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Il progetto unitario della modernità è la conoscenza finalizzata alla potenza

di Francesco Lamendola - 30/07/2009


Esiste un progetto unitario della modernità?
Crediamo di sì, ed è quello della conoscenza finalizzata all'esercizio della potenza; come diceva uno dei massimi cantori delle magnifiche sorti e progressive della modernità stessa, Francesco Bacone: «sapere è potere».
In particolare, il disegno fondamentale della modernità consiste nella volontà di affrancarsi dalla vita come destino, come fatalità; per dirla con Machiavelli: di affermare vittoriosamente la Virtù contro la Fortuna.
È chiaro che un simile disegno nasce nel momento in cui tramonta l'idea della vita come risposta a una chiamata, come dovere da compiere, come parte di un progetto soprannaturale; e vi subentra l'idea della vita come dissipazione, caos, mancanza di senso. Per reagire a tale dissipazione, i profeti della modernità hanno lanciato la grande sfida e hanno staccato la politica, l'economia, la scienza, e da ultimo la filosofia stessa, dall'etica e dal sentimento religioso.
Ma il sentimento religioso, che per secoli aveva fatto da collante a tutte le forme pratiche dell'esistenza, e aveva coordinato tutte le branche del sapere, nel XVII secolo aveva ormai perso gran parte della propria presa sulle coscienze dell'Occidente; per cui lo spirito della modernità venne ad inserirsi in un vuoto di potere, in una terra di nessuno, e svolse la funzione di contrastare l'«horror vacui» che era succeduto alla perdita del senso della trascendenza.
Nelle società pre-moderne, la vita come destino e la vita come progetto soprannaturale sono le due facce di una stessa medaglia; come dicono gli islamici nella loro semplice fede, al termine di ogni progetto e di ogni attesa: «Sarà così, se Allah lo vuole».
Un buon esempio di questo concetto è il modo in cui l'Occidente pre-moderno ha vissuto, per millenni, l'idea della morte.
La morte, specialmente la morte naturale, per vecchiaia o per malattia, veniva accettata come parte di un disegno provvidenziale al quale era non solo vano, ma assurdo e blasfemo ribellarsi. La morte non era vista come una ladra, che entra di notte per rubare la vita delle persone, ma come una sorella, e sia pure una sorella alla quale nessuno apre volentieri la porta: ma alla quale, quando bussa, non si può disobbedire. Perfino l'alta mortalità infantile era accettata come parte di quel disegno, e i genitori si facevano una ragione della perdita del loro filglioletto: non solo perché, nelle famiglie contadine, la prole era comunque numerosa, ma proprio perché nessun evento della vita, e tanto meno la morte, era visto come un capriccio del destino, ma come parte di un disegno ben preciso, e nella sua essenza benevolo, perché garantito dalla divinità.
Al giorno d'oggi, la morte non è accettata, è rifiutata, anche quando colpisce una persona molto anziana; non parliamo poi se colpisce un giovane o un bambino. Gli uomini, incoraggiati dalla crescente potenza della scienza e della tecnica, sognano di emanciparsi dalla morte, così come sognano di emanciparsi da ogni limitazione imposta dalla natura: di scegliere il sesso del nascituro; di avere dei figli dopo la propria morte (mediante il congelamento dello sperma nelle apposite banche del seme e, poi, la fecondazione «in vitro»); di avere dei figli in età molto avanzata; di poter cambiare sesso a piacimento, trapiantando gli organi sessuali e affidandosi alle arti sapienti della chirurgia plastica.
Sottostare alla natura sembrerebbe loro umiliante, così come, e a maggior ragione, accettare una legge superiore, che ponga dei limiti e imponga l'accettazione.
È bene essere chiari su questo punto.
Quando si dice che la modernità esprime un progetto mirante alla potenza, nonché alla sconfitta della vita come destino, non ci si riferisce all'idea greca del destino, così come appare, ad esempio, nell'«Iliade»: perché quell'idea di destino, imperscrutabile agli stessi dei, era già tramontata con l'avvento della concezione giudaico-cristiana.
