Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La critica alla modernità è un «oscurantismo antiscientifico»?

La critica alla modernità è un «oscurantismo antiscientifico»?

di Francesco Lamendola - 29/07/2009


Fin dagli anni Sessanta del secolo scorso, le voci critiche nei confronti della modernità e di un certo tipo di scienza - materialista, arrogante, potenzialmente pericolosa - sono state accolte, nel salotto della cultura accademica, specialmente di sinistra, con una inorridita levata di scudi, come si fosse trattato di un rigurgito di oscurantismo antiscientifico degno (a giudizio di quei signori) del «peggiore» Medioevo.
Ne abbiamo un buon esempio nel saggio di Paolo Rossi: «Fra Arcadia e Apocalisse: note sull'Irrazionalismo italiano degli anni Sessanta», dal quale riportiamo un breve estratto (nel volume di Giorgio Luti e Paolo Rossi «Le idee e le lettere. Un intervento su trent'anni di cultura italiana», Milano, Longanesi & C., 1976, pp. 89-93):

«Molti dei più caratteristici motivi della "rivolta contro la scienza" furono largamente utilizzati- già nel corso degli anni trenta - da autori e da critici  della civiltà di massa che erano destinati a diventare "classici" del neonazismo. Alla scienza moderna - troviamo scritto in "La rivolta contro il mondo moderno" di Julius Evola (1934) - si deve "la profanazione sistematica dei due domini dell'azione della contemplazione" e "lo scatenamento delle plebi sui mercati d'Europa". La scienza, afferma ancora quel testo, "è morta cognizione di cose morte", ed ha costruito "il miraggio di evidenze a tutti accessibili". Il pensiero scientifico "non è più la sintesi di una intuizione intellettuale, ma è lo sforzo di unificare dall'esterno, induttivamente, con un toccare qua e là invece che con un vedere, la molteplice varietà delle apparizioni sensibili, onde giungere a relazioni matematiche, a leggi di costanza e di sequenza uniforme, a ipotesi e ad astratti principi, il cui valore si misura esclusivamente dalla loro capacità a far prevedere  più o meno esattamente, senza che essi apportino nessuna conoscenza essenziale, senza che dischiudano dei significati che apportino una liberazione… è la scienza che ha degradato e democratizzato la nozione stessa  del sapere stabilendo il criterio uniformistico del vero e del certo basato sul mondo disanimato dei numeri e sulla superstizione del metodo positivo, indifferente verso tutto ciò che nell'esperienza ha carattere qualitativo…. È la scienza che ha distrutto progressivamente e oggettivamente ogni possibilità di rapporto sottile con le forze segrete delle cose - è essa che ha strappato l'uomo alla voce della terra, dei mari e dei cieli ed ha creato il mito della nuova era del progresso, aprendo a tutti le vie , fomentando infine la grande rivolta dei servi."
La scienza come qualcosa di morto, di esterno, che è incapace di vedere, che prevede senza conoscere, che rende uniforme e che profana, che è indifferente al qualitativo e ai "rapporti sottili" con le cose: era la ripresentazione di un'immagine del sapere scientifico destinata, negli ambienti più diversi, ad una straordinaria fortuna. Evola fu un critico aspro "della distorsione e degradazione" del fascismo e del nazismo "in regimi di massa" e degli aspetti "populistici" e "livellatori" in essi presenti. Vide nella "tradizione" alla quale si richiamava il nazionalismo un mito che mirava a consolidare "uno stato di follia", che era lontanissimo "da ciò che nelle antiche civiltà corrispondeva a tale parola" e nel quale è del tutto assente "la dimensione della trascendenza, di ciò che è superiore alla storia". La rivolta contro la civiltà moderna, "materialsitica, scientista, democratica, profana e individualistica" e l'esigenza di un "ritorno integrale" a principi che sono al di sopra del tempo ("presentano una perenne attualità e un perenne valore normativo") sono le due facce inscindibili della "rivoluzione".  Quest'ultima, intesa "nella pienezza del suo senso", è "rivolta contro un dato stato di fatto e insieme "ritorno al punto di partenza" e moto ordinario intorno al suo centro. Anche per Evola la realtà moderna è un'entità negativa, un sistema compatto e omogeneo. I tentativi che sono stati fatti per uscire da essa costituiscono altrettante espressioni di un fallimento inevitabile e sono condannati a rimanere all'interno d ciò che viene rifiutato. I teorici della crisi e del tramonto dell'Occidente  - da Spengler a Keyserling, da Benda a Ropps, da Ortega y Gasset a Huizinga, si sono mostrati tutti incapaci di una "critica integrale": "malgrado tutto, essi appartengono spiritualmente al mondo che criticano". A differenza di Guénon - per questo meno noto e meno popolare - essi non sno riusciti a superare il piano del "pensiero". Ciò che Guénon afferma corrisponde invece "a quel che avrebbe potuto dire un uomo dei tempi chiamati da Vico 'eroici', un rappresentante di una 'conoscenza dall'alto': rispetto alla quale non vi è da discutere, ma da riconoscere  o da respingere, da dire sì o no".
