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Quale cultura politica per l'ecologismo?

di Eduardo Zarelli - 04/08/2009

 


La difesa dell'ambiente è un concetto talmente diffuso nella demagogia programmatica della maggior parte dei partiti politici occidentali e delle burocrazie amministrative che ne conseguono nei più diversi livelli di responsabilità territoriale, che pare non costituire più una originalità politica.
I “costi dello sviluppo” sono presi in considerazione dai governi locali, nazionali e sovranazionali e dalla stessa organizzazione economica industriale, che tentano di sfruttare il pianeta in forme compatibili al mercato e alle risorse presenti. Un grosso ruolo, in tutto questo, lo svolge un’opinione pubblica preoccupata di perdere il “candore” di un consumismo “delicato” che concili la qualità delle merci con la quantità della massa degli aventi diritto; un bel rompicapo, tanto più se allarghiamo l’ottuso sguardo d’Occidente ai restanti 3/4 dell’umanità.
L’ecologia - la scienza delle relazioni tra gli organismi viventi e il loro ambiente naturale - ha generato molti figli e, soprattutto, un fraintendimento ed una eterogenesi dei fini. Il suo utilizzo strumentale ne ha snaturato il significato di critica complessiva al modello di sviluppo illimitato. Muoversi nel nuovo secolo del terzo millennio sull’asse orizzontale della destra e della sinistra risulta assolutamente inadatto a intendere il messaggio culturale dell’ecologia. Chi vuole porsi con onestà intellettuale e di intenti sulla via della consapevolezza ambientale deve piuttosto riformulare le proprie categorie orientandole sulla verticalità di una nuova polarità: ambientalismo di superficie o ecologia profonda.

 

Ambientalismo: un’ecologia funzionale
Il tentativo di conciliare la produttività industriale con la gestione dell’ambiente è l’ambientalismo. Esso si colloca in una prospettiva antropocentrica, grazie ad una visione scientifico-materialista della natura, per cui il deterioramento dell’ambiente compromette gli interessi umani di sopravvivenza. L’atteggiamento culturale, che ne consegue è largamente maggioritario, limitandosi a concepire la natura come un capitale da preservare da parte di un uomo “responsabile” e “preveggente”. Su questa base, le politiche liberiste tentano di inserire il principio chi inquina paga nelle giurisdizioni più avanzate, inconsapevoli di generare un ancor più perverso “mercato dell’inquinamento”, che mette d’accordo inquinatori ed inquinati fissando il prezzo per il danno causato. Le aziende vengono semplicemente indotte ad aggiungere il costo inquinamento tra i costi di produzione. Più articolata la proposta riformista per un ecosviluppo o modello di sviluppo sostenibile. La filosofia che sorregge questa proposta – che sembra caratterizzare alcuni passi della nuova amministrazione statunitense - si basa sulla presa di coscienza che i costi della protezione della natura sono sempre inferiori ai danni che ne risulterebbero qualora non venissero adottati. In questo senso, si proietta lo sfruttamento dell’ambiente in una prospettiva temporale futura, per cui risulta necessario non compromettere la capacità delle prossime generazioni di far fronte alle proprie necessità.
In pratica si vuole semplicemente posticipare una scadenza ineluttabile. Nel frattempo, nonostante conferenze internazionali e grandi petizioni di principio, si è ovviamente incapaci di modificare il compromissorio modello di sviluppo dominante, che, anzi, si arricchisce di un vero e proprio “mercato dell’ambiente” o eco-business, che mantiene l’ambientalismo all’interno di un sistema di produzione e consumo, causa prima dei danni cui tenta di porre rimedio.

 

L’ecologia profonda
Il termine “ecologia profonda” fu coniato da Arne Naess, recentemente scomparso, nel tentativo di descrivere un approccio spirituale alla natura esemplificato negli scritti dei precursori americani Aldo Leopold e Rachel Carson. Naess cercava un approccio sostanziale alla natura tramite una apertura e una sensibilità fondante per noi stessi e la vita umana che ci circonda. La critica all’antropocentrismo ricolloca l’uomo - olisticamente - come parte di un tutto. La natura, quindi, va protetta di per sé, per un suo valore intrinseco, indipendentemente da qualsivoglia utilità economicista. Se arrechiamo danni alla natura, danneggiamo automaticamente noi stessi.
Il tipo di approccio ecologico alla realtà, che se ne ricava, è sostanziale: bisogna interamente ripensare l’attuale società, le forme culturali e il posto dell’uomo nella natura, mutare il paradigma scientifico e tecnologico dominante. In pratica occorre agire sulle cause invece che sugli effetti. Andare all’origine delle cose significa superare l’approccio parziale e riduzionista del razionalismo immedesimandosi con il senso perduto dell’armonia tra uomo e natura, la visione metafisica della realtà divulgata – ad esempio - dagli scienziati Fritjof Capra e Gregory Bateson.