No, la modernità è stata una rivolta contro l'idea della vita come provvidenza; perché i suoi araldi non hanno accettato più di doversi affidare a una provvidenza divina, sulla quale essi non avevano alcuna voce in capitolo; ma hanno preteso di fabbricarsi una propria provvidenza, per così dire, fatta di razionalità, di audacia, di progettualità immanente; in parole più semplici: di prendere il proprio destino nelle loro mani.
Non si fidavano più di Dio; dubitavano dei suoi disegni; non credevano che la vita avesse altro scopo e altra ragion d'essere che il dispiegamento della loro intelligenza, del loro sapere, del loro desiderio di godimento: in breve, della loro potenza.
Tutto ciò, evidentemente, nasce da un disincanto: il disincanto del mondo come luogo deputato alla realizzazione del bene degli uomini (cfr. il nostro precedente articolo: «Un  mondo  ricco  di  significato è  un  mondo  incantato  che  prega  in  ogni  fibra», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Queste riflessioni, ed altre che più avanti svolgeremo, ci sono state suggerite dalla rilettura di un saggio di Paolo Flores d'Arcais, tipico esponente dell'ala oltranzista degli odierni cultori della modernità; saggio, peraltro, di diciassette anni fa, ma del quale vogliamo riportare un breve passaggio, perché illustra in maniera esemplare la concezione suddetta («Etica senza fede»Torino, Einaudi, 1992, pp. 6-10):

«Il progetto della modernità è progetto di potenza, certamente, ma unitario e inscindibile nella sua duplice promessa. Miscelando scienza ed eresia, l'alambicco del disincanto distilla un solo inestricabile orizzonte che abbraccia tanto il dominio del genere umano sulla natura  quanto la nascita dell'individuo simmetrico per dignità. Di modo che l'effettualità della modernità si rivela come SCARTO. Tra la promessa effettivamente mantenuta e quella tuttora disattesa. Da un lato il trionfale dispiegarsi del progresso scientifico  in alluvionale potenza tecnica, che rende rapidamente obsoleta la fantascienza, la confonde con la cronaca, la costringe a sempre più smisurata inventiva. E dall'altra [sic] gli arretramenti, i fallimenti, il faticoso arrancare, che è anche sempre doloroso ed appassionante combattere, del progetto di autonomia dell'individuo, di quell'esaustivo diffondersi di quelle libertà per tutti e per CIASCUNO, almeno altrettanto essenziali alla potenza (cioè AUTONOMIA) dell'uomo di quanto non lo sia la tecnica. La realizzazione dell'individuo resta anzi un irrinunciabile PRIUS logico: non si dà modernità se non viene approssimato un universo della convivenza  dove ogni irriducibile ciascuno attinga concretamente valore in sé, invece di scoprirsi irrimediabilmente gettato in un ruolo sociale che  vale come destino naturale, come articolazione organica di una cosmica volontà metafisica.
Il progetto della modernità è unitario, dunque, perché esprime un'unica e conchiusa volontà  di sottrarsi all'esistenza come destino. Il rifiuto della fatalità si dirige contro entrambi i volti con cui essa muove incontro ala scimmia nuda e SAPIENS fin dalla nascita e ne accompagna poi l'intero corso della vita: l'incombere catastrofico del cosmo, cioè L'ONNIPOTENTE minaccia della natura, e la canonizzata sopraffazione della comunità sul singolo, totalmente debitore di senso al decreto imperscrutabile della divinità che nel NOMOS  della collettività prende voce.
In altri termini. Il progetto di riscatto della modernità ha un solo nome ESSENZIALE, autonomia, cioè costituzione dell'uomo, di OGNI uomo, in soggetto. Protagonista ormai d un creato che non si riconosce più come tale, come cosmo assegnato da un Dio sovrano ala cura (e all'obbedienza) del suo vicario, l'uomo fatto a sua immagine e somiglianza. L'uomo diventa centro del mondo, protagonista e sovrano del SUO mondo, proprio solo e quando accetta, anzi DECIDE, di essere sloggiato dal centro di un universo per lui già da sempre apparecchiato da Dio. Quando lucidamente accoglie il sobrio testamento  che gli consegna in eredità il caso e la finitezza.
