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L'umanità nelle doglie del parto lotta per dare alla luce l'uomo nuovo

di Francesco Lamendola - 24/08/2009


Viviamo in un mondo di uomini e donne vecchi i quali, indipendentemente dalla loro età anagrafica, soffocano il mondo in una fitta rete di vecchie concezioni, vecchi schemi mentali, vecchissimi modi di sentire e di ragionare.
Viviamo in un mondo che, per usare un'espressione neotestamentaria, e precisamente paolina, soffre e geme nelle doglie del parto, nello sforzo di dare alla luce un uomo nuovo e una nuova donna: liberi e indipendenti dalla vecchia servitù, dal vecchio conformismo.
Oh, sappiamo bene che l'utopia dell'Uomo Nuovo è un'utopia che ha provocato disastri a non finire nella storia; tuttavia, ciò non è ancora un argomento per gettarla nell'immondezzaio delle cose inutili o sbagliate: tanto varrebbe gettare via il bambino insieme all'acqua sporca; vuol dire soltanto che si la si è perseguita lungo vie sbagliate.
L'Uomo Nuovo non può essere né il Proletario ateo di Marx e Stalin, né la Bestia bionda di Rosenberg e Hitler; e nemmeno L'Uomo dei Lumi, l'Uomo della Ragione strumentale e calcolante di illuministica memoria, che di entrambi è stato il tristo precursore (a colpi di ghigliottina e, quando la ghigliottina era troppo lenta, affogando i perfidi «reazionari» nelle acque della Loira: a cdecine, a centinaia alla volta).
No, non è quello l'uomo nuovo che stiamo aspettando; anche perché non lo scriviamo con le lettere maiuscole e non ci aspettiamo che rigeneri il mondo in quattro e quattr'otto, magari spedendo nei campi di concentramento quelli che non fossero persuasi dal suo Paradiso in terra.
L'uomo nuovo è già qui, adesso; solo che ne sono apparsi solo pochi esemplari, e la massa non si è neppure accorta di loro: proprio perché non urlano dai tetti la loro Verità, e non vogliono persuadere alcuno, tanto meno con la forza.
Tuttavia, la massa non se ne è ancora accorta soprattutto per un'altra ragione: perché essa è formata da uomini e donne terribilmente vecchi, anche se non lo sanno, anche se essi credono di rappresentare il meglio del nuovo, della modernità.
Se poi ci domandiamo in che cosa, esattamente, consista la ragione fondamentale della loro decrepitezza, non tarderemo a renderci conto che essa è la più inattesa di tutte, dato il contesto di sicumera e di arroganza nel quale, generalmente, la massa si muove, quando crede di marciare al passo con i tempi: vogliamo dire, la paura.
La paura del nuovo: ma quello vero; non quello prefabbricato ad uso e consumo degli sciocchi, che si credono moderni e coraggiosi, solo perché ripetono gli ultimi slogan costruiti in ordine di tempo (ma, in realtà, vecchi in modo addirittura indecente).
Viviamo in un mondo di politici vecchi, che hanno paura del nuovo e che pensano, parlano e agiscono vecchio; di intellettuali vecchi, di economisti vecchi, di scienziati vecchi, di artisti vecchi, di filosofi vecchi; e, cosa più grave di tutte, di bambini vecchi, che non sanno più giocare, né sognare.
Brutta faccenda, quando i bambini non sono più bambini, pieni di stupore e di infinita meraviglia nello sguardo, ma degli stanchi vecchietti che credono di aver già visto tutto e di sapere ogni cosa, fino alla noia.
Ha scritto il teologo Juan Arias nel suo libro «L'ultima dimensione» (Assisi, Cittadella Editrice, 1973, p. 191):

«Gli uomini nella grande maggioranza vivono per comperare e accrescere ciò che già possiedono. E vivono succubi della paura di perdere ciò che hanno conquistato.
Sono i figli della paura. Sono uomini vecchi. Per giustificarsi chiamano pericoloso tutto ciò che è nuovo e chiamano sicuro tutto ciò che appartiene al passato.»