Una visione sacrale
La maggior parte delle forme di religiosità tradizionali ha un carattere cosmico. L’universo viene da esse inteso come un insieme vivente correlato, del quale l’uomo è parte per il solo fatto di esistere. La natura è animata, il territorio si compone di luoghi sacri, il tempo è connaturato ai cicli cosmici celebrati con i riti e i sacrifici, che uniscono in un'eterna spirale il dare e il ricevere della vita e della morte, in una solidarietà profonda tra l’uomo e l’esistente. Il messaggio dell’ecologia profonda reagisce ad un antropocentrismo che fa dell’uomo un valore prescrittivo, riallacciandosi a una concezione del mondo tipica della religiosità delle società arcaiche; queste, da sempre giudicate superficialmente “società chiuse”, si rivelano, al contrario, aperte alla totalità del cosmo e quindi malleabili, nell’organizzazione del corpo sociale, in una varietà di sfumature e di significati profondi che permeavano il senso del vivere quotidiano.
Partendo da questa interpretazione tradizionale della natura è possibile completare il concetto di uguaglianza biocentrica che altrimenti potrebbe essere intesa moralisticamente come una improbabile parità di diritti giuridico formali. In realtà, la natura vale per quello che è, non esiste una natura buona o cattiva, che risente di una proiezione umanistica e, quindi antropocentrica. Conseguentemente, l’uomo, pur non essendo l’unico essere “biocosciente”, è sicuramente l’unico ad avere consapevolezza di questa coscienza ed è per questo che sulla base dei suoi presupposti naturali biologici, genetici, istintuali, rimane spiritualmente indeterminato e libero di scegliere, in termini culturali, il proprio destino.

 

Il concetto di limite
Una cultura ecologista conseguente deve identificarsi con una opposizione all’ideologia economica dominante e ai suoi presupposti tecnologici e scientifici, in altre parole alla concezione secondo cui la società degli individui - intesi come produttori e consumatori razionali - si fonda sul meccanismo autoregolativo del mercato.
In controtendenza, è possibile ritrovare un rapporto armonico tra cultura e natura in ambiti di reciprocità comunitaria, che subentri al contrattualismo individualistico e riduca la scala delle necessità fino a ricreare, per sussistenza, sussidiarietà e complementarietà, scopo e compiutezza universale. Il senso del limite, la sobrietà, la cultura delle differenze quale logica conseguenza della biodiversità, devono imperniare l’azione diretta ed esemplare di chiunque, gruppo o singolo, voglia sentirsi in connessione con la saggezza “omeostatica” della natura.

 

Un messaggio minoritario?
Il tipo di comunità maggiormente in grado di cominciare il “vero lavoro”, per dirla con Wendell Berry, di formare una consapevolezza ecologica allargata si trova nella partecipazione popolare. La crisi del proceduralismo democratico, la distanza tecnocratica delle strutture centralizzate, la massificazione ipertrofiche della società consumistica, pongono, in controtendenza, il riconoscimento delle lingue e delle culture regionali, dei costumi e delle tradizioni locali come base di un nuovo rinascimento culturale che abbia nelle radici la capacità di reggere la proiezione dinamica della modernità. In tal senso, la smaterializzazione digitale e le potenzialità della rete coadiuvano una realtà di fatto ove ogni luogo si fa centro del mondo, in barba ad ogni banale accusa di “provincialismo”. Non a caso, questo riconoscimento si accompagna al ritorno alla manualità, all’artigianato, ai saperi intuitivi, ai comportamenti spontanei che sostanziano la cultura vernacolare che Ivan Illich ha sempre indicato come serbatoio inesausto di praticità ecologica e di saggezza popolare. Le riflessioni su un “pensiero meridiano” del sociologo Franco Cassano, piuttosto che le inquietudini di Pietro Barcellona sullo scenario “post-umano” indotto dal tecnomorfismo, sono sicuramente inseribili in tale sensibilità.
Se il novecento ha portato al parossismo ideologico la volontà universalistica di ridurre le identità e il locale, paradossalmente oggi è proprio dalle identità locali e dalle realtà territoriali che si può interpretare l’universale e cogliere il profilo continentale degli equilibri multilaterali dei prossimi decenni. Nel locale può rifiorire la polis: una società capace di autoregolarsi, ove la democrazia consensuale e qualitativa responsabilizza ogni libero partecipante alla vita comunitaria, consapevole del delicato sistema naturale in cui si abita sia per il nutrimento fisico che dell’insieme di metafore dalle quali il nostro spirito trae sostanziale sostentamento. Comprendere i cicli della natura significa cominciare a comprendere se stessi, il radicamento interiore che ci lega a quell’universo di sensazioni che compone l’animo umano e ci rimanda simbolicamente alle armonie cosmiche.