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Una pagina al giorno: «Esame di coscienza di un letterato», di Renato Serra

di Francesco Lamendola - 03/08/2009


Da «Esame di coscienza di un letterato» di Renato Serra (Roma, Newton Compton Italiana, 1973, pp. 46-50);

«[…] I secoli si sono succeduti ai secoli; e sempre questi branchi di uomini sono rimasti nelle stesse valli, fra gli stessi monti: ognuno al suo posto, con una agitazione e un rimescolio interminabile che si è fermato sempre agli stessi confini. Popoli razze nazioni da quasi duemila anni sono accampati fra le pieghe di questa crosta indurita:  flussi e riflussi, sovrapposizioni e allagamenti induriti  hanno a volta a volta sommerso i limiti, spazzato le plaghe, sconvolto, distrutto, cambiato. Ma così poco, così brevemente. Le orme dei movimenti e dei passaggi si sono logorati nel confuso calpestio delle strade; e intorno, nei campi, nei solchi, fra i sassi la vita ha continuato uguale; è ripullulata dalle semenze nascoste, con la stessa forma, con lo stesso suono di linguaggi e con gli stessi oscuri vincoli, che fanno di tanti esseri divisi, dentro un cerchio indefinibile e preciso, una cosa sola: la razza, che rinnova attraverso cento generazioni diverse la forma dei crani che giacciono  ignoti sotto gli strati del terreno millenario,  e l'accento, e la legge non scritta.
Che cos'è una guerra in mezzo a queste creature innumerevoli e tenaci, che seguitano a scavare ognuna il suo solco, a pestare il suo sentiero, a far dei figli sulla zolla che copre i morti; interrotti, ricominciano: scacciati, ritornano?
La guerra è passata, devastando e sgominando;  e milioni di uomini non se ne sono accorti.  Son caduti, fuggiti gli individui;  ma la vita è rimasta, irriducibile nella sua animalità istintiva e primordiale, per cui a vicenda del sole e delle stagioni  ha più importanza ala fine che tutte le guerre, romori  fugaci, percosse sorde che si confondono  con tutto il resto nel travaglio e nel dolore fatale del vivere. […]
La storia non sarà finita con questa guerra, e neanche modificata essenzialmente;  né per i vinti, né per i vinti. E forse, neanche per l'Italia.
Viltà italiana, destino mancato, strade chiuse, posto perduto per sempre. Anche noi, in questi mesi di aspettazione, abbiamo parlato di queste cose; o piuttosto non abbiamo avuto il coraggio di parlarne, oppressi da un'angoscia oscura, affrettando coll'animo di giorno in giorno il momento, che non passasse l'occasione, che non si perdesse in modo da non poter essere più ritrovata.
Certo, c'era qualche cosa di vero in queste ansie.
Che l'Italia abbia qualche cosa da fare; un dovere da compiere e un avvenire da preparare o da assicurare, qualche cosa di storicamente determinato e preciso, ai suoi confini, sulla sua strada, lo sappiamo tutti; anche quelli che lo negano e lo impediscono, con uno sforzo che finisce a definire con certezza sempre più semplice il problema presente.
Ma appunto perché questo problema è essenziale e sostanziale alla nostra storia, non possiamo credere che si esaurisca con oggi. Quella ricostruzione della nostra gente, intera e attraversata ancora una volta sul cammino e contro l'urto dei vicini crescenti, quell'anticipazione del nostro avvenire  per le antiche perpetuamente rinnovate vie del levante, che avremmo voluto realizzare oggi, sono tutt'una cosa con l'Italia. E l'Italia resta. Non finisce, non muore; anche se sembri ora esclusa dal dramma immenso,  sorda al richiamo del suo destino, abbandonata come un pezzo di legno morto fuor della corrente della storia.