Ecco, questa è la grande menzogna della modernità, che va combattuta senza quartiere: che per essere giovani bisogna essere moderni; che per essere nuovi bisogna disprezzare il passato, indipendentemente dal suo valore effettivo.
Tutta la modernità si basa su un grande inganno e su un grande equivoco: e «moderno» è una parola vuota, una parola priva di senso, che da quattro secoli viene agitata come un vessillo di tutto ciò che è bello e buono, in modo da squalificare tutto ciò che vi si oppone. Ma il concetto di moderno è un concetto relativo; oggi si è moderni, fra mille anni si sarà divenuti antichi; e anche gli antichi furono moderni, al loro tempo.
Invece, i campioni della modernità vorrebbero farci credere che si tratti di un concetto fondante, di un valore assoluto, metastorico. Sta di fatto che né i Greci, né i Romani, né gli uomini della civiltà medievale, ebbero un tale concetto; e meno ancora un simile orgoglio. Eppure hanno prodotto vette spirituali che non sono più state eguagliate: come scriveva Vittorio G. Rossi nel suo libro-testamento, «Maestrale», gli ometti dei nostri giorni paiono sputati fuori da una gallina, sono delle ben misere creature, a paragone degli uomini d'un tempo (vedi il nostro recente articolo «Una pagina al giorno: Perché Cristo muore in croce?, di Vittorio G. Rossi», sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).
L'uomo nuovo non è colui che sa misurare la distanza delle stelle e l'origine del big-bang, ma colui che sa rientrare nel segreto più riposto della propria anima, nel santuario silenzioso che sta al centro dell'Essere. Perché noi siamo al centro dell'Essere, ma non lo sappiamo; o forse lo abbiamo soltanto dimenticato.
Per troppo tempo abbiamo creduto che «progresso» sia sinonimo di una conoscenza quantitativa delle cose e di una capacità di manipolazione pressoché illimitata di esse; è tempo che torniamo in noi stessi, nella nostra autentica dimora.
Per troppo tempo abbiamo vissuto all'esterno di noi, come se non avessimo una casa; come se il nostro destino fosse quello di aggirarci sempre a tentoni nelle buie cantine e nei recessi soffocanti, mentre invece siamo gli abitanti di un magnifico palazzo, pieno di aria e di luce.
L'uomo nuovo è colui che, poco a poco, si libera dei vecchi modi di pensare, dominati dalla paura e dall'attaccamento alle cose, e si abbandona con fiducia all'Essere, da cui ogni cosa proviene e a cui ogni cosa aspira a fare ritorno.
L'uomo nuovo è colui che ha spezzato le catene della paura, perché ha distrutto in se stesso l'ipertrofia dell'ego, sorgente di ogni brama e di ogni paura e, pertanto, del rapporto distorto e malato con le cose. Chi non brama più nulla, non ha più paura di nulla; e chi non ha più paura, è un rigenerato, un essere di luce.
Ve ne sono già, in giro per il mondo, di simili esseri di luce: uomini e donne che hanno spento la brama del possesso e si sono affrancati dalla schiavitù della paura. Non temono di perdere più nulla, perché sono pronti a fare dono di ogni cosa: questa è la loro forza, la loro ricchezza inesauribile; ed è anche il segreto della loro serenità interiore.
Una serenità che essi hanno conquistato a prezzo di dure lotte, in verità; e che mai possiedono una volta per tutte, ma sempre devono mettere alla prova, attraverso l'antica tentazione della brama di possesso e della paura della perdita.
Eppure, l'uomo nuovo e la donna nuova sono già qui, in mezzo a noi; esistono: e forse, se il nostro occhio non è troppo sviato dal falso vedere del senso comune, ci sarà capitato d'incontrarli, qualche volta, sul cammino della nostra vita.
L'uomo nuovo, a dire il vero, è sempre esistito: il concetto di uomo nuovo non ha assolutamente niente a che fare con quello di «moderno».
Ma, se è sempre esisto, perché parlare di uomo nuovo e di uomo vecchio? Perché l'uomo vecchio è schiavo del proprio egoismo e perduto dietro a false immagini di bene; mentre l'uomo nuovo si è tolto la benda dagli occhi e vede, finalmente, con chiarezza.
