schemi percettivi innati, cioè da adattamenti filogenetici della percezione. La catalogazione delle coordinazioni ereditarie permette inoltre di osservare omologie comportamentali, vale a dire somiglianze fra strutture del comportamento dovute alla presenza di un progenitore comune; per questa via diventa possibile pertanto ricostruire precise tassonomie orientate filogeneticamente.

Negli anni successivi Lorenz definisce lo status della nuova scienza assieme a Nikolaas Tinbergen: in questo periodo la ricerca etologica privilegia i fattori istintivi, sottolineando la dicotomia tra innato e appreso, e si contrappone alla zoopsicologia comportamentista nordamericana, che enfatizzava invece l'importanza dell'ambiente nel plasmare il comportamento. La metodologia seguita dagli psicologi comportamentisti, come John B. Watson e Burrhus F. Skinner, infatti, era incentrata sull'analisi del comportamento animale per mezzo di esperimenti in laboratorio; le sequenze motorie esaminate venivano quindi interpretate secondo lo schema del circuito stimolo-risposta, prescindendo completamente dalla storia evolutiva della specie. L'etologia, viceversa, nel porre in rilievo il ruolo della programmazione innata, adotta una prospettiva diametralmente opposta, diacronica e descrittiva, senza tuttavia negare l'incidenza dei comportamenti appresi: è di questi anni la formulazione del concetto di imprinting, una forma peculiare di apprendimento per impressione, caratteristico specialmente degli uccelli, per lo più irreversibile e limitato nell'estensione temporale, che presiede alle relazioni di riconoscimento della madre da parte dei nidiacei.

Nel secondo dopoguerra si apre una importante fase di confronto fra la scuola di Lorenz e l'etologia anglosassone, animata dalle figure di Tinbergen, nel frattempo trasferitosi nel Regno Unito, William H. Thorpe e Robert A. Hinde, che condurrà ad una parziale ridefinizione dei concetti chiave della disciplina. La nuova impostazione, che attribuisce maggior spazio ai fattori ambientali, tende a sfumare la distinzione tra innato ed appreso, poiché riconosce che anche talune sequenze motorie codificate nel patrimonio genetico e trasmesse ereditariamente non sono immediatamente attivabili dopo la nascita, ma richiedono un certo periodo di tempo in cui perfezionarsi (3).

A partire dagli anni sessanta l'etologia ha esteso sempre più il suo ambito di indagine allo studio del comportamento umano. In questo campo si tende a mettere in risalto quegli aspetti dell'agire dell'uomo che si basano su una programmazione genetica (anche nell'uomo possiamo rintracciare coordinazioni innate, adattamenti filogenetici della percezione, disposizioni innate all'apprendimento) e, in una diversa direzione, a esaminare quei tratti comportamentali umani che hanno dei precedenti nel mondo animale: la comunicazione non verbale, l'apprendimento per imitazione, l'uso di strumenti, la tradizione, il gioco. L'etologia umana si propone di investigare le radici biologiche del comportamento dell'homo sapiens, portando alla luce quegli aspetti che sono interpretabili come un retaggio del nostro cammino evolutivo. Quest'operazione può tuttavia sollevare perplessità allorché assuma come oggetto quelle dimensioni dell'attività umana che coinvolgono la riflessione morale e il problema della responsabilità individuale. Una situazione di questo tipo si verificò in seguito alla pubblicazione del saggio di Lorenz Das sogenannte Böse (4), in cui l'etologo austriaco sosteneva, come vedremo, la natura istintuale della pulsione aggressiva e, conseguentemente, le sue limitate possibilità di compressione.

La teoria di Lorenz era destinata a suscitare critiche feroci, soprattutto da parte della psicologia statunitense, ancora legata al comportamentismo, che non accettava l'estensione all'uomo dei paradigmi concettuali elaborati per spiegare il comportamento animale. La ricezione delle dottrine lorenziane fu ostacolata in ogni modo, trasportando sovente il dibattito sul piano del confronto ideologico: vi fu persino chi non esitò a muovere l'accusa di razzismo e a sollevare il sospetto di passate compromissioni col regime hitleriano. Nonostante questa opposizione, l'influenza di Das sogenannte Böse è andata progressivamente consolidandosi e oggi, a distanza di quarantacinque anni dalla sua formulazione, la teoria dell'aggressività di Konrad Lorenz rappresenta un inevitabile momento di confronto nella riflessione sul problema della guerra e sui mezzi disponibili per estirparla o, almeno, renderla più tollerabile. È necessario, quindi procedere a una sua dettagliata analisi che ne evidenzi i nodi problematici rilevanti da un punto di vista filosofico-politico; passerò quindi ad esaminare quelle correzioni introdotte nella teoria di Lorenz dal suo più famoso allievo, Irenäus Eibl-Eibesfeldt.

2. La teoria dell'aggressività di Konrad Lorenz

Konrad Lorenz è considerato comunemente il padre dell'etologia; la sua figura così caratteristica, la sua vasta produzione divulgativa e l'attribuzione del premio Nobel per la medicina (nel 1973 assieme a Nikolaas Tinbergen e Karl von Frisch) gli hanno assicurato una popolarità duratura anche presso il grande pubblico. L'ambito di indagine in cui spazia l'opera di Lorenz travalica i confini della pura ricerca biologica per accostarsi a tematiche più strettamente di pertinenza dell'indagine filosofica, per cui si rende opportuno premettere all'analisi dei suoi scritti sull'aggressività una rapida ricognizione delle sue posizioni epistemologiche, come emergono soprattutto in Die Rückseite des Spiegels (5).

La gnoseologia di Konrad Lorenz è imperniata su una salda convinzione: per giustificare la conoscenza umana è necessario indagare la struttura biologica dell'apparato sensoriale. La nostra immagine del mondo è funzione dei nostri organi di senso e la conformazione dell'apparato percettivo è modellata dalla selezione naturale. In ultima analisi, la teoria della conoscenza di Lorenz ha dunque alla sua base l'evoluzionismo darwiniano. In linea con queste assunzioni, Lorenz, sin dal 1941, aveva reinterpretato la dottrina kantiana dell'a priori sostenendo che la filogenesi determina le forme necessarie della conoscenza (6). Più precisamente, Lorenz spiega l'insorgere del pensiero concettuale, in una precisa fase della storia evolutiva, attraverso l'integrazione di prestazioni più elementari ed eterogenee (rappresentazione centralizzata dello spazio, autoesplorazione, movimento volontario, imitazione, tradizione). Da questo punto di vista non solo la forma dell'intuizione dello spazio e del tempo, ma anche le categorie kantiane dell'intelletto e la stessa logica classica hanno basi empiriche e l'illusione della loro validità assoluta è determinata semplicemente dal loro successo adattativo, dall'essere un medium intrascendibile nella nostra rappresentazione del mondo (7).