Tale progetto ha perciò senso e MISURA esclusivamente in quanto restino inscindibili i due aspetti  richiamati. Se sopravvive solo il dilagare della tecnica, invece, l'orizzonte del progetto trascolora e il suo senso rischia la perversione, perché in tal modo si eclissa proprio il soggetto del progetto, l'irriducibile CIASCUNO che tutti noi siamo (dovremmo essere, possiamo essere). Se il potere del singolo sul proprio essere-insieme, la sua autonomia come volontà di con-vivenza, le sue libertà come potere con-diviso, restano largamente disattesi e manomessi, infatti, e valgono come fragile privilegio iniquamente distribuito, allora l'assoggettamento materiale del mondo assume un inquietante andamento esponenziale, perché la volontà di conoscenza, sottratta all'autonomia di ciascuno, si trasmuta ed esaurisce in volontà di potenza tecnica monopolizzata da IPOSTASI dell'uomo (Nazione, Stato, Impero).
Sotto il decisivo profilo del rapporto fra uomo e uomo, del rapporto sociale, la modernità è dunque scarto in quanto attraversata e percorsa dal conflitto fra l'esistenza progettata all'insegna della VOLONTÀ DI CRITICA - e dunque combattuta, messa in gioco, e con ciò resa autentica, in quanto approssimazione di QUESTO progetto - e l'esistenza dissipata nel luna park della volontà di conformismo, tra il consolatorio frastuono del tempo libero e l'anestetizzante sabba dei miracoli tecnologici.. Dove il progresso del genere umano (e altri soggetti collettivi nei quali si perde l'irriproducibile ciascuno) in termini di dominio sulla natura non può risarcire ma semmai occultare la perdurante minorità del singolo, promesso a una cittadinanza che resta dimenticata.
Perciò la tanto acclamata volontà di potenza è verità PENULTIMA  della modernità, poiché vale a sua volta come accattivante maschera di una più profonda VOLONTÀ DI RASSEGNAZIONE. Quella in virtù della quale il singolo rinuncia alla sua identità più propria, e al disagio della finitezza che l'accompagna, nell'illusione di accadere all'onnipotenza integrandosi e annullandosi nel genere, sanzionandosi così come mera replica  di una presunta essenza umana.
Ma tale scarto, fra promessa e realtà, fra individuo APPROSSIMATO nell'esistenza irripetibile della con-vivenza e nella simmetria della dignità e del potere con-diviso, e individuo DILEGUATO nel frammento organico del replicante e assoggettato alla dismisura della tecnica, viene poi rimosso interpretandolo come destino, come contrappasso magari, per la pretesa follia del progettarsi autonomo dell'uomo. Il demone della tecnica che ormai lo possiede e trastulla sarebbe per l'uomo la punizione estrema per il peccato inespiabile, il peccato di orgoglio. Il tentativo di sottrarsi al destino, di impadronirsene e produrlo, viene dunque irriso come ancora più cieco precipitarsi in un ancora più travolgente fato, da cui solo un Dio ci può salvare.
Ma è di nuovo e solo la modernità come scarto a manifestarsi appieno in tale interpretazione, versione estrema e sofisticata dell'irrisione romantica  contro la scienza che da sempre costituisce  il DOPPIO oscuro della modernità, quello che in apparenza teme la tecnica ma che soprattutto ha in orrore l'individuo. E che predica il rifiuto di una modernità spacciata come compiuta, mentre in realtà si nutre della modernità ELUSA. Perciò, proprio nell'ora della sua apparente realizzazione, suona più che mai ingannevole la nostalgica profezia dell'incantatore di Messkirch, che intese svelare, favoleggiando, l'equivalenza metafisica di America e Russia, entrambe in preda al delirio della tecnica, unica esaustiva dimensione della modernità.
Quella opposizione non era affatto apparente, per cominciare,. Chi ha sperimentato i cantieri dell'uomo nuovo e altre delizie totalitarie, resterà ottusamente insensibile e ostinatamente sospettoso di fronte a siffatte equivalenze metafisiche, e tenacemente affezionato alle differenze anche più sottili - ad esempio fra le ingiustizie dello sviluppo capitalista e gli orrori dello sfruttamento da nomenklatura - all'interno di quell'unico esperibile Tutto che è la vita individuale, l'esistenza concreta e irripetibile che a ciascuno è data nella incerta durata di una certa finitezza.