Ceti problemi non possono rimaner legati al destino di una generazione; che può anche essere fiacca, pettegola, ottusa, cieca, vile; come questa sembra. Ma l'Italia è un'altra cosa. è una realtà. Pare che dorma, in questa distesa grigia, fra queste Alpi taciturne e questo mare scolorito, sotto il cielo basso e chiuso; con tutti i suoi uomini rintanati nel torpore e nello squallore delle piccole cose, ognuno stretto fra i suoi muri, seduto ala cenere e al fumo del suo focolare, imprigionato nel suo buco, nel suo orizzonte, nei suo interessi, nelle sua meschinità. Di quali destini o di quale avvenire vorrete parlare al bottegaio delle città lassù, o al contadino o al contadino di questa campagna? Di quali problemi si può accorgere , al di fuori del tempo, la vitalità del branco, attaccato alla sua terra, alle sue cupidigie,  al suo lavoro e al suo dolore,  oggi come tremila anni fa; come sempre, fin che ci saranno viventi sotto il sole?
E va bene. Soltanto, la debolezza di oggi può esser la virtù di domani. Questa quasi animalità sorda e irriducibile, che esaspera oggi e contrista le nostre coscienze agitate, è forse una delle forze sostanziali, è la realtà della razza; che esiste e resiste, cresce, si espande, si moltiplica con una spinta istintiva, oscura,  e dispersa ancora, ma profonda e tenace,  capace di ritrovarsi e affermarsi al di là della nostra vita, , che è corta e transitoria.
Questa Italia esiste; vive; fa la sua strada.  Se manca oggi alla chiamata, risponderà forse domani;  fra cinquanta anni; fra cento; e sarà ancora in tempo.  Che cosa sono gli anni a un popolo?
Il mare, i monti, il teatro della storia, non si muta: l'Italia ha tempo. Non c'è niente mai di fallito o di perduto in un popolo che ha la vitalità e la vivacità di questo. Anche se non avrà preso parte ala guerra. […]»

La drammaticità, e il tono sconsolato, di questo esame di coscienza deriva essenzialmente, come si vede, dal fatto che, per Serra, non si tratta soltanto di decidere intorno a una questione politica, e sia pure di decisiva importanza, quale lo scioglimento del nodo della neutralità italiana e l'intervento nella prima guerra mondiale; ma, più in generale, di porre sul tappeto l'antica e mai risolta dialettica fra arte e vita, tra letteratura e impegno concreto nella società.
Renato Serra compie una opzione estremamente sofferta, schierandosi nel campo dell'interventismo ma con una premessa storico-filosofica che lo distanzia e, addirittura, lo isola da tutti gli altri interventisti, sia democratici, sia, a maggior ragione, conservatori e nazionalisti. Per lui, infatti,  non chiarissime appaiono al popolo italiano le ragioni dell'intervento; e, più in generale, è convinto che la guerra non risolverà i problemi d'Europa e del mondo, per il semplice fatto che nessuna guerra ha mai risolto nessun problema; o, se ne ha risolti, ne ha prodotti, essa stessa, di nuovi e più complessi, rispetto ai precedenti.
Con simili premesse, c'è da chiedersi che cosa ci faccia Renato Serra nel campo degli interventisti e perché egli stesso si sia arruolato volontario, andando a morire sul Monte Podgora, presso Gorizia, in quei primi mesi di guerra del 1915: concludendo così, con dignità e con estrema coerenza, una scelta militante che però, essa stessa, partiva da motivazioni che appaiono, francamente, tutt'altro che chiare e coerenti.
Se non credeva in quella guerra come soluzione dei problemi politici internazionali; se non credeva nell'azione risolutiva di nessuna guerra: perché mai Renato Serra ha unito la sua voce a quella di coloro che vollero trascinare nel grande massacro un popolo sostanzialmente contrario e un Parlamento a dir poco recalcitrante? Perché si unì a quella minoranza aggressiva e, sovente, faziosa, che volle imporre una scelta sanguinosa ad una nazione riluttante, e che poté imporsi non solo per l'entusiastico appoggio della grande industria, della maggioranza della stampa e della classe degli intellettuali, ma soprattutto per l'azione politicamente e giuridicamente discutibile di tre soli individui - il Ministro degli esteri Sonnino, il Presidente del consiglio Salandra e il re Vittorio Emanuele III - i quali, sottoscrivendo il patto di Londra del 26 aprile 1915, all'insaputa del Paese e del Parlamento, effettuarono una sorta di colpo di Stato legale?