A questa valutazione della filosofia come attività oracolare corrisponde la difesa di un tradizionalismo "esoterico e non empirico" e la condanna dell'azione  quale è stata concepita dall'Occidente moderno: "agitazione e febbre…priva di ogni luce, di ogni vero senso, di ogni principio". La penetrazione della mentalità occidentale nel mondo si configura anche per Evola come una perdita di valori: "la Cina è andata perduta, l'India sta nazionalizzandosi ed europeizzandosi con un ritmo crescente, i paesi arabi sono in soqquadro". Dato che la Tradizione va scomparendo anche in Oriente è possibile prospettarsi l'ipotesi che l'Occidente "proprio per trovarsi PIÙ AVANTI nell'arco discendente del ciclo… si trovi sì più prossimo ala fine, ma anche, per ciò stesso, al nuovo principio". Base per la necessaria "revulsione" e per il "raddrizzamento generale" nel campo dei valori e della visione del mondo è la costituzione di una élite in forma di un Ordine "sull'esempio degli Ordini esistiti sia nel Medioevo europeo sia in altre civiltà". Nell'Ordine "può vivere una tradizione perfino iniziatica, insieme a una formazione caratteriale virile" com'è in parte avvenuto nella casta dei Samurai, costituita da "un'aristocrazia guerriera integrata da elementi sacrali". Al di à d queste prospettive, venne tuttavia sempre più emergendo , negli anni più recenti, il tema dell'indifferenza ai valori, del profetismo apocalittico, del declino eroico fondato sulla spengleriana "legge fatale" del principio, sviluppo e fine della civiltà: "Bisogna abbandonare ogni fine costruttivo esteriore, reso irrealizzabile da un'epoca di dissoluzione, come la presente… tale il problema.., per l'uomo della Tradizione, per chi interiormente non appartiene al mondo moderno, che come patria e come luogo spirituale ha L'ALTRA civiltà… nel dominio politico e sociale non esiste più nulla che meriti una piena dedizione. L'APOLITIA  deve essere il principio dell'uomo differenziato. Insignificante è, per lui, l'antitesi tra 'Oriente' e 'Occidente': sono due aspetti dello stesso male". Da una visione della storia come naufragio, come "insensata fuga in avanti", come fatale catena di deviazioni e di errori, emergono facilmente alcune immagini: quella di un salvataggio che si realizza affidandosi ai rottami dell'Essere ancora galleggianti nel mare torbido della modernità;  quella della rivolta o della rivoluzione vissute (nello stile di Malraux) come esaltanti avventure individuali; o infine quella che fu avanzata da Spengler e poi ripresa da taluni brigatisti neri della Repubblica Sociale della morte con onore in un combattimento senza significato e senza speranza: "Dobbiamo percorrere coraggiosamente sino alla fine la vita che ci è destinata. Non abbiamo alternative. Il nostro dovere  di tener fermo sulle posizioni perdute, anche se non c'è più speranza di salvezza. Tener fermo  come quel soldato romano le cui ossa furono trovate a Pompei davanti a una porta: egli morì perché, quando vi fu l'eruzione del Vesuvio, si dimenticarono di scioglierlo dalla consegna. Questa è grandezza, questo significa aver razza. Questa onorevole fine è l'unica cosa che non si può togliere all'uomo" (O. Spengler, "Ascesa e declino della civiltà delle macchine", 1931, Milano, 1970, p. 123).