Il pastore dell'Essere è d'altronde un habitué di tali metafisiche o essenziali equivalenze: "L'agricoltura è oggi industria motorizzata della nutrizione, che per essenza è identica alla fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, identica al blocco e all'affamamento dei paesi, identica alla fabbricazione di bombe all'idrogeno (così in una conferenza pubblica del 1949, secondo la testimonianza di W. Schirmacher […] Kellog's e Simmenthal  come Himmler e Eichmann. Per chi le assaggia, tali equivalenze essenziali gridano vendetta e capestro, si sia pure mille volte essenzialmente contrari alla pena di morte.»

Si noti che in questo brano, Flores d'Arcais definisce il progetto di potenza della modernità come un progetto di autonomia: strano gioco di parole, perché la potenza è potenza e l'autonomia è autonomia; e, se è vero che la potenza offre una forma di autonomia, è altrettanto vero che i due concetti non sono affatto equivalenti, e tanto meno sinonimi.
Potremmo definire la filosofia di Flores d'Arcais come un umanesimo radicalmente ed esplicitamente ateo: un umanesimo che pretende di sostituire al regno di Dio il regno dell'uomo, peraltro senza porsi il minimo dubbio circa il preteso diritto di manipolare a piacere tutti gli altri esseri viventi; un umanesimo, appunto, basato sull'idea del potere, e sia pure contrabbandato sotto le mentite spoglie dell'autonomia.
Autonomia vuol dire, etimologicamente, capacità di seguire una legge, di darsi da se stessi la legge, senza bisogno di un intervento esterno. Però non vuol dire che questa legge debba scaturire dalla propria capacità di esercitare un potere sulle cose o sugli altri; al contrario: significa che si è in grado di esercitare una padronanza di sé, e, dunque, di porsi dei limiti.
Ecco, dunque, quello che manca nel ragionamento di Flores d'Arcais: il senso del limite. Questa é una parola che non ricorre mai nel suo vocabolario, nel quale pure abbondano i richiami ai diritti di tutti e di ciascuno.
Eppure, egli mostra di meravigliarsi se, ad un certo punto, l'autonomia degenera in ipostasi dell'uomo e dà luogo a forme di dominio generalizzato e fanatico; depreca che la tecnica prenda così brutalmente il sopravvento sul progetto di emancipazione dell'uomo, proprio della modernità: come se l'autonomia, intesa come potenza, potesse generare frutti diversi da questi.
Tutti i bei discorsi sulla volontà di convivenza e sulla condivisione del potere non sono che vuote parole, con cui egli vorrebbe mascherare la nuda realtà di un umanesimo proiettato verso un potere senza limiti: perché, se l'uomo non riconosce dei limiti al proprio agire nei confronti della natura, finirà per non riconoscerli nemmeno nei confronti dell'altro. L'esasperazione della tecnica non è che il logico sviluppo delle premesse.
Flores d'Arcais sostiene che il demone della tecnica non è la punizione estrema per il peccato di orgoglio da parte dell'umanità: la sola idea che si possa dare questa interpretazione lo irrita e lo indigna (forse anche per l'evidente richiamo alla Bibbia); ma, per la verità, egli non si prende la pena di confutarla; la dà per confutata, senza spiegarci perché.
Insiste quindi sul concetto di scarto della modernità; ma, anche qui, non sembra particolarmente interessato a spiegare come mai non solo lo scarto esista, ma tenda ad accentuarsi sempre di più: forse perché tale constatazione sarebbe inconciliabile con una filosofia del progresso, quale è il suo umanesimo ateo?
Pure, bisogna pur dare almeno l'apparenza di una spiegazione: ed ecco allora la trovata geniale: lo scarto esiste, ma soprattutto nella propaganda dei nemici della modernità. Per essi, la modernità è un bersaglio di comodo, perché sanno benissimo, nella loro perfidia, che la modernità non si è pienamente realizzata; perciò preferiscono prendersela con la modernità elusa, con il tradimento o con il sottile diniego di essa. Strategia veramente impagabile: anche perché inattaccabile, in quanto non sarà mai e poi mai falsificabile. Qualcuno ha voglia di prendersela con gli aspetti aberranti della modernità? Ebbene, sappia che non si tratta della modernità compiuta, ma di quella elusa; quest'ultima è virtuosa, non farebbe mai nulla di male.