La risposta che egli dà è che riteneva necessario che gli intellettuali vedessero nella guerra una occasione ineludibile per fondersi con il popolo e svolgere, in esso, la funzione di lievito spirituale; e che non era tanto importante indicare degli obiettivi politici e strategici quale scopo dell'intervento - fossero Trento, Bolzano, Trieste o la Dalmazia - quanto trovare degli uomini che si dimostrassero capaci di «vivere e di morire insieme, anche senza sapere il perché».
La guerra, dunque, come grande occasione per completare l'opera del Risorgimento, cementando lo spirito nazionale e l'integrazione fra popolo e classi dirigenti (una interpretazione non diversa da quella che, del fascismo, avrebbe poi dato il filosofo Giovanni Gentile); e, inoltre, come palestra di virtù morali, ove quello che importa non è tanto sapere per quali obiettivi materiali, concreti, si lotta e si muore, ma proprio il fatto di essere capaci di lottare insieme e di morire insieme, virilmente e con la coscienza del dovere compiuto.
Eppure, ed è proprio Serra a riconoscerlo, la vitalità di un popolo non si misura sul metro degli anni, ma dei secoli; e la partecipazione alla guerra, se non è sentita dalle masse, non è indispensabile al presente, perché vorrà dire che esse saranno pronte in un altro momento: l'Italia, egli dice significativamente, ha tempo. Ma, se le cose stanno così, perché aderire al partito della guerra, perché arruolarsi volontario per andare al fronte subito, fin dalle prime battaglie?
Come si vede, si tratta di una posizione non del tutto lineare e convincente dal punto di vista teorico, nella quale si mescolano, ma senza fondersi in modo coerente, istanze mazziniane e democratiche, volontariste e decadentiste. In polemica con Benedetto Croce (di cui, tra l'altro, contestò l'ottusa stroncatura della poesia di Giovanni Pascoli), Renato Serra era cresciuto nel culto del Risorgimento e aveva sofferto, come altri intellettuali della sua formazione e della sua sensibilità., dell'appiattimento e dell'imborghesimento della generazione post-risorgimentale (i «figli degli eroi», che si erano trovati la Patria bell'e fatta, ma poco o nulla avevano dato alla giovane nazione in termini di idealità, generosità, slancio etico e volontà di condivisione del medesimo destino con gli strati popolari e contadini).
In fondo, il dramma umano, politico e culturale di Renato Serra è quello di una intera generazione di intellettuali, presi nelle strettoie di una vita politica provinciale, meschina, rinunciataria, e, soprattutto, resa asfittica dalla mancata partecipazione alla vita nazionale delle due maggiori componenti sociali e politiche: quella socialista, che in nome della lotta di classe si pone contro lo Stato, e quella cattolica, che rifiuta lo Stato in nome di una pregiudiziale dovuta alla risoluzione violenta della «questione romana» e al prevalere, nelle classi dirigenti liberali, di atteggiamenti fortemente anticlericali, sovente ispirati dalle potenti logge massoniche, cui appartennero anche uomini come Mazzini e Garibaldi.
Si trattava, dunque, di un irrisolto nodo storico di portata nazionale, che era, in fondo, il riflesso di una crisi più vasta: l'incapacità della cultura e della politica liberale di adeguarsi alle mutate condizioni venutesi a creare con l'avvento della società di massa e con la nascita dei grandi partiti affermatisi con l'introduzione del suffragio universale maschile.
Renato Serra, geniale «lettore di provincia» (era, dal 1909, direttore della Biblioteca Malatestiana nella sua città natale, Cesena), cercò di superare il disagio proprio dell'intellettuale nei confronti della società, di colmare quel distacco fra arte e vita che, particolarmente in Italia, colpiva dolorosamente gli spiriti più sensibili e aperti; e cercò di farlo sulla base di una scelta volontaristica e sentimentale, individuando nella guerra e nei suoi sacrifici l'elemento catalizzatore di una possibile rinascita spirituale.
