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Arundhati Roy, j’accuse sugli armeni

di Arundhati Roy - 03/08/2009

Non ho mai conosciuto di persona Hrant Dink, purtroppo, e questa lacuna mi rimarrà per sempre. Da quel che so di lui e di ciò che scriveva, diceva e faceva, del modo in cui viveva la sua vita, so che se mi fossi trovata a Istanbul sarei stata tra le centomila persone che hanno accompagnato la sua bara in silenzio assoluto per le vie gelate della città, reggendo cartelli con la scritta «Siamo tutti armeni» o «Siamo tutti Hrant Dink». Forse io ne avrei portato uno con scritto «Un milione e mezzo + uno».

Mi chiedo che pensieri mi sarebbero passati per la testa camminando accanto alla bara di Hrant Dink. Forse avrei risentito la voce di Araxie Barsamian, madre del mio amico David Barsamian, mentre raccontava la storia sua e della sua famiglia. Nel 1915 Araxie aveva dieci anni. Si ricordava degli sciami di cavallette che avevano invaso il suo villaggio, Dubne, a nord della storica città di Dikranagert, l’ odierna Diyarbakir. Gli anziani del villaggio ne erano allarmati, raccontava Araxie, perché se lo sentivano nelle ossa: le cavallette erano cattivo segno. E avevano ragione. La fine sarebbe giunta di lì a pochi mesi, con il grano pronto per il raccolto nei campi.

«Quando ce ne andammo, la mia famiglia contava venticinque persone in tutto» diceva Araxie Barsamian. «Si presero tutti gli uomini. Chiesero a mio padre: 'Dove tieni le munizioni?' E lui rispose: 'Le ho vendute'. Allora gli dissero: 'Va’ a riprenderle'. Mio padre andò a ri prendersele, nella città curda, e lì lo riempirono di botte e gli porta rono via anche i vestiti. Quando tornò a casa – me l’aveva raccontato mia madre – quando tornò, nudo come un verme, finì in prigione. Gli tagliarono le braccia ... e morì in prigione. Poi portarono tutti gli uomini nei campi, legarono loro le mani e spararono. Li uccisero tutti ». Araxie, sua madre e i tre fratelli minori furono deportati. Morirono tutti tranne lei. L’unica sopravvissuta. Questa è una singola testimonianza di un avvenimento storico negato dal governo turco e anche da molti cittadini turchi. Il giorno del mio arrivo a Istanbul, ho girato per le strade della città per ore e ore, e mentre mi guarda vo in giro, invidiosa della gente di Istanbul che vive in una città così bella, misteriosa e ricca di emozioni, un amico mi ha indicato dei ragazzi con uno zucchetto bianco in testa, apparsi d’improvviso come un’eruzione cutanea, in tutta la città. Mi ha spiegato che manifestavano solidarietà al giovanissimo assassino di Hrant, che indossava uno zucchetto bianco simile, al momento del delitto.

Era evidente che l’omicidio doveva servire sia come punizione per Hrant, sia per lanciare un avvertimento a chi in questo paese poteva prendere l’esempio dal suo coraggio e non solo dire l’indicibile, ma pensare l’impensabile. Era questo il messaggio scritto sulla pallottola che ha ucciso Hrant Dink. Ed è questo il messaggio contenuto nelle minacce di morte ricevute da Orhan Pamuk, Elif Shafak e altri che hanno osato professarsi in disaccordo con la posizione del governo turco. Prima di essere ucciso, Hrant Dink era stato processato per tre volte in base all’articolo 301 del codice penale turco, secondo il quale la denigrazione pubblica dell’«identità turca» è un reato penale. Ognuno di questi processi era una strizzata d’occhio da parte dello Stato turco alla destra fascista del paese: Hrant Dink, si sottintendeva, era un bersaglio lecito. Come si può denigrare l’ identità turca dicendo la verità? E chi ha il diritto di stabilire definizione e confini di quell’identità? Hrant Dink è stato ridotto al silenzio. Ma chi esulta per la sua morte dovrebbe sapere che è stato un atto controproducente. Invece di mettere a tacere la cosa, ha creato un gran trambusto.

La voce di Hrant è diventata un urlo che non potrà essere messo a tacere mai più, né dalle pallottole, né dall’incarcerazione, né dagli insulti. È una voce che grida, sussurra, canta, rompe il silenzio prepotente, che ha ricominciato a serrare le fila come un esercito sbandato in via di riorganizzazione. Ha suscitato la curiosità del mondo intero per una cosa accaduta in Anatolia più di novant’anni fa. Una cosa che i nemici di Hrant vogliono insabbiare. Dimenticare. Be’... per quanto mi riguarda, la mia prima reazione è stata cercare di scoprire il più possibile riguardo agli eventi del 1915, leggere i libri di storia, ascoltare le testimonianze. Cose che magari, altrimenti, non avrei mai fatto.

La battaglia contro i ragazzi con lo zucchetto di Istanbul e della Turchia intera non è la mia battaglia, è la vostra. Io ho le mie battaglie da combattere, nel mio paese, contro altra gente che indossa altri copricapi e brandisce torce. In un certo senso non sono battaglie molto diverse. Su un punto fondamentale, però, differiscono. Mentre in Turchia si tace, in India si festeggia; e non so davvero cosa sia peggio. Il silenzio, mi azzardo a dire, fa pensare alla vergogna, e la vergogna presuppone una coscienza. È un’interpretazione troppo in genua e generosa? Forse, ma perché non provare a essere ingenui e generosi? I festeggiamenti, purtroppo, non si prestano all’inter pretazione. Sono ciò che dicono di essere.