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Perché non amiamo la natura? Una riflessione sulle responsabilità della cultura contadina

di Francesco Lamendola - 06/08/2009


Perché gli Italiani mostrano così poco amore nei confronti della natura, degli animali, dell'ambiente?
Giriamo la domanda al naturalista Franco Tassi, autore del bellissimo libro «Animali a rischio. Salvare la fauna del mondo, un impegno per l'umanità» (Milano, Editoriale Giorgio Mondadori, 1990, p. 29:

«Spesso ci si chiede perché il nostro splendido popolo italico, malgrado le prediche ambientali e certe scottature ecologiche, resti tanto coriaceo alle esigenze della natura. La questione non è peregrina, e del resto anche una regina mitteleuropea soleva rammaricarsi del destino delle terre mediterranee, "tanto benedette dalla natura, quanto maltrattate dagli uomini".
Come ben sa chi si occupa di ecosociologia, la scienza che studia i comportamenti sociali di fronte alle tematiche ambientali, a tale situazione non è certo estranea la filosofia antropocentrica giudaico-cristiana che pone l'uomo al centro dell'universo, per dominare e sfruttare a proprio vantaggio ogni altra creatura. (Diversamente,, gran parte delle filosofie orientali e molte culture primeve, specialmente quelle indio-pellerossa americane, vedono l'uomo come parte di un'armonia globale della Terra).
Ma sul destino dell'Italia paraecologica gravano anche un lungo passato di dominazioni straniere e un ricco rituale di piccole furberie quotidiane. Ammazzare il cervo, o abbattere la quercia, significava un tempo averla fatta in barba al "signore", magari straniero. Il quale li proteggeva di rado disinteressatamente, per il bene della collettività: più di frequente, invece, esclusivamente a proprio uso e consumo.

Malgrado tutto ciò, all'inizio del secolo l'Italia sembrava pervasa da notevole fervore culturale "europeo" in difesa del proprio patrimonio naturale - sia pur visto riduttivamente, in base alo spirito del tempo, come "paesaggio" da preservare allo stesso modo di un bel quadro -, e fu così che nacquero alcune delle scarse realizzazioni concrete, tra cui i nostri primi Parchi Nazionali. Ma al tempo stesso, sulle prime della filosofia crociana, che relegava la natura tra le proiezioni soggettive del pensiero umano e non tra le realtà di consistenza obiettiva, la riforma scolastica di Giovanni Gentile archiviò le scienze naturali tra le discipline secondarie. Ecco perché le successive generazioni di italiano hanno vissuto crogiolandosi in una cultura umanistica ridondante, ma ignorando anche l'abbiccì dell'ecologia (e non è raro ancor oggi udire politici di primo piano sostenere che "le foreste non servono a nulla" e che "glia animali vanno eliminati").
Ad accentuare la corsa ala distruzione ambientale, accanto alla mancanza di "valori comunitari" e allo sfrenato individualismo, ha concorso pure il complesso della "natura matrigna" da sconfiggere, vivissimo nella coscienza di un popolo agrosilvospastrorale troppo frettolosamente inurbato, e di una razza di pescatori troppo facilmente arricchita: che da una parte associava il verde all'idea della sofferenza e della miseria, e dall'altra si cullava nell'illusione che il mare fosse una cornucopia di risorse inesauribili.
A questo punto non è stato difficile per la "intellighenzia" nostrana e per la cultura di ispirazione marxiana rifiutare in blocco l'ecologia, nella convinzione di salvare il popolo da chissà quale "imbroglio ecologico". Ricostituendo, così, un prezioso alibi per chi volesse continuare nella rapina a piene mani delle risorse della natura. La quale però si è vendicata presto, schiacciando le ideologie con i fatti: di fronte ai quali molti hanno già dimostrato d'intendere chiaramente che l'unico vero "imbroglio ecologico" è stato proprio quello d'aver fato credere che l'ecologia fosse un imbroglio. Nella più recente fase "cosmetica" la moda della riscoperta ecologica si presenta effimera e incoerente. Domina qui la più pura schizofrenia, perché tutti - industriali, costruttori, finanzieri, cacciatori e via dicendo - proclamano a gran voce assoluto e sacro "amore per la natura", pur persistendo tenacemente in ogni disastrosa attività contro di essa. Al massimo, se proprio un responsabile dei mille guasti  ormai evidenti si dovesse individuare, sarà qualcun "altro": lo stesso  popolo non è mai "inquinatore", ma sempre "inquinato"; e se l'abusivismo individuale pare scorretto, quello collettivo diventa un rispettabile fenomeno sociale, meritevole di indulgenza plenaria.»