In questa posizione tuttavia è assente qualsiasi venatura di riduzionismo. Ripercorrere la storia naturale della mente non significa attivare una riconduzione dei processi psichici dall'universo mentale al dato neurologico. Al contrario, Lorenz, nel descrivere le componenti biologiche dei meccanismi conoscitivi, sottolinea ripetutamente come nel momento in cui le facoltà elementari si integrano in un'unità nuova si compia un salto qualitativo non prevedibile. Il pensiero astratto è un'acquisizione specificamente umana che non può essere indagata con un approccio di tipo 'composizionale', ma richiede una comprensione globale della dimensione adattativa che entra in gioco nella genesi biologica dell'apparato conoscitivo dell'uomo (l'apparato immagine-del-mondo).

Ad un diverso livello, il paradigma evoluzionistico viene esteso anche all'interpretazione del progresso culturale e scientifico. La dinamica dello 'spirito umano', come costruzione sovraindividuale segue le stesse strade della filogenesi (8). Questa affermazione può essere riguardata sotto una duplice prospettiva: in primo luogo, nell'evoluzione culturale entrano in gioco facoltà innate acquisite filogeneticamente (ad esempio la programmazione istintuale della competenza linguistica, autorevolmente confermata da Noam Chomsky e dalla sua scuola) (9); secondariamente, il contenuto delle nostre teorie sul mondo si affianca al contenuto del genoma e, non diversamente da quello, è soggetto alla pressione selettiva. A una tale impostazione del problema gnoseologico non corrisponde però alcuna semplificazione ingenua del procedere della scienza; Lorenz non alimenta una fiducia gratuita nella necessaria progressione finalistica del cammino evolutivo e neppure crede che la scienza proceda approssimandosi asintoticamente alla verità. Anzi, afferma esplicitamente la non pianificabilità dell'evoluzione culturale e l'incidenza, nel lavoro scientifico di fattori non razionalizzabili come il senso estetico e le resistenze dell'abitudine (10).

L'approccio evoluzionistico alla teoria della conoscenza viene compendiato da Lorenz nella formula, derivata da Donald Campbell, realismo ipotetico (11). La dicitura 'realismo', tuttavia, non deve far pensare che la posizione di Lorenz possa essere assimilata ad una declinazione del realismo quale viene inteso nel dibattito filosofico attuale: delle due asserzioni che contraddistinguono quest'ultimo, e che affermano l'indipendenza del mondo dalla conoscenza che di esso possediamo e l'indipendenza della verità dei nostri giudizi dalla nostra capacità di accertarla, Lorenz sottoscriverebbe soltanto la prima, che compendia la radicale opposizione ad ogni forma di idealismo. L'adozione del paradigma darwiniano, del resto, richiede che si accetti una preliminare compromissione ontologica: tutto ciò che ci viene segnalato dal nostro apparato conoscitivo deve corrispondere a dati di fatto reali del mondo extrasoggettivo, dal momento che esso stesso fa parte del mondo e nella sua contrapposizione ad altri oggetti altrettanto reali ha raggiunto la sua forma attuale.

D'altro canto, il realismo ipotetico presenta, paradossalmente, significative analogie con alcune forme contemporanee di antirealismo (12). Per il realista metafisico il mondo consiste di una totalità determinata di oggetti indipendenti dalla mente e c'è una e una sola descrizione completa di come il mondo è; inoltre, la verità delle teorie scientifiche è, almeno in via di principio, accertabile (13). Al contrario, secondo Lorenz, la nostra immagine del mondo, che si forma in base al contenuto percettivo trasmesso dai sensi ed elaborato razionalmente, riflette soltanto certi aspetti della realtà, e precisamente quegli aspetti che sono funzionali alla nostra sopravvivenza: le nostre descrizioni del mondo sono solo una rappresentazione, utile ma parziale e imperfetta (14). In definitiva, ciò che distingue soprattutto la posizione di Lorenz è l'impulso a sottolineare, nell'impresa scientifica, l'aspetto della costruzione empirica che poggia sull'evidenza fenomenica accessibile al nostro apparato sensoriale e osserva un misurato agnosticismo sulle cose in sé.

Nel 1963, alla vigilia della pubblicazione di Das sogenannte Böse, lo studio delle cause dell'aggressività nell'ambito della ricerca psicologica vedeva la prevalenza degli indirizzi che spiegavano l'aggressività in base all'azione di fattori ambientali. La ricerca più influente in materia, condotta nel 1939 da John Dollard, aveva collegato l'aggressività alla frustrazione: l'impulso aggressivo sarebbe diretto contro l'agente della frustrazione stessa e sarebbe proporzionale all'intensità di quella (15). Ne segue, pertanto, che l'aggressività può essere controllata rimuovendone le cause dirette o inibita per mezzo della minaccia di una punizione. Lorenz si oppone decisamente a questo modello esplicativo, fondato sull'opinione totalmente errata, a suo avviso, che i comportamenti animali, come quelli umani, siano prevalentemente reattivi e che possano venire illimitatamente modificati attraverso l'apprendimento, intraprendendo una completa inversione di prospettiva.

L'insieme degli elementi di base del comportamento animale ed umano è costituito da fattori innati - sequenze motorie, pulsioni e segnali scatenanti - dalla cui integrazione, a livelli sempre più alti, sorgono le funzioni superiori come l'apprendimento. L'aggressività, in questo quadro concettuale, appare essenzialmente spontanea, una pulsione primaria profondamente radicata e pertanto non coercibile. La rimozione degli oggetti su cui essa si dirige non porta quindi alla sua eliminazione, anzi, poiché ogni movimento istintivo, se privato della possibilità di sfogo, ha la proprietà di rendere tutto l'organismo animale inquieto e di fargli ricercare attivamente gli stimoli che innescano quel movimento, l'aggressività è per principio non estirpabile per mezzo di interventi sull'ambiente. Inoltre, il comportamento di appetenza si accompagna a un abbassamento del valore di soglia degli stimoli innescanti e questo, in un ambiente in cui siano rimosse le sorgenti di frustrazione, può dirottare l'impulso aggressivo su oggetti che in condizioni normali non lo avrebbero scatenato (16). Tuttavia, l'aggressività non è, in situazioni non patologiche, distruttiva ma ha sempre un significato adattativo preciso. L'opera di Lorenz è un tentativo di rendere conto di questa funzionalità, attraverso la chiarificazione degli scopi che l'aggressività, di volta in volta, soddisfa.