Il modo in cui l'oscurantismo antiscientifico ispirato da Spengler ha indossato in questi anni anche i panni del marxismo sposandosi con l'eredità delle filosofie della vita del primo Novecento richiederebbe un discorso molto più articolato. Resta il fatto che la ridiscesa sul piano arcaico dell'esperienza magica, il ritorno alla verginità naturale, l'esaltazione  del primitivismo e dell'immediatezza, il rifiuto della storia, la negazione di ogni possibilità di controllo sulla natura, il rimpianto per il passato come paradiso perduto di un'umanità non repressa, la nostalgia per il comune rustico medievale non sono più - come furono per lungo tempo - temi di esclusiva pertinenza  del pensiero reazionario: sono stati in questi anni  proposti e sostenuti, anche all'interno della sinistra politica, come strumenti di liberazione dalle alienazioni presenti  nel mondo moderno, dal "male" indissolubilmente  connesso all'esistenza storica degli uomini.»

Quello che maggiormente colpisce, in questo brano di prosa che ormai, per certi versi, appartiene alla storia, essendo stato scritto più di trent'anni fa - trent'anni durante i quali il mondo ha corso come se ne fossero passati almeno trecento - è la rocciosa, imperturbabile supponenza di chi si sente dalla «parte giusta» della cultura: quella della scienza, del progresso e della modernità; e accomuna in un unico fascio tutte le posizioni, dagli anni Trenta in avanti, che suonano come critica alla visione del mondo materialista, quantitativa, disumana, ad essa sottesa.
Neppure l'ombra di una autocritica; neppure l'ombra di una perplessità, di un dubbio, di una salutare incertezza; neppure l'ombra di un sospetto che, con le critiche alla modernità, ci si possa anche confrontare entrando nel merito, e non limitandosi a liquidarle, sprezzantemente, come «oscurantiste», «regressive», e, dulcis in fundo, «neonaziste»; insomma, che le si possa anche prendere in considerazione, magari per confutarle, invece di limitarsi a snocciolare giaculatorie al fine di esorcizzarle.
Nella prospettiva di Paolo Rossi, quanto mai «politically correct», la cosa più incomprensibile, e più deprecabile, è che perfino spezzoni della sinistra culturale abbiano fatto propri taluni spunti e argomenti della tradizionale polemica antimoderna dell'estrema destra: questo è, per lui, il massimo dell'eresia e dello scandalo. Anche qui, nessuno sforzo di capire, nessun tentativo di esaminare le ragioni di questa oggettiva convergenza di posizioni teoriche: ciò equivarrebbe ad ammettere che nessuno, nemmeno i parrucconi della cultura ufficiale, possiedono l'esclusiva su come il pensiero di sinistra debba essere interpretato; peggio: equivarrebbe ad ammettere che «destra» e «sinistra» sono ormai concetti totalmente superati, che si tratta solo di gusci vuoti, assolutamente inadeguati a fornire efficaci chiavi interpretative di una realtà economica, politica e sociale in così rapida fase di radicale  trasformazione.
Perciò, meglio accomunare nel medesimo anatema Guénon e Severino, Evola e Sermonti, Spengler e Del Noce, Huizinga e Zolla; meglio scrollare le spalle davanti a ciò che non si riesce a capire, che non si vuole capire, e consolarsi con una raddoppiata dose di autoreferenzialità e di monopolio della ragione; meglio tacciare costoro di spirito medievale e sentirsi gli intrepidi difensori della barricata della scienza moderna, minacciata da rigurgiti stregoneschi simili a quelli degli inquisitori di Milano che, nel 1630, andavano a caccia degli untori.
Tutto ciò, senza dubbio, è molto gratificante e molto rassicurante, e conferisce la deliziosa (per certuni) sensazione di essere, impavidi e imperterriti, dalla «parte giusta della storia», mentre gli altri, i reprobi, finiranno immancabilmente - per usare la colorita espressione di Lenin - nel cestino dei rifiuti.
In particolare, nel brano che abbiamo qui sopra proposto, Paolo Rossi passa in rassegna alcune delle critiche che Julius Evola rivolge al mondo moderno, e, in modo particolare, alla scienza; ma nessuna di tali riflessioni, nelle sue mani, diviene occasione per un ripensamento critico di taluni aspetti, e sia pure quelli più vistosamente degenerativi, della scienza moderna.
No, Rossi preferisce «far quadrato» intorno alla roccaforte della scienza moderna e rispedire ogni critica al mittente; agire diversamente, gli sembrerebbe un intollerabile cedimento alle istanze oscurantiste dell'estrema destra e della sinistra degenerata. Con gli oscurantisti non si discute, si combatte: questo sembra essere il suo abito mentale; e, in ciò, non si accorge di essere vicinissimo a quel tipo di atteggiamento che, nell'avversario, egli ha qualificato spregiativamente come non filosofico, ma bensì «oracolare».