Dunque, per Franco Tassi, le cause generali dello scarso amore del popolo italiano per la natura, per il paesaggio, per le piante e gli animali selvatici, sono le seguenti:

1) la concezione antropocentrica propria della cultura giudaico-cristiana, con il suo portato di dominio e sfruttamento ai danni di tutte le altre creature;
2) l'eredità storica delle lunghe dominazioni straniere e dell'abitudine a cercare di eluderne i divieti in materia di caccia, pesca e sfruttamento del legname;
3) lo svilimento della natura proprio della filosofia idealista (particolarmente crociana), vista come proiezione soggettiva del pensiero umano;
4) la mancanza di valori comunitari e, più in generale, di un senso civico riguardo alla nozione del bene comune, a fronte di un individualismo anarcoide;
5) l'eredità psicologica della cultura contadina, che ha sempre visto nella natura una matrigna che relega l'uomo in una condizione di miseria, e dalla quale occorre emanciparsi con qualunque mezzo a disposizione;
6) la diffidenza della cultura marxista per l'ecologia, vista come un inganno dei padroni a danno delle classi popolari;
7) l'ipocrisia di una cultura ecologica di maniera, per cui perfino i palazzinari e i cacciatori si proclamano valido baluardo a difesa della natura minacciata;
8) la sfrenata demagogia politica, che attribuisce ogni guasto e ogni responsabilità sempre ad un fantomatico «altro», e mai ai presenti.

Si tratta di un elenco largamente condivisibile, pur con qualche ritocco e precisazione.
Ad esempio, il punto 1 sembra non tenere conto del fatto che la cultura giudaico-cristiana non è appannaggio dei popoli mediterranei, ma che, anzi, per certi aspetti, è più viva nei paesi protestanti del centro e nord Europa, dove, tuttavia, i valori ambientali sono molto più profondamente sentiti e rispettati; cosa che dovrebbe indurre, evidentemente, ad ulteriori riflessioni.
Al punto 2 bisogna aggiungere, secondo noi, che la tendenza a vedere nel governo una forma egoistica di tutela dell'ambiente a danno del popolo e delle sue legittime esigenze, non riguarda solo l'ambito delle dominazioni straniere.
Per fare un esempio, i boschi del Montello e del Cansiglio erano gelosamente custoditi dal governo della Serenissima Repubblica di Venezia, per il legname destinato a fornire, rispettivamente, i remi e il fasciame della flotta; e, non appena il dominio veneziano decadde, gli abitanti del posto penetrarono in quei boschi, sfruttandoli senza misura, tanto da portare alla scomparsa di quello del Montello (poi ricostituito, ma in un contesto completamente mutato).
Al punto 6, poi, si potrebbe aggiungere che il «peccatum originalis» della cultura marxista nei confronti dell'ecologia non è stato solo quello di vedere in essa un cavallo di Troia degli interessi padronali per ingannare e sfruttare il popolo (tanto che, nel 1968, ci fu una rivolta popolare e di sinistra contro il progetto di istituire un parco in Sardegna per salvare gli ultimi esemplari, gravemente minacciati, del cervo isolano; ma nessuno ne parla più: forse perché è più «politicamente corretto» rivangare sempre e solo la rivolta del «Boia chi molla» di Reggio Calabria del 1969, in quanto fenomeno di destra).
Alludiamo al fatto che, per il marxismo, non meno che per l'idealismo (dal quale direttamente deriva: il debito di Marx verso Hegel è vistoso ed esplicito, così come lo è quello di Gramsci verso Croce), la natura non è un bene in se stessa, non è un valore in se stessa; è solo il teatro in cui l'intraprendenza umana dispiega tutte le sue potenzialità.