In primo luogo, Lorenz distingue tra lotta interspecifica e intraspecifica, a seconda che l'impulso aggressivo sia diretto contro membri della stessa specie o di specie diverse. La lotta interspecifica è, nel mondo animale, un fenomeno circoscritto: si presenta soltanto nel comportamento predatorio (in cui però è singolarmente dissociata dagli atteggiamenti che accompagnano l'aggressività vera e propria), in alcuni casi in cui taluni predatori uccidono altri predatori concorrenti, nell'attacco sferrato dalle potenziali prede allorché, trovandosi in gruppo, incrocino il predatore isolato (il cosiddetto mobbing) e, infine, nella reazione critica, il comportamento di difesa dell'animale cui sia preclusa la via di fuga (17). Nel caso della lotta interspecifica l'utilità per la specie è evidente; più complicato è spiegare quali compiti assolva l'aggressività verso i conspecifici.

Questa seconda forma di aggressività si sviluppa probabilmente a seguito della concorrenza tra esemplari della stessa specie, anche se, come vedremo, acquista in seguito funzioni ulteriori. La comparsa dell'aggressività intraspecifica è da ricollegare a due esigenze distinte: da una parte la difesa del territorio, dall'altra la selezione dei maschi più forti al momento della riproduzione (18). La distribuzione regolare di animali di una stessa specie su un'area abitabile è, secondo Lorenz, la più importante funzione dell'aggressività intraspecifica, in quanto permette un'allocazione ottimale delle risorse tra gli individui, ed insieme quella in corrispondenza della quale è probabilmente sorto l'impulso aggressivo. In questo caso, gli scontri tra conspecifici possono avere esiti mortali per il soccombente, anche se a ciò si arriva solo molto di rado, poiché l'animale che si avventuri al di fuori del suo territorio reagisce generalmente con la fuga nel caso che si imbatta in un altro esemplare della sua specie.

L'aggressività territoriale è tipica degli animali che vivono isolati al di fuori del periodo riproduttivo mentre negli animali sociali prevale la seconda funzione più sopra ricordata, vale a dire la selezione degli individui che possono garantire il migliore pool genico alla discendenza e contemporaneamente proteggere in maniera più efficace la prole. E' questo il caso degli animali che trascorrono tutta la loro esistenza in branchi come i cervidi, presso i quali, infatti, i combattimenti fra i maschi sono lunghi ed assai elaborati (19).

Nel caso delle specie animali più evolute che conducono una vita sociale l'aggressività ha, inoltre, un'utilità supplementare in quanto consente l'instaurarsi di vincoli gerarchici. In questo modo viene arginata la lotta fra i membri della comunità dal momento che ognuno degli individui sa in quale posizione si colloca ciascun altro esemplare e quindi adegua il suo comportamento a seconda se si debba confrontare con un animale subordinato o sovraordinato. Inoltre, la società acquisisce una particolare coesione e solidità che gli deriva dal ruolo che in essa ricoprono gli esemplari più anziani ed esperti. Questi infatti detengono la posizione gerarchicamente più elevata che li pone in condizione di trasferire per tradizione agli individui più giovani l'esperienza appresa nella loro vita (20).

In quanto detto sinora è già contenuto implicitamente un dato della massima importanza che è necessario porre in adeguato rilievo. L'aggressività intraspecifica, lungi dal caratterizzarsi come un istinto primitivo, un retaggio da superare che ostacola la formazione di organismi sociali complessi, costituisce invece un necessario presupposto dell'integrazione in comunità ordinate. Tuttavia, se l'aggressività presso gli animali sociali non fosse in qualche modo regolata comporterebbe un peso intollerabile in termini di individui morti o gravemente feriti, tanto che i vantaggi che ho elencato non basterebbero a compensarli. Per tale motivo nella storia evolutiva si sono sviluppati una serie di meccanismi idonei a limitare la distruttività delle pulsioni aggressive, che hanno precisamente il compito di rendere possibile la convivenza di numerosi animali all'interno di una comunità. Questi meccanismi sono innati come l'istinto di aggressione e vengono da Lorenz posti in relazione col fenomeno della ritualizzazione filogenetica, sul quale, pertanto, è opportuno soffermarsi preliminarmente (21).

Il concetto di ritualizzazione fu introdotto nella seconda decade del nostro secolo dallo zoologo Julian Huxley - il fratello dello scrittore Aldous - per definire l'impiego di moduli comportamentali non sessuali nel contesto del corteggiamento da parte di alcuni uccelli. Abbiamo già notato come ogni animale sia provvisto di un bagaglio di sequenze motorie, presenti sin dalla nascita, che vengono attivate da opportuni stimoli ambientali. Queste sequenze motorie compaiono generalmente nel quadro di attività ben individuate, ma possono acquistare, sotto la spinta della selezione, un significato ulteriore. La ritualizzazione consiste precisamente nel ri-orientamento adattivo del comportamento in direzione espressiva. In altri termini, certi schemi motorii perdono, nel corso della filogenesi, la loro specifica funzione originaria e diventano pure cerimonie 'simboliche', dei segnali indirizzati ai membri della stessa specie.

La nuova funzione comunicativa del modulo comportamentale esercita una pressione selettiva sull'ulteriore evoluzione di esso, accentuando tutte le caratteristiche che rendono più efficace ed univoco il decorso motorio nell'assolvimento del compito di segnalazione. Spesso questo processo è accompagnato dallo sviluppo di strutture fisiche capaci di evidenziare l'azione. Inoltre, e questo è il dato più importante nell'economia del discorso, una volta che la ritualizzazione si è compiuta la coordinazione motoria ritualizzata si rende totalmente indipendente dalla situazione alla quale era originariamente asservita: la catena di azioni che in un primo tempo adempiva ad altri fini diventa fine a se stessa non appena si ritualizza.

Con la ritualizzazione, dunque, nasce un nuovo istinto completamente slegato dalle altre pulsioni e capace di contrastarle; anche la pulsione aggressiva può venire controllata in questo modo. Così il rito riesce nell'impresa quasi impossibile di ostacolare quegli effetti dell'aggressività intraspecifica che sono dannosi alla vita comunitaria, senza per questo impedire quelle sue funzioni indispensabili alla conservazione della specie. La pulsione, infatti, in generale utile, viene lasciata invariata; per il caso specifico però nel quale si potesse dimostrare nociva, vengono messi in moto dei meccanismi inibitori assolutamente specifici, creati ad hoc.