Evola, tra le altre cose, aveva affermato che la scienza moderna è qualcosa di morto, di esterno; che è incapace di vedere; che prevede senza conoscere; che rende uniforme e che profana; che è indifferente al qualitativo e ai "rapporti sottili" con le cose.
Ci sembra che nessuna persona aperta e intelligente possa negare che, in queste osservazioni, vi sia per lo meno un fondamento di verità; che vi sia, quanto meno, una legittima e, forse, perfino utile messa in guardia contro alcune tendenze potenzialmente pericolose, anzi funeste, della scienza moderna.
La verità è che intellettuali come Paolo Rossi hanno semplicemente sostituito alla concezione dogmatica della filosofia medievale (peraltro, meno dogmatica di quello che gli illuministi e i neoilluministi, da Kant in poi, abbiano voluto far credere) una concezione altrettanto dogmatica, fondata non sull'idea dell'Essere, ma su quella della Scienza: per cui ogni critica non alla scienza in quanto tale, ma a quella tale concezione della scienza - materialista, meccanicista, riduzionista, utilitarista - assume la connotazione di un delitto di lesa maestà, di un sacrilegio.
L'arroganza di filosofi come Paolo Rossi è stata pari soltanto alla loro miopia: credendo di difendere la trincea della Verità e della Ragione (le due cose, per loro, sono sinonimi), essi hanno affrettato il collasso di tutta una civiltà del pensiero, dell'arte, della politica, che, se riformata per tempo, ci avrebbe forse risparmiato molti passaggi difficili e molti sbandamenti morali.
Ad esempio, l'ottuso rifiuto a prendere in considerazione le ragioni per le quali certi intellettuali di sinistra facevano dei discorsi simili a certi intellettuali di destra, ci ha regalato il populismo televisivo di Berlusconi, la rozzezza xenofoba della Lega, la frana inarrestabile del Partito Democratico, e, più in generale, il rinvio «sine die» della possibilità di  veder nascere una dialettica politica normale anche in Italia, dove il confronto abbia luogo suo terreno delle idee e non su quello miserevole degli slogan, per giunta vecchi e stravecchi.
Di questo ritardo, che continua ad accumularsi nella cultura, nella filosofia, nell'arte, nella politica italiana, ingigantendo i problemi e coniugandosi con forme imbarbarite di società pre-moderna (mafia, camorra e simili), dobbiamo ringraziare anche quegli intellettuali, come Paolo Rossi, che non hanno fatto il minimo sforzo per confrontarsi con legittime critiche che da più parti si levavano al modello del pensiero unico, di cui essi erano al tempo stesso i rigidi custodi e gli esclusivi beneficiari; ma che si sono limitati ad assumere un atteggiamento censorio e di acritica adorazione dell'esistente.
Ora raccogliamo i frutti di tanta arroganza intellettuale, di tanta insipienza, di tanto desolante conformismo.
Eppure, nel 1976, c'erano già tutti gli elementi, anche per i difensori più ortodossi del «sistema scienza», per prendere atto degli effetti aberranti di un certo scientismo e tecnicismo sfrenati: le piogge acide c'erano già; la deforestazione e la desertificazione di vaste regioni della Terra erano già in atto; l'inquinamento del suolo aveva già raggiunto livelli di guardia, e così il ritmo di distruzione delle specie animali e vegetali; già si parlava di prossimo esaurimento delle risorse energetiche e della inevitabile rarefazione del bene essenziale alla vita sul pianeta: l'acqua, l'oro azzurro.
Se non volevano ascoltare Evola, Guénon o Spengler, e se gli seccava ammettere che, forse, qualche ragione l'avevano anche Sermonti, Bookchin e perfino - «horribile dictu» - un Alain de Benoist, non potevano almeno dare ascolto ai mille segnali d'allarme che la natura ci stava lanciando, con urgenza sempre più pressante?
Non dovrebbe essere proprio questa, in fondo, la ragion d'essere di una classe d'intellettuali di professione: saper leggere i segni, e farsene tramite nei confronti del vasto pubblico dei loro lettori o dei loro spettatori televisivi?
O forse essi pensano che la loro ragion d'essere sia sempre e solo quella di scaldare le sedie di qualche istituzione accademica, di qualche redazione di giornale, di qualche salotto televisivo, e di godere di mille agevolazione nella pubblicazione dei loro articoli e dei loro libri, come una casta chiusa e privilegiata che vive parlandosi addosso e parassitando la società?