Allo stesso modo il Renato Serra critico letterario aveva sostenuto, in una prospettiva quasi bergsoniana, la bontà del metodo intuitivo, mediante il quale, in virtù di una illuminazione improvvisa, il critico può entrare nell'atmosfera delle opere letterarie e penetrare l'essenza psicologica ed esistenziale dei loro personaggi. Anche qui, dunque, assistiamo a quella caratteristica insofferenza nei confronti delle pesantezze filologiche, dell'erudizione puntigliosa e fine a se stessa, e la propensione per un approccio più immediato e quasi mistico all'essenza dell'opera; anche qui, non possiamo non notare la preminenza di quello spirito volontaristico, di quell'afflato creativo, che caratterizzano la personalità culturale ed umana del Nostro.
Si tratta di un approccio all'arte che è anche un approccio alla vita; e che, se ha consentito a Renato Serra di penetrare con notevole acume e finezza nei risvolti dell'opera di Pascoli, di Péguy, di Kipling, di Rolland, nondimeno appare francamente un po' inadeguato a sostenere e motivare adeguatamente una scelta di così tragica risonanza, quale l'entrata dell'Italia nel grande carnaio della prima guerra mondiale.
Pure, la serietà e l'onestà intellettuale di Renato Serra sono di una qualità così limpida e cristallina, possiedono accenti di verità umana così vivi e toccanti, che è impossibile, o quasi, non provare una sincera ammirazione e un profondo rispetto per un intellettuale che, come lui, seppe porsi con tanta sofferta problematicità di fronte ai problemi vitali della nazione.
Sul Serra e su questo memorabile «Esame di coscienza», una pagina esemplare è stata scritta dallo storico della letteratura Mario Pazzaglia, autore di un manuale che oggi è stato ingiustamente dimenticato, mentre è stato uno strumento culturale di estrema validità per la generazione di studenti degli anni Settanta (da: M. Pazzaglia, «Antologia della letteratura italiana con lineamenti di storia letteraria», Bologna, Zanichelli, 1972, 1976, vol. 3, p. 949-950):

«Il Serra ha dato spesso l'impressione di essere un lettore dal gusto finissimo, inteso essenzialmente a sceverare la poesia dalla non-poesia, ma i suoi saggi migliori esprimono l'esigenza di ritrovare, al di là dei valori letterari, pur nitidamente percepiti, un messaggio integrale d'umanità, di ritornare dal culto della letteratura "pura", alla vita, alla storia, a una problematica spirituale. Per questo tutta la sua opera di critico, che rivela anche finissime doti di scrittore, appare un esame di coscienza e una ricerca, pervasa, nonostante il tramonto d'ogni fede, da un'ansia religiosa, dal bisogno di trovare una giustificazione del proprio destino umano.
In questo senso, l'"Esame di coscienza di un letterato", scritto fra il '14 e il '15, alla vigilia della nostra entrata in guerra, ci appare il suo scritto più significativo. Da un lato, esso è l'esame rigoroso, della propria anima e della propria vita da parte dello scrittore che anela a una suprema e totale giustificazione, uscendo dal mondo "privato" delle lettere per ritrovarsi intero nella propria responsabilità morale davanti alla vita e alla storia; dall'altro è l'esame di coscienza di tutta una generazione, un dialogo con tutta la cultura italiana di quegli anni. Non stupisca il fatto che, davanti a un evento grave e complesso come una guerra, il Serra incentri la sua meditazione, almeno inizialmente, su motivi letterari. Al culto delle lettere, più che a concreti impegni morali, civili, politici, era rivolta, in quegli anni, la nostra vita intellettuale, sia per le suggestioni della poetica decadentistica., fondata sulla fusione, e, spesso, confusione di arte e vita, sia per la nuova ondata soggettivistica e idealistica, sia, soprattutto, per la mancanza d'un impegno autentico degli intellettuali nella vita collettiva della nazione e il loro distacco dalle masse popolari. Per questo manca, nell''"Esame", una concreta valutazione politica della situazione. Ma la sua importanza sta nel fatto che esso dissolve gli aspetti più speciosi della cultura decadentistica, a cominciare proprio da quello dell'esaltazione della letteratura come forma suprema d'esistenza.  Qui, infatti, essa è rigorosamente posposta alla moralità, cioè all'assunzione d'una piena responsabilità umana davanti agli altri e cogli altri. Per questo il Serra riesce a demolire miti e pregiudizi nazionalistici la guerra" igiene del mondo", il frenetico attivismo futurista e papiniano, l'idea rettorica d'una "missione" dell'Italia. Erano tutti miti fondamentalmente letterari. Sia che fossero d'origine dannunziana sia idealistica, rappresentavano l'illusione dell'io soggettivo di costruire la realtà con un puro atto spirituale e solitario, poeticamente, si potrebbe dire, e cioè in forma estetizzante. Ed estetizzante era l'attesa miracolistica della guerra come intervento d'un'ineffabile realtà, capace di purificare e trasformare la vita di tutti; come se l'esistenza non dovesse essere vissuta e conquistata ora per ora, nell'umile dignità del lavoro costruttivo, e non in quelle che vengono fantasiosamente chiamate le grandi svolte del destino. "La guerra non cambia nulla"; questo comprende il Serra, ed è questa la scoperta fondamentale dell'"Esame"; solo la consapevole assunzione dei nostri doveri e delle nostre responsabilità quotidiane può renderci veramente e pienamente uomini.