Lorenz afferma chiaramente che i comportamenti che hanno origine in questa maniera sono, almeno esteriormente, "analoghi alla morale" (22). Se ne possono osservare esempi eloquenti nei combattimenti ritualizzati di molti vertebrati, a partire dai pesci ossei. Lo sviluppo dei combattimenti ritualizzati, nel corso della filogenesi, a partire dalla primitiva lotta cruenta, può essere articolato, seguendo la ricostruzione che ne dà Lorenz, nell'azione indipendente di tre processi. Il primo passo dal combattimento cruento a quello ritualizzato consiste nell'allungamento degli intervalli di tempo che intercorrono tra l'esecuzione dei singoli movimenti minacciosi che, presso tutte le specie in cui si verificano duelli, fanno da cornice allo scontro, e lo scoppio di violenza finale. Questa dilatazione temporale non è ancora la ritualizzazione ma rappresenta una premessa che la rende possibile.

Mano a mano che si allunga la durata delle singole coordinazioni motorie di minaccia queste subiscono un processo di deformazione che conduce a mimiche esagerazioni, a ripetizioni ritmiche e a formazioni di strutture e colori che accentuano visivamente il movimento. L'atto del minacciare tende ad esaurire in sé lo scontro ritardando il passaggio al combattimento vero e proprio, in modo da evitarlo quando sia manifesta la disparità di forze tra i due contendenti. Si potrebbe forse dire che le sequenze motorie implicate negli atti di minaccia nella loro espansione progressiva consumano l'energia accumulata in un'attività simbolica, prima che sfoci nell'aggressione.

Il terzo processo che contribuisce alla trasformazione del combattimento cruento nel combattimento ritualizzato è di natura completamente diversa. Negli animali superiori assistiamo alla comparsa di peculiari meccanismi fisiologici che inibiscono i movimenti d'attacco. Sono esempi di questo genere di adattamenti i segnali infantili che bloccano l'aggressione degli adulti nei confronti dei piccoli e che compaiono, nella storia evolutiva, in relazione all'allungamento del periodo che i nuovi nati trascorrono presso i genitori. Un fenomeno analogo si riscontra, presso numerose specie, nella fortissima inibizione da parte del maschio ad attaccare la femmina. Ebbene, l'azione dei meccanismi inibitori, la cui efficacia è proporzionale alla pericolosità dell'attacco dell'animale, può essere attivata per mezzo di specifici gesti ritualizzati che prendono il nome di comportamenti di pacificazione o di sottomissione (23). Questi cerimoniali vengono adottati dall'individuo che vuole sottrarsi al combattimento o vuol porre termine ad esso e nella quasi totalità dei casi hanno come effetto l'immediato arresto dell'attacco.

Taluni atti di sottomissione derivano, 'per negazione', dai comportamenti di minaccia, consistendo precisamente nel nascondere quei caratteri fisici - dentatura, artigli, colorazione vivace - che innescano il combattimento; il gesto del lupo che distoglie le fauci dall'avversario, esibendo il collo inerme ne è certo l'esempio più noto. In altri casi gli atteggiamenti di sottomissione derivano dai moduli infantili oppure dal comportamento della femmina durante l'accoppiamento. E' importante notare sin d'ora che anche nell'uomo è possibile rintracciare la presenza di atteggiamenti di pacificazione, ormai privati della loro funzionalità originaria: il sorriso ed il riso altro non sono che ritualizzazioni del comportamento di minaccia che consiste nel digrignare i denti e che, nel corso dell'evoluzione, perduta la primitiva carica di aggressività, hanno acquisito una valenza pacificatrice.

Abbiamo visto finora quale utilità pratica abbia l'aggressività intraspecifica, quale sia il suo ruolo nel distribuire gli individui sul territorio, nel selezionare i maschi provvisti del patrimonio genetico migliore ai fini riproduttivi e nell'organizzazione delle comunità degli animali sociali. Abbiamo visto poi quali meccanismi si siano sviluppati attraverso la ritualizzazione per limitare la pericolosità della pulsione aggressiva. Adesso si tratterà di comprendere come, secondo Lorenz, le cerimonie di pacificazione svolgano un compito ulteriore, ancora più importante, che permette l'instaurarsi di vincoli personali all'interno delle società animali.

Nelle comunità più semplici, nei banchi formati da taluni pesci per esempio, l'aggressività intraspecifica è totalmente assente e questa carenza va di pari passo con la più completa mancanza di strutture interne e di legami autonomi tra i vari individui (24). La nascita di un ordine gerarchico, la comparsa di fattori auto-organizzativi che trasformano la 'schiera anonima' in un 'gruppo', diviene possibile invece, come ho già accennato, solo in seguito all''invenzione' dell'aggressività intraspecifica ed il meccanismo che stabilisce un legame duraturo e 'personale', legame che chiaramente non può essere innato ma deve venire appreso, fra due o più individui, consiste nella modificazione di un modulo comportamentale di attacco.

Questo fenomeno, riscontrabile in specie fra loro assai diverse, che è stato osservato da Lorenz particolarmente presso le oche selvatiche, comporta una ridirezione della pulsione aggressiva: la sequenza motoria primitiva di aggressione viene distolta dall'oggetto che ha innescato lo stimolo per essere rivolta ad un bersaglio sostitutivo e contemporaneamente si ritualizza, inducendo nella controparte una 'risposta'. Il risultato che in questo modo viene conseguito è estremamente importante: ciò che si ottiene è di legare strettamente due individui in un vincolo veramente personale, poiché l'identità del partner ai fini dell'esecuzione della cerimonia di pacificazione non è fungibile, e, nello stesso tempo, di dislocare l'aggressività verso l'esterno, verso altri conspecifici che non condividono l'appartenenza al gruppo (25). La comunità che così si viene a creare può variare considerevolmente nelle sue dimensioni: nelle oche ad esempio è limitata alla coppia riproduttiva, il vincolo instaurato dalla cerimonia di pacificazione, che Lorenz chiama giubilo trionfale, lega soltanto il maschio e la femmina durante il periodo della deposizione delle uova, ma nei mammiferi e particolarmente nei primati il numero di esemplari che sono stretti da rapporti di mutua dipendenza, conducendo un'esistenza propriamente sociale può crescere notevolmente.

Dunque, Lorenz ha così mostrato come il sorgere di ogni legame individuale ed esclusivo fra conspecifici sia da porsi in relazione con l'istinto aggressivo e come nelle cerimonie di pacificazione in cui si stringe e si consolida quel legame sia contenuta almeno allo stato latente una certa misura di aggressività. Ogni vincolo personale, in altre parole, si origina, nel corso della filogenesi, a partire dall'aggressività intraspecifica: "non c'è amore senza aggressività".