Vi sono, pertanto, due modernità: quella vera (e buona) e quella falsa (e cattiva); la prima tende al proprio compimento, la seconda mira al tradimento di sé stessa; la prima è quella cui dovremmo guardare, la seconda è quella che tutti criticano, ma in mala fede, perché dovrebbero sapere benissimo che essa non è la modernità vera, la modernità giusta.
Passando, poi, a tradurre nelle concrete categorie politiche questa visione della modernità, Flores d'Arcais lancia i suoi strali contro Martin Heidegger, altro cattivo profeta dell'anti-modernità, da lui definito «l'incantatore di Messkirch».
La sua colpa? Avere equiparato Russia ed America nel comune delirio della tecnica. In realtà, invece, il delirio sovietico è quello brutto e cattivo, mentre quello americano è tutta un'altra cosa: certo, anch'esso testimonia un errore e un peccato, ma per carità!, un peccato veniale!
Non solo: Heidegger aveva osato paragonare i campi di sterminio alla pratica di affamare interi Paesi e continenti, evidenziando come la stessa Europa fosse divenuta un grande campo di concentramento, per effetto del blocco navale anglo-americano, e ciò per ben due volte nella prima metà del XX secolo (cfr. anche il nostro articolo: «Violando i diritti dei popoli, la Gran Bretagna affamò gli Imperi Centrali», sempre consultabile sul sito di Arianna).
Evidentemente, Flores d'Arcais non è neanche sfiorato dal dubbio che una democrazia possa essere profondamente totalitaria; che una democrazia, pur dichiarando di voler difendere i diritti del singolo individuo (cosa che sta sommamente a cuore al Nostro), possa, di fatto, conculcarli più di quanto voglia o sia in grado di fare una dittatura esplicita; che, infine, la vera minaccia al futuro dell'umanità non venga dal defunta tecnocrazia sovietica, ma dalla rampante tecnocrazia americana. E sì che, nel 1992, il muro di Berlino era già caduto, e l'Unione Sovietica si era ormai irreparabilmente dissolta!
Per concludere, e a dispetto del suo radicalismo liberale, che ne fa un campione della democrazia in quanto modernità perfettibile (mentre i recenti totalitarismi sarebbero la negazione della modernità, quindi il male assoluto; strano: qualcuno li ha anzi paragonati a delle scorciatoie verso di essa), Flores d'Arcais non si perita di imprimere una svolta forcaiola al suo argomentare, auspicando la pena di morte mediante capestro per il buon vecchio Heidegger. Meno male che non ha proposto il rogo: in tal caso, l'equivalenza tra la sua idea della modernità e l'aspetto più deteriore della cultura medievale apparirebbe lampante, sotto gli occhi di tutti: perfino dei suoi.
Che cosa concludere da tutto ciò?
Ci sembra che esistano molti elementi comuni fra la concezione della modernità di Paolo Rossi e quella di Flores d'Arcais (cfr. il nostro precedente articolo: «La critica alla modernità è un "oscurantismo antiscientifico"?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 29/9/2009). Entrambi i filosofi manifestano la tendenza a «fare quadrato» davanti qualsiasi critica venga rivolta alla modernità, vista in se stessa come buona e progressiva; entrambi si scagliano con autentico furore contro i suoi detrattori, recenti e meno recenti; entrambi si sentono difensori della «parte giusta» della storia, e leggono le recenti vicende storiche come la conferma della validità delle loro posizioni.
Ma c'è di più.
Entrambi adorano la ragione strumentale e calcolante; entrambi sognano un dominio totale dell'uomo sulla natura; entrambi partono dal presupposto che solo dalla modernità può venire la salvezza, sotto forma di emancipazione dell'uomo: al di fuori di essa, non vi sarebbero che le tenebre dell'errore, e, per soprammercato, le catene di una ideologia politicamente intollerabile: quella di destra per Rossi, quella di sinistra per Flores d'Arcais.
Più simili di così…