Detto più sinteticamente e, se s vuole, più brutalmente: per Marx, pervaso di spirito positivista e scientista, la terra è il nemico da abbattere e incatenare, il magazzino cui attingere illimitatamente, la discarica ove gettare indiscriminatamente ogni sorta di rifiuti; l'unica cultura veramente nobile è quella della macchina: sarà l'industria a salvare l'uomo dalla miseria e ad affrancarlo dallo sfruttamento, ovviamente dopo che sarà passata di mano dai capitalisti cattivi ai proletari buoni e innocenti.
Sotto questo punto di vista, il pensiero di Marx è brutalmente e rozzamente antiecologico quanto può esserlo quello di un neoconservatorismo capitalista miope e ignorante alla Bush o alla Thatcher; nessuno si faccia illusioni: il marxismo è, nella sua essenza, profondamente, visceralmente antinaturalistico (cfr., in proposito, il nostro precedente articolo: «Come si uccide un mare interno in nome dello sviluppismo», dedicato alla tragedia ecologica del lago di Aral, e consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Del resto, possibile che gli ultimi, smarriti orfanelli dell'ideologia marxista, non abbiano avuto agio di riflettere che dal governo cinese, l'ultimo grande governo ufficialmente ispirato a quella ideologia, sta venendo la più massiccia e devastante offensiva contro la natura ed i suoi equilibri, che l'uomo abbia mai lanciato, dai tempi della prima Rivoluzione industriale nell'Inghilterra di oltre due secoli fa?
Ad ogni modo, si tratta di precisazioni che non tolgono validità alle tesi di Franco Tassi, le quali, anzi, mostrano, nel complesso, un notevole livello di lucidità ed esattezza, nell'individuare le cause culturali e psicologiche, lontane e vicine, del disamore nostrano verso la natura.
Vorremmo, piuttosto, dedicare una più circostanziata riflessione al punto 5, anche perché essa può offrirci l'occasione di sfatare alcuni ingannevoli luoghi comuni circa la società contadina e la sua cultura, viste oggi - ipocritamente - più o meno nell'ottica in cui gli intellettuali illuministi, figli di una cultura razionalista che stava distruggendo ovunque le culture di tipo etnologico, si fabbricava su misura, quasi a scopo autoassolutorio, il mito del «buon selvaggio».
Dunque: la distruzione della cultura contadina, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso- avvenuta, oltretutto, nel silenzio omertoso o distratto di tanti intellettuali ideologicamente impegnati e, ovviamente, «progressisti» (quando mai un intellettuale si è proclamato «regressivo»?: altro portato dell'eredità illuminista), è stata un crimine.
Ciò detto, e detto senza fronzoli e senza giri di parole, bisogna pure aggiungere che quella cultura non era, tuttavia (a dispetto di un pasoliniano alone di nostalgia che l'ha trasfigurata «a posteriori» in una realtà puramente immaginaria), né così ecologista, né così solidarista, come generalmente si crede; o, almeno, come credono i suoi acritici celebratori: forse gli stessi che, quaranta o cinquant'anni fa, l'hanno lasciata morire, senza muovere un dito per cercare di salvarla.
Come osserva giustamente Tassi, né il contadino, né il pastore, né il boscaiolo sono quegli intrepidi difensori della natura che a certi intellettualini di città, i quali non hanno mai visto una mucca se non in cartolina, né hanno mai imbracciato il forcone una volta in vita loro, per spalare il letame da una stalla, credono e vorrebbero far credere.
La vita del contadino italiano era dura, durissima; per un groviglio di ragioni storiche, egli stentava a mantenersi sulla terra che lavorava: vuoi perché era troppo piccola, vuoi perché non possedeva strumenti adeguati, vuoi per il carico fiscale eccessivo da parte dello Stato (e questo specialmente dopo l'Unità d'Italia, con buona pace degli sprovveduti esaltatori del Risorgimento, che vorrebbero addossare ogni male all'Austria: dimenticando che il Lombardo-Veneto era la parte di gran lunga più progredita, più istruita, la meglio amministrata e la più «europea» delle varie regioni del nostro Paese).