Gli ultimi tre capitoli di Das sogenannte Böse sono i più controversi dell'opera, quelli che maggiormente hanno suscitato critiche e polemiche. Lorenz, infatti, tenta di estendere all'uomo i risultati della sua ricerca, considerando il funzionamento dei meccanismi inibitori nella specie umana, il perché questi frequentemente falliscono, i pericoli del progresso e gli antidoti opponibili al dilagare della violenza e alla minaccia della guerra. Quest'ultima parte, è bene precisarlo subito, viene presentata dallo stesso autore come una riflessione non supportata dallo stesso carattere di scientificità dei capitoli precedenti: l'estrapolazione di concetti elaborati in relazione al mondo animale e la lorotrasposizione all'uomo, infatti, deve essere necessariamente accompagnata da una accurata considerazione di quei fattori che segnano la distanza, lo 'iato', come dice Lorenz, tra la nostra specie e gli altri esseri viventi (26).

Il pensiero concettuale ed il linguaggio hanno cambiato completamente l'evoluzione umana, sviluppando un sistema capace di acquisire informazione e ritrasmetterla in modo enormemente più rapido dell'adattamento del codice genetico. Ciò che differenzia radicalmente la cultura umana dalle semplici tradizioni esistenti anche presso gli animali è la possibilità di trasferire ad altri un contenuto appreso anche in assenza dell'oggetto al quale esso si riferisce; in tale maniera il nostro mondo culturale possiede una rapidità di diffusione che, attraverso il progresso tecnologico, si è incrementata sino a regolarsi sulla velocità limite dell'universo fisico, la velocità della luce. All'evoluzione darwiniana, basata sull'unità di tempo della singola generazione, con la comparsa dell'uomo si affianca l'evoluzione culturale, incomparabilmente più rapida, generando un divario sempre più ampio fra le condizioni ambientali in cui la nostra costituzione biologica si è modellata e le esigenze che ci impone oggi la convivenza nelle moderne società post-industriali. La selezione naturale non riesce a tenersi al passo con le continue ristrutturazioni del sistema culturale e questa situazione comporta una crescente inadeguatezza della programmazione istintuale umana, calata in un contesto ambientale completamente diverso da quello che ne aveva determinato la configurazione che ancora oggi conserva (27). In particolare la pulsione aggressiva, innata in ciascuno di noi, può divenire estremamente pericolosa quando vengano elusi i meccanismi naturali preposti al suo controllo ed insieme scompaiano le condizioni in risposta alle quali era comparsa.

Gli ominidi dai quali l'uomo discende direttamente erano provvisti, al pari delle attuali scimmie antropomorfe, di una forte carica di aggressività intraspecifica, estremamente funzionale in rapporto all'ordinamento gerarchico della comunità, e contemporaneamente di freni inibitori assai meno sicuri di quelli operanti presso i carnivori più specializzati. Infatti, come si è visto, l'efficacia di quei meccanismi è proporzionale alla capacità di un individuo di uccidere rapidamente animali più o meno della stessa grandezza, capacità di cui i nostri antenati preumani non erano naturalmente dotati: la vittima potenziale, di fronte all'attacco di un altro individuo, aveva sempre la possibilità di mettere in atto cerimoniali di pacificazione prima di venire seriamente ferita. L'invenzione delle armi artificiali, moltiplicando la pericolosità di ogni atto di aggressione, introdusse così un improvviso fattore di squilibrio tra le capacità di uccidere e le inibizioni sociali (28).

L'umanità nascente, continua Lorenz, sarebbe andata in contro all'autodistruzione se, a compensare la diffusione delle armi, non fosse sorta la responsabilità morale. Anche questa facoltà affonda le sue radici nel patrimonio istintuale dell'uomo e precisamente nei fortissimi istinti sociali che, nei primati, legano i membri della stessa tribù. Più precisamente, Lorenz ipotizza che la comparsa della responsabilità morale sia da porre in relazione con una facoltà speciale, assolutamente innata, che rende possibile la percezione dei valori come la vita, l'amore, l'amicizia, la bellezza e ricollega a essi un'esperienza interiore di tipo emozionale (29). La sensibilità ai valori, dunque, evolutasi in una morale responsabile, ripristinò l'equilibrio perduto fra capacità e inibizione ad uccidere. A questo apparato di contenimento dell'aggressività di origine filogenetica si affiancò gradatamente il sistema di norme sociali elaborato per via culturale, consistente di regole di condotta sviluppatesi nell'ambito di ciascuna comunità e trasmesse di generazione in generazione.

La genesi di questo apparato normativo è da porre in relazione con il fenomeno della ritualizzazione culturale, un processo che rappresenta la controparte, a livello della comunicazione propriamente simbolica, della formazione filogenetica di segnali di cui ho già avuto modo di parlare. In maniera non dissimile dalla ritualizzazione filogenetica, il rito culturale consiste nell'acquisizione da parte di un certo modulo comportamentale di una funzione di comunicazione totalmente nuova che gradatamente soppianta lo scopo primitivo. L'aspetto essenziale, comune tanto alla ritualizzazione filogenetica che a quella culturale, è dato dalla comprensione dello schema motorio messo in atto e dalla conseguente capacità di prevedere il comportamento successivo, ma, mentre nel primo caso la 'comprensione' si fonda sulle prestazioni acquisite per via ereditaria da colui che riceve il segnale, nella ritualizzazione culturale tanto il processo della trasmissione quanto quello della ricezione di simboli si fondano sull'apprendimento e sulla facoltà di tramandare culturalmente i caratteri acquisiti.

Il fenomeno della ritualizzazione culturale ha coinvolto, sin dagli albori della storia dell'uomo, un numero vastissimo di moduli comportamentali tra quelli posti in essere in presenza di altre persone, proibendo tutta una serie di comportamenti istintivi (le buone maniere sono un tipico prodotto della ritualizzazione); si giunge, per questa via, ad imporre un controllo ferreo e pervasivo al soddisfacimento delle proprie pulsioni, che vengono disciplinate e rese socialmente accettabili. Non diversamente dalla ritualizzazione filogenetica, anche la ritualizzazione culturale conduce così al temperamento dell'aggressività, rafforzando l'efficacia dei meccanismi inibitori istintivi e codificando nuove cerimonie di pacificazione e regole di combattimento non cruento, e insieme contribuisce al consolidamento dei legami interni al gruppo, ne accresce la coesione, dirottando all'esterno, in direzione delle altre comunità indipendenti, la carica aggressiva spontanea. Questo risultato è possibile perché le usanze tipiche di ciascun gruppo, grazie alla ripetizione costante nel tempo, raggiungono una particolare autonomia, creando nuove motivazioni al comportamento, indipendenti dalle funzioni originarie di comunicazione, che l'individuo ricerca per se stesse, sino ad attingere ad una dimensione sacrale fondata sulla persuasione che la rottura delle regole tradizionali e dell'ordine che ad esse si collega comporti accadimenti funesti (30). La ritualizzazione culturale, in sostanza, istituisce una polarizzazione interno-esterno, contribuendo a definire uno spazio - quello della comunità - in cui la pulsione aggressiva deve essere controllata e ri-direzionata, in opposizione all'altro spazio, ben più vasto, esterno al gruppo, nel quale l'aggressività recupera la sua funzionalità.