Il "letterato" rientra così nei ranghi; vuole marciare nella vita e nella morte con gli altri, con l'umile gente della sua Romagna, che gli chiede se ci sarà la guerra, a volte con coraggio, a volte con viltà, ma pronta a vivere intera la propria angoscia e la propria speranza con adesione elementare e sincera alla vita; un'adesione, peraltro, che ha in sé l'accettazione d'un dovere e d'una responsabilità che costituiscono la non effimera dignità dell'uomo.
È questa la fede superstite del Serra, che non crede in Dio,, ma  ha ancora sete d'eternità; cioè di sentirsi essere e vivere autenticamente nell'ora breve del suo destino umano.»

Pazzaglia, giustamente, evidenzia altri due aspetti importanti della posizione teorica e pratica di Renato Serra davanti all'evento dell'entrata in guerra: il rifiuto dell'equivalenza dannunziana fra vita e letteratura, mettendo giustamente in risalto la matrice letteraria di molti miti i quali, pure, divennero effettive ragioni di persuasione alla guerra per non pochi intellettuali e studenti di estrazione borghese; e l'astrattezza, se non il velleitarismo, della posizione idealistica, secondo la quale la storia è il prodotto di un puro e solitario atto della volontà individuale (posizione che Giovanni Gentile porterà alla mistica dell'«atto puro»), di cui, pure, vi è traccia nell'«Esame», a dispetto della sua conclamata volontà di misurarsi con la concretezza della vita.
Un terzo elemento importante evidenziato da Pazzaglia è l'attaccamento di Serra alla sua Romagna, ai suoi monti, al suo mare, al suo cielo: pochi intellettuali hanno mostrato un legame così forte, così ancestrale, così indistruttibile, con la propria terra, al punto da scegliere di rimanere in provincia, volgendo le spalle ad incarichi e possibilità ben maggiori dischiusi dal trasferimento in qualche importante città: che, nel caso del Nostro, avrebbe potuto essere Firenze, dato il ruolo di collaborazione e di complementarità da lui svolto nei confronti della celebre rivista «La Voce» e della svolta da essa operata con G. De Robertis (succeduto a Prezzolini).
Infine, la dimensione religiosa, che percorre come un fremito tutto il testo; e che, aggiungiamo noi, balza in primo piano già dalla scelta del titolo: poiché l'atto di coscienza è un atto essenzialmente religioso. Certo, Serra non era credente; ma che vuol dire? Non solo la professione di una fede esplicita qualifica come «religiosa» la natura di un essere umano. Si può essere privi di una fede positiva, e tuttavia possedere un'indole essenzialmente, profondamente religiosa.
Possedere un'indole religiosa significa porsi di fronte a se stessi, agli altri e alla vita in pensoso  atteggiamento di rispetto, di ascolto, di sacralità, di impegno rigoroso ed esigente: tutte caratteristiche che appaiono presenti e ben marcate nella personalità di Renato Serra, anche a chi abbia letto soltanto il suo «Esame di coscienza di un letterato».