Non è certo un caso che gli apocalittici flussi migratori, che presero avvio nell'Italia di fine Ottocento, raggiungendo ai primi del Novecento la cifra mostruosa di mezzo milione di partenze l'anno, si misero in moto subito dopo il compimenti dell'Unità, e non prima; e che furono accompagnati dal totale disinteresse, se non dall'aperto compiacimento, della nostra classe dirigente, la quale non seppe vedere in essi altro che un salutare allentamento della eccessiva pressione demografica, ed una opportunità di acquisire valuta pregiata, sotto forma delle rimesse  dall'estero degli emigrati.
Dunque, dicevamo che la vita del contadino italiano era durissima: mangiava polenta, polenta e ancora polenta, fino ad ammalarsi di pellagra; mentre al Centro e al Sud era falcidiato anche dalla malaria, contratta negli estesi terreni paludosi.
Per lui, la natura non era amica; non la vedeva come tale, non la trattava come tale. Il suo atteggiamento verso gli animali selvatici, cacciati a morte fino all'estinzione di intere specie, e verso la vegetazione spontanea, abbattuta senza criterio per far posto alle colture ed ai pascoli, la dice lunga in proposito.
Nemmeno verso gli animali domestici e verso le piante domestiche si può dire che, in generale, egli provasse amore: li considerava esclusivamente come strumenti di sopravvivenza; li sfruttava senza pietà e non aveva per essi che le cure strettamente necessarie, nell'ottica del suo interesse. Se il vitello si ammalava, era un danno economico; se la siccità uccideva il grano, era un danno economico: e questo era tutto.
Gli animali domestici, in particolare, non erano - salvo rare eccezioni -, virgilianamente, i compagni della sua fatica, i suoi amici più fidati: non si commuoveva per le loro sofferenza, non esitava a sfruttarlo oltre ogni limite (e non è necessario aver letto qualche novella del Verga per farsi persuasi di ciò: basta aver conosciuto qualche famiglia contadina di due generazioni or sono, o, meglio ancora, avervi vissuto).
Non provava pietà per il cane da caccia legato alla catena sei giorni su sette, che soffriva e si dimenava in uno spazio minuscolo; non ne provava per i maiali, immersi in una sporcizia inimmaginabile, e dai quali non attendeva che il momento di farne salsicce; e meno ancora per il pollame da cortile o per i conigli, cui tirava il collo o spezzava il capo, senza un'ombra di commozione, anzi, con evidente compiacimento.
Dicendo queste cose, non intendiamo istituire un assurdo processo alla mancata sensibilità morale o ecologica del contadino; la sua vita era durissima, già lo abbiamo detto: ma, per piacere, smettiamola di dipingerlo come il nobile pellirossa che rispettava tutte le creature di Manitù e vedeva nella terra la nostra madre amorevole.
Il fatto che alla cultura contadina sia succeduta una cultura infinitamente più brutale e volgare, la cultura della modernità, protesa unicamente alla potenza e al denaro, non significa che dobbiamo idealizzare oltre ogni limite di buon senso l'immagine della prima, magari spinti dalla cattiva coscienza per aver lasciato che tutto ciò accadesse senza muovere un dito.
Del resto, se vogliamo essere onesti fino in fondo, dobbiamo andare ancora un passo più in là, ed ammettere che la cultura contadina non è stata propriamente assassinata; ma che essa si è, alla lettera, suicidata.
È stato il contadino stesso che, sedotto dalla possibilità di ottenere un raccolto molto più abbondante e, quindi, dal miraggio di un più elevato tenore di vita, ha incominciato ad irrorare la terra di velenosissimi prodotti chimici, fertilizzanti ed antiparassitari, tralasciando i concimi naturali; e ad ingozzare gli animali da allevamento di sostanze altrettanto dannose, al solo fine di farli ingrassare più in fretta e di far loro produrre più carne, più latte, più uova.