Questo profilo assume, ai fini della presente ricerca, un rilievo particolare: norme e riti sociali culturalmente evoluti diventano, col passare delle generazioni, caratteristici del nucleo sociale in seno al quale hanno avuto origine quanto le qualità ereditarie, evolutesi con la filogenesi, sono caratteristiche di sottospecie, specie, generi e unità tassonomiche superiori. La loro divergenza nello sviluppo storico erige barriere fra unità culturali nello stesso modo in cui l'evoluzione divergente le erige fra le specie; questo processo per tale motivo è stato chiamato dallo psicanalista Erik Erikson pseudo-speciazione (31). La pseudo-speciazione è alla base della differenziazione delle culture umane ma, allo stesso tempo, può innescare pericolose conflittualità tra culture confinanti; può condurre infatti, ed è questo il punto cruciale, a un indebolimento dei meccanismi innati di inibizione dell'aggressività, nella misura in cui impedisce l'operazione di riconoscimento degli appartenenti a pseudo-specie diverse come esseri umani, paralizzando la comunicazione filogeneticamente ritualizzata che dovrebbe accomunare tutti gli uomini in quanto membri della stessa specie biologica (32).

Quando l'umanità primitiva, organizzata in orde similmente ai primati superiori, ebbe raggiunto una certa sicurezza in virtù della scoperta del fuoco e della fabbricazione di armi e di utensili, ai fattori selettivi di natura ambientale si sostituì, secondo Lorenz, l'incidenza prevalente della concorrenza intraspecifica. Questo stato di cose indirizzò il successivo cammino evolutivo della razza umana verso un incremento delle pulsioni aggressive a cui corrispose un ulteriore rapido accentuarsi della conflittualità fra gruppi limitrofi e la formazione parallela di una cultura della guerra (33). In questo processo di rafforzamento dei comportamenti bellicosi, infatti, l'evoluzione culturale dovette operare parallelamente, alla selezione genetica, sia in modo diretto, attraverso l'esaltazione rituale dell'aggressività e la perpetuazione delle 'virtù guerresche' tradizionali, sia indirettamente in conseguenza del carattere fortemente esclusivo, di cui si è già detto, dei moduli comportamentali sviluppati all'interno di ciascuna comunità.

Così la carica di aggressività nell'uomo si è accresciuta in misura assai maggiore rispetto ai primati, raggiungendo, in taluni casi livelli insostenibili. Lorenz, inoltre, ipotizza che presso alcune comunità, esposte in particolar modo alla minaccia di attacchi da parte delle popolazioni confinanti, l'aggressività si sia incrementata ancor più rapidamente e intensamente, per effetto dell'estrema pressione selettiva. A sostegno di questa controversa conclusione Lorenz riporta gli studi condotti dallo psicanalista Sidney Margolin sugli Ute, una tribù indiana i cui appartenenti sono afflitti in gran numero da nevrosi riconducibili all'ingorgo delle pulsioni aggressive e subiscono con frequenza condanne per crimini violenti, anche se va detto che i dati forniti da Margolin sono stati interpretati diversamente da altri psicanalisti, senza ricorrere a spiegazioni che, in qualche modo, siano strumentalizzabili in chiave razzista (34).

Abbiamo visto come, per Lorenz, l'aggressività umana sia riconducibile alla duplice azione della filogenesi e dell'evoluzione culturale ed al prevalere della concorrenza intraspecifica sulla selezione operata dall'ambiente. Il processo che ha condotto al rafforzamento delle pulsioni aggressive si è svolto entro una cornice ambientale completamente diversa da quella delle società contemporanee. L'aggressività nelle età preistoriche dell'evoluzione umana aveva un preciso significato adattativo, collegato alla conflittualità fra tribù, significato che è del tutto venuto meno allorché l'uomo, divenuto sedentario in seguito all'inizio dell'agricoltura e istituzionalizzata la proprietà privata, ha cominciato a costituire comunità più vaste.

Con l'aumento della popolazione le primitive corti contadine sono divenute regni sempre più estesi nei quali la conoscenza personale, così importante per disinnescare gli istinti aggressivi, non è più possibile al di fuori di una cerchia ristretta. Nelle attuali società post-industriali il fenomeno della spersonalizzazione dei rapporti sociali è portato all'estremo, anche in conseguenza delle enormi possibilità di spostarsi rapidamente che competono all'uomo moderno. In questo contesto radicalmente trasformato l'aggressività è divenuta un pericoloso retaggio dell'evoluzione che deve essere tenuto costantemente sotto controllo dalla morale responsabile.

Dissoltasi l'opposizione membri della tribù - estranei, che definiva la classe dei possibili nemici contro i quali rivolgere l'istinto aggressivo, l'uomo moderno deve fare leva sul meccanismo di compensazione della morale, su quell'unità sistemica di pulsioni istintive e moduli comportamentali filogeneticamente e culturalmente ritualizzati, per neutralizzare il rischio di comportamenti antisociali (35). Ad aggravare la situazione il progresso nella costruzione delle armi consente oggi di uccidere altri esseri umani impedendo ogni contatto visivo, in maniera tale da precludere l'attivazione dei meccanismi inibitori e degli atteggiamenti di pacificazione. L'uomo che preme il pulsante di innesco di un'arma a distanza, un missile o una bomba, è totalmente schermato dal percepire emozionalmente le conseguenze del suo atto; per questo motivo riesce a condannare a morte migliaia di persone senza che i meccanismi inibitori arrestino la sua mano (36).

