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Massimo Fini: «Jackpot? È una truffa. Ma le regole sono sacre»

di Eleonora Barbieri - 03/08/2009

 
 
Massimo Fini, il jackpot del superenalotto è ormai a una cifra record e i vescovi hanno proposto di porre un tetto. È una buona idea?

«Penso che giochi come il superenalotto e le lotterie siano truffe ai danni dei cittadini».

Addirittura. E perché?

«Sono come una tassa in più: per uno che vince, tutti gli altri perdono. E intanto l’erario intasca».

Allora è favorevole alla proposta dei vescovi?

«No, perché comunque questi giochi esistono da che mondo è mondo. Tentare la sorte è un’esigenza dell’animo umano: non toglierei questa speranza, seppur improbabile».

Non si dice di abolire il superenalotto, solo di «congelare» una cifra che continua a salire e spinge molti perfino a indebitarsi...

«Talleyrand diceva: preferisco i delinquenti ai cretini, perché almeno i primi ogni tanto si riposano. Quindi, se la gente è cretina, bisogna sopportarla. Altrimenti il rischio è di limitare troppo le attività dell’individuo: già non si può bere e non si può fumare, se ora non si può neanche giocare...»

Neanche per una buona causa, come donare la vincita ai terremotati?

«Ma no. Anche questo mi sembra un intervento troppo moralistico».

Il superenalotto però non le piace. Perché? Non le piace giocare?

«Il poker con gli amici è bellissimo, ma è un gioco alla pari: vincere o perdere dipende solo da te. E di sicuro è più divertente che mettere sei numeri in fila. Ma il superenalotto è come il 13 al Totocalcio: sono i giochi dei poveri, esistono da sempre. Almeno dal medioevo in poi».

E non è cambiato nulla da allora?

«Oggi la spinta a giocare è aumentata moltissimo: la vita è così avvilente, è ovvio che il desiderio di tentare la fortuna sia aumentato».

Non è che in altri secoli se la passassero a meraviglia...

«Ma dal punto di vista del disagio psichico ed esistenziale la nostra epoca non ha uguali. E poi oggi la convinzione è che chi è ricco sia baciato dagli dèi; e che chi è povero sia un parìa, un cretino. Non esiste più il povero ma felice: oggi il povero è infelice, punto e basta».

Perciò c’è chi arriva a indebitarsi pur di giocare?

«Ci s’indebita per tante cose. E anche per il gioco. Una volta c’era la convinzione: “È bene accontentarsi di ciò che si ha”. La modernità si basa sul principio opposto: “Non è bene accontentarsi di ciò che si ha”. Quindi cerchi in ogni modo di avere ciò che non hai».

Il suo discorso non è così lontano da quello dei vescovi però...

«Ma è la società a essere così: è inutile accanirsi su un dettaglio come il superenalotto. C’è ben altro in gioco, un mondo in cui se sei ricco sei un ganzo, se sei povero non vali. È questo il punto su cui battere. Altrimenti è come se, durante un incendio, anziché salvare la casa uno pensasse solo al garage».

Insomma al superenalotto non ci gioca proprio?

«No. Però qualche volta ho fatto la schedina. E non è mai stato un buon segno».
Perché?

«Vuol dire che sei a disagio. Infatti quando mi è capitato erano sempre periodi neri».

Insomma è contrario ai giochi ma non a fissare un tetto?

«Sono contrario al gioco organizzato dallo Stato, ma non a porre dei limiti. Il gioco ha delle regole e, una volta stabilite, vanno rispettate. È ciò che lo distingue dalla vita, che è sregolata».

Nessuna eccezione?

«È come se uno continuasse a trionfare a poker e, all’improvviso, gli dimezzassero la vincita. Non esiste. Nel gioco, in qualunque gioco, la regola è sacra. Anche al superenalotto. Perché anche lì cerchi quello che nella vita non c’è o, comunque, è difficile da individuare: una regola».