La civiltà contadina ha incominciato a morire in quel preciso momento: non quando, come cantava Adriano Celentano ne «Il ragazzo della Via Gluck», i palazzinari cattivi hanno incominciato a costruire case su case, ingombrando la campagna di catrame e cemento. Certo, il mondo contadino è stato aggredito anche dall'esterno; ma, prima ancora, è caduto vittima di un collasso interno. Ha rinunciato ai suoi valori, ha smarrito il suo ruolo e la sua identità.
E la prova di questo fatto, sgradevole fin che si vuole, ma purtroppo vero, sta nel fenomeno, vistosissimo, della fuga dalle campagne, e, più ancora, nella fuga dalla montagna, iniziatosi appunto negli anni del «boom» economico: fenomeno di proporzioni bibliche, che anticipava quello odierno della fuga dalla Romania e da altri paesi dell'Europa orientale (guarda caso, a prevalente cultura contadina) verso il miraggio scintillante dell'Occidente ricco e progredito.
Quando migliaia, milioni di giovani piantano tutto e partono verso la città, sia pure sotto la spinta di gravi difficoltà economiche, significa che essi non credono più nella civiltà dei loro padri; significa che non credono più che valga la pena di lottare per quel sistema di vita e per quei valori, per i quali hanno lottato e sofferto tante generazioni prima di loro (magari in condizioni sociali ed economiche ancora più ingrate e disperanti).

Tanto andava detto, per amore di verità, se si vuole davvero capirci qualcosa nel fenomeno del generale disamore del nostro popolo nei confronti della natura, percepita come qualcosa di estraneo, o, al massimo, come una fonte di potenziale guadagno.
Un discorso ancora più crudo, ancora più impietoso, bisognerebbe fare - volendo - sulla cultura dei pastori e dei boscaioli: meno ancora dei contadini, essi hanno visto la natura come una madre amorosa o come una amica da proteggere; più ancora di loro, al contrario, l'hanno vista e trattata come una matrigna ostile e spietata, che meritava di essere ripagata con la stessa moneta.
Del resto, non è forse vero che, ancora oggi, all'inizio del terzo millennio, la maggior parte degli incendi che devastano le regioni ove ancora sopravvive una residuo di cultura silvo-pastorale, come la Calabria o la Sardegna, sono proprio quelle dove ogni estate, puntualmente, scoppiano apocalittici incendi che divorano centinaia di ettari di foreste; e che tali incendi, il più delle volte, sono appiccati precisamente da pastori del luogo?
È inutile nascondersi dietro un dito; possiamo raccontarci tutte le storie che vogliamo: ma la realtà è questa.
Gli uccellatori di frodo che, ogni anno, fanno stragi inaudite di volatili d'ogni specie; i cacciatori che perseguitano a morte cervi, caprioli, cinghiali, lupi: non sono forse, in larga misura, contadini e pastori del luogo, e solo in minor misura gente di città, venuta da fuori?
Coloro che disseminano i boschi di tagliole, condannando a una morte lunga e atroce ogni genere di selvaggina (e, non di rado, provocando anche gravi incidenti a danno di altri esseri umani), non sono forse, nella gran maggioranza dei casi, contadini, pastori e boscaioli, che vivono a diretto contatto con la natura, che la conoscono piuttosto bene, ma non la amano affatto, né la rispettano, come il loro modo di agire mostra fin troppo chiaramente?
Coloro che più si oppongono alla limitazione della caccia, alla protezione della flora, alla istituzione di nuovi parchi naturali, non sono forse gli stessi abitanti dei luoghi interessati, preoccupati (a volte anche in maniera legittima, nulla da dire) per il danno economico che potrebbero subire da una legislazione troppo favorevole alle piante e agli animali, e non abbastanza sensibile alle loro necessità ed esigenze, agli effetti negativi per le loro proprietà?
E allora diciamolo francamente, con buona pace della demagogia marxista, secondo la quale il popolo ha sempre ragione ed è sempre la vittima designata: dei crimini che noi tutti continuiamo a perpetrare ai danni dell'ambiente, è responsabile l'insieme della nostra cultura e l'insieme della nostra società, così in alto come in basso, così in città come in campagna.
Dobbiamo fare un grosso e sentito «mea culpa», tutti quanti.
E chi è senza peccato, scagli la prima pietra.