Come ho già detto, le norme sociali, evolutesi per ritualizzazione culturale rivestono un ruolo ambivalente in rapporto alle dinamiche dell'aggressività: da una parte esercitano un'importante funzione di controllo degli istinti aggressivi, dall'altra, in virtù del loro carattere esclusivo, possono portare a conflitti fra culture diverse. In ogni caso, afferma Lorenz citando Arnold Gehlen, l'uomo è per natura un essere culturale: l'intero sistema delle sue attività e reazioni innate è costruito filogeneticamente in modo da richiedere di essere completato dalla tradizione culturale (37). Anche i moduli di comportamento sociale innati si trovano in un tale rapporto di interazione con la tradizione che la costituzione di comunità più vaste dei nuclei familiari primitivi non sarebbe possibile senza l'elemento coesivo rappresentato dalla cultura comune, dalla sua preservazione e difesa. Ebbene, secondo Lorenz, nel nostro secolo, a causa dei rapidissimi cambiamenti tecnologici e ambientali, si è verificata una pericolosa rottura della continuità tradizionale. L'industrializzazione diffusa ed inarrestabile ha creato un'insormontabile distanza tra le generazioni, ostacolando il processo di fissazione dei valori e delle norme sociali nei più giovani. Alla carente interiorizzazione dei contenuti trasmessi per via culturale si aggiunge l'omologazione crescente, su scala planetaria, delle nuove usanze e tradizioni. Nella progressiva occidentalizzazione del mondo, infatti, è contenuto un pericolo incombente dal momento che sopprimendo le differenze locali, essa rischia di impedire l'insorgere di processi creativi (38).

La vena pessimistica e predicatoria di Lorenz, accentuatasi nell'ultima parte della sua vita e culminata nel saggio Der Abbau des Menschlichen (39), si affaccia già nelle pagine conclusive di Das sogenannte Böse, in cui l'etologo austriaco descrive il fenomeno dell'indottrinamento. Nella fase conclusiva dell'adolescenza - sostiene Lorenz - i giovani attraversano un periodo sensibile in cui avviene la fissazione dei valori culturali che, da quel momento in poi, saranno sentiti come propri. Anche in questo caso alla base del fenomeno si situa un meccanismo filogenetico, riscontrabile già nei primati superiori, che in origine doveva presiedere allo scatenamento dell'aggressività collettiva in funzione di difesa del gruppo. Lorenz chiama questo meccanismo, che corrisponde alla sensazione soggettiva del sentirsi percorsi da un 'sacro brivido', entusiasmo militante (40).

L'entusiasmo militante ha come controparte osservabile l'adozione di una postura di minaccia in cui tutto il corpo viene teso e irrigidito, mentre il volto si atteggia ad un'espressione 'eroica'; una tale postura nei nostri antenati preumani era accompagnata dall'erezione del pelo (da ciò il brivido lungo la schiena), che doveva far apparire ancora più impressionante la figura dell'ominide (41). L'entusiasmo collettivo di tipo aggressivo si è probabilmente evoluto a partire da una reazione di difesa dell'unità sociale, e per questo motivo comporta un azzeramento quasi completo dei freni inibitori e delle funzioni regolatrici della morale responsabile; in ciò risiede la sua pericolosità. Nell'uomo, infatti, l'attivazione dell'entusiasmo militante può essere collegata, scomparsa l'esigenza di tutelare l'integrità del gruppo, alla difesa di quei valori e rituali culturalmente sviluppati che sono stati fissati nel periodo post-adolescenziale. L'indottrinamento consiste esattamente in questo processo di fissazione. Servendosi del meccanismo dell'entusiasmo militante - continua Lorenz - un abile demagogo, per mezzo di una propaganda mirata, può far leva su un'adesione prerazionale a certi contenuti tradizionali per accreditare una soluzione violenta contro coloro che non condividono quei contenuti. In questo modo, in presenza di una situazione di inaridimento della continuità tradizionale, possono instaurarsi le condizioni propizie alla dittatura ideologica; l'ideologia, infatti, che consiste, secondo Lorenz, in una consapevole deformazione e polarizzazione della tradizione, per il suo carattere semplificato e tendenzialmente manicheo si presta naturalmente a suscitare una reazione emotiva di difesa.

Come si è visto, la descrizione lorenziana delle radici biologiche dell'aggressività dà corpo ad una visione senz'altro cupa della 'situazione attuale dell'umanità', a fronte della quale la 'dichiarazione di speranza' con cui si conclude il volume appare quasi una clausola di stile, assolta senza troppa convinzione. E' certo che le ultime pagine di Das sogenannte Böse - in cui Lorenz introduce alcuni "semplici precetti che possano servire da misure preventive contro i pericoli esposti" (42) - sono in più punti inficiate da un tono paternalistico e predicatorio francamente fastidioso, e tuttavia anche fra queste righe sono racchiuse osservazioni importanti.

In estrema sintesi, si possono individuare tre 'precetti': in primo luogo viene sottolineata l'importanza della ridirezione dell'aggressività che si opera per mezzo della ritualizzazione e particolarmente di quella forma specificatamente umana di ritualizzazione culturale che è lo sport (43). Lo sport può esser definito, secondo Lorenz, "come una forma di combattimento non ostile governata dalle regole più severe che si siano sviluppate culturalmente" (44). Lo sport non consente soltanto uno sfogo catartico della pulsione aggressiva, ma fornisce altresì una valvola di sicurezza all'entusiasmo militante collettivo (45). Inoltre, può favorire, e così veniamo al secondo punto, la conoscenza personale fra uomini di diverse nazioni ed etnie; una tale conoscenza, infatti, rappresenta un forte ostacolo all'aggressione in quanto azzera la distanza creata dalla pseudo-speciazione e coltivata dalle ideologie, ricostruendo la consapevolezza di una comune appartenenza biologica, fondata sull'operatività di comuni meccanismi filogenetici.

Infine, l'ultimo precetto riguarda la possibilità di "dare un indirizzo all'entusiasmo militante, in altre parole aiutare le nuove generazioni a trovare nel mondo moderno cause genuine che valga davvero la pena di servire" (46). Per Lorenz ci sono almeno "tre grandi imprese collettive del cui valore ultimo e assoluto nessun essere umano può dubitare" (47): l'arte, la scienza e la medicina. L'affermazione di queste tre discipline, inoltre, può trovare un potente alleato, nella facoltà, tipicamente umana, dell'umorismo: l'ironia, il riso - ancora una ritualizzazione di un comportamento aggressivo - hanno, infatti, un ruolo essenziale in quanto consentono di smascherare i falsi ideali (48).

In conclusione, cercherò di presentare cinque punti che compendiano i dati che ritengo essenziali per l'indagine che mi sono proposto.

  1. L'aggressività umana ha un'origine endogena. La sollecitazione ambientale interviene soltanto a scatenare l'impulso preesistente.
  2. L'aggressività costituisce un prodotto della filogenesi. Essa è fondamentalmente utile poiché rende possibile la coesione e l'organizzazione gerarchica del gruppo nonché l'instaurarsi di vincoli personali tra gli individui.
  3. Esistono meccanismi filogenetici di controllo dell'aggressività.
  4. I pericoli dell'aggressività sono collegati alla discrepanza tra le velocità dell'evoluzione biologica e di quella culturale. Le trasformazioni nell'ambiente determinate dal progresso, infatti, hanno neutralizzato quei meccanismi di controllo innati facendo ricadere il peso del contenimento degli impulsi antisociali sull'unità sistemica della morale responsabile e delle norme sociali di origine culturale.
  5. L'effetto della ritualizzazione culturale è ambivalente. Da una parte disciplina i comportamenti aggressivi verso i membri della comunità, dall'altra però incrementa la conflittualità contro coloro che appartengono ad una pseudo-specie culturale diversa e questo tipo di conflittualità non è ricomponibile per mezzo dei meccanismi biologici di pacificazione.

3. L'etologia della guerra di Irenäus Eibl-Eibesfeldt

Irenäus Eibl-Eibesfeldt, allievo di Konrad Lorenz e continuatore della sua opera, ha edificato sulle basi teoriche tracciate dal maestro una completa trattazione dell'etologia, sviluppando in particolare l'analisi del comportamento umano e fondando, nell'ambito della Max-Planck-Gesellschaft, il primo istituto di ricerca per l'etologia umana. A partire dagli anni sessanta inoltre Eibl-Eibesfeldt ha affiancato agli impegni accademici una intensissima attività di ricerca sul campo, attraverso una lunga serie di spedizioni scientifiche condotte in Asia, Africa e Sud America per documentare usanze e rituali delle culture cosiddette 'tribali'. Sono state in questo modo accumulate informazioni di eccezionale valore, raccolte con grande scrupolo metodologico. Eibl-Eibesfeldt e i suoi collaboratori si servono infatti, per filmare i comportamenti che stanno studiando senza turbare i soggetti ripresi, di un originale espediente: una telecamera appositamente modificata, sulla quale è stato montato un obbiettivo a specchio, così da nascondere la vera direzione in cui avviene la ripresa.

Eibl-Eibesfeldt nel suo trattato sui fondamenti dell'etologia e nel suo manuale di etologia umana (49) ricollega l'evoluzione della socialità alla cura della prole, con ciò staccandosi nettamente da Lorenz, il quale, come abbiamo visto, riteneva che "non c'è amore senza aggressività " (50). Per Eibl-Eibesfeldt l'evoluzione dei segnali tra genitori e figli, degli appelli infantili, dei moduli comportamentali di assistenza, ha reso disponibili quegli schemi motori che permettono l'esistenza di un rapporto di amicizia-tenerezza anche fra adulti. Egli ipotizza che, attraverso un processo di ritualizzazione filogenetica, alcuni degli schemi motori sviluppati nell'ambito delle cure parentali si siano resi disponibili per nuove funzioni espressive, così da inibire la carica aggressiva spontanea che viene sollecitata dall'incontro con conspecifici sconosciuti. In questo contesto esplicativo, l'origine del legame individualizzato, che Lorenz faceva derivare dalla ridirezione dell'attacco, è riconducibile alla relazione madre-figlio ed è conseguenza dell'ampliarsi dello spazio di tempo in cui la prole è strettamente dipendente dalla madre (51).

L'adozione di comportamenti derivati dalle cure parentali ricorre in primo luogo nell'ambito delle interazioni col partner, producendo l'effetto di consolidare il vincolo tra i due soggetti: un esempio di questo genere di comportamenti è costituito, nell'uomo, dal bacio, che trae origine dalla ritualizzazione dell'atto di nutrire l'infante con una trasfusione di cibo da bocca a bocca. D'altra parte, la presenza di ritualizzazioni del comportamento infantile è attestata anche nella sfera degli atti di sottomissione, come già aveva rilevato Lorenz. Invece, la funzione legante dell'aggressività, su cui Lorenz si era soffermato, compare solo in uno stadio evolutivo successivo, derivando dalla pratica della difesa comune della famiglia. In definitiva, per Eibl-Eibesfeldt, l'ethos di gruppo non è che un'estensione dell'ethos familiare: da quest'ultimo il primo dipende storicamente e logicamente (52).

Queste premesse concettuali influenzano decisamente la risposta che Eibl-Eibesfeldt fornisce al problema che qui ci interessa, la spiegazione dell'aggressività umana. La visione generale che Eibl-Eibesfeldt ha della natura umana è, infatti, assai più incline di quanto non fosse quella del suo maestro, ad un moderato ottimismo e a una considerazione positiva delle capacità dell'uomo di interagire pacificamente. Questa posizione è stata espressa in quello che è probabilmente il testo più importante e discusso nel dibattito etologico sull'aggressività dopo Das sogenannte Böse, il saggio The Biology of Peace and War, pubblicato nel 1979 (53). In questa opera le intuizioni di Lorenz vengono vagliate criticamente e poste a confronto con i risultati della ricerca sul campo intorno alle condizioni di vita delle popolazioni 'primitive'.

In primo luogo, Eibl-Eibesfeldt si preoccupa di fornire una definizione rigorosa di aggressività: sono aggressivi tutti i moduli di comportamento che determinano la distribuzione spaziale dei membri della stessa specie o che portano al dominio di un membro sull'altro (dunque, non solo i moduli di attacco veri e propri ma anche quei meccanismi basati sull'effetto improvviso di forti stimolazioni sensoriali come il canto territoriale degli uccelli) (54). Inoltre, viene per la prima volta tematizzata con chiarezza la distinzione tra aggressività interna al gruppo e aggressività tra gruppi separati. Entrambe le forme di aggressività hanno radici biologiche ma nella seconda è la pseudo-speciazione culturale ad assumere la funzione decisiva (55).

Per Eibl-Eibesfeldt l'incontro con i conspecifici innesca naturalmente una reazione aggressiva che viene tuttavia inibita dalla conoscenza personale. In questo modo l'aggressività in seno al gruppo può essere controllata e neutralizzata attraverso i meccanismi elaborati dalla ritualizzazione filogenetica e culturale, essenzialmente per mezzo dei comportamenti di sottomissione e di pacificazione, nonché per l'intervento di individui gerarchicamente sovraordinati (56). Questo genere di aggressività possiede, come si è visto, molteplici funzioni, collegate alla difesa del proprio ambito spaziale e dei propri beni, all'ordinamento interno del gruppo e alla reazione contro gli individui devianti nell'aspetto o nel comportamento (57).

Nella guerra tra gruppi l'aggressività intraspecifica innata gioca certo un ruolo essenziale ma a essa si sovrappone l'incidenza di fattori di natura culturale - come l'adozione di certi modelli educativi - che operano creando una distanza tra gli appartenenti ai vari gruppi. La propaganda b