Che cosa vede? Vede ciò che tutti gli uomini e tutte le donne del mondo dovrebbero vedere: vede le cose avvolte in un fiume di luce, e non deformate sotto uno strato di fango.
L'uomo vecchio è la creatura del fango, che vorrebbe ridurre ogni altro ente alla propria misura: volgare, grossolano, superficiale. Incapace di pensieri generosi e disinteressati, immagina che la generosità e il disinteresse non esistano affatto; che siano soltanto la maschera per il perseguimento di qualche secondo fine.
L'uomo nuovo è la creatura della luce, che si è tirata fuori dal fango, almeno in parte, e che anela a respirare l'aria pura, a pieni polmoni, e a riempirsi lo sguardo della luce del Sole. Egli sa che la generosità ed il disinteresse esistono, così come esistono verità, bontà e bellezza; anche se è consapevole che non riuscirà mai a percepirle in tutto il loro splendore, perché ne rimarrebbe accecato.
Ma sa che esistono: e questa certezza conferisce un senso alla sua vita, che è fatta di una continua, indefessa ricerca.
Ecco: l'uomo nuovo è colui che sa dare un senso nuovo, giorno per giorno, alla propria vita; è colui che non vive a caso, nella dimensione dell'effimero e del transitorio, ma in quella della serietà esistenziale.
E non è vero che non sappia sorridere; questa è una calunnia inventata, in malafede, dai suoi nemici Perché la serietà esistenziale non ha nulla a che vedere con la tetraggine, con il pessimismo. L'uomo nuovo non può essere pessimista, perché aspira alla luce e sa che la luce esiste; dunque, è una creatura capace di lievità, di sorriso.
Se può apparire malinconico, si tratta della malinconia di chi sente che non potrà mai raggiungere la sua vera dimora in questa dimensione dell'esistenza; e tuttavia la agogna, così come la cerva assetata anela ai rivi delle acque, quando la steppa è inaridita dal calore dell'estate.
Ecco, questa è la sola brama da cui l'uomo nuovo non si è liberato, né intende farlo: la brama dell'assoluto, dell'eterno: la brama dell'Essere.
Non è una brama di possesso, ma di perdita: perché egli sa che l'unica strada per spegnere quella sete, almeno in parte, è quella che passa per la rinuncia alle false ambizioni e alle immagini illusorie di egoistica felicità.
In altre parole, è quella che consiste nel lasciarsi andare, nel non resistere, nell'offrirsi interamente e senza riserve.
Ci vuole molta forza, per arrivare a capire che solo questa apparente debolezza ci rende capaci di sopportare le prove più difficili, di cui la vita non è avara; e, quel che più conta, di uscirne a testa alta, non più poveri, ma più ricchi di speranza; non più amareggiati e stanchi, ma più vigorosi e capaci di amare.
È una forza non del tutto umana; anzi, in gran parte soprannaturale. La si può chiamare in vari modi; i cristiani la chiamano grazia.
Colui che si fa abbastanza piccolo da poterla ricevere, diventa così grande - a paragone di ciò che era il proprio uomo vecchio - da apparire interamente rinnovato e rigenerato: per questo gli si addice l'appellativo di uomo nuovo.
Noi abbiamo bisogno di questi uomini nuovi e di queste donne nuove, perché sono come il faro che brilla nella notte di tempesta, quando le stelle sono oscurate dalle nubi, e le navi rischiano di smarrire la rotta, andando a naufragare sugli scogli.
Grazie al loro esempio, noi siamo stimolati a cambiare l'orientamento spirituale della nostra vita, a liberarci dalla brama del possesso e dall'attaccamento alle cose e, così, a liberarci anche dalla paura.
Grazie al loro esempio, ci rendiamo conto che anche noi possiamo provarci, che anche noi possiamo farcela.
E poi, ci aiuterà quella forza benevola che emana dall'Essere: ci prenderà in braccio, ci condurrà con sé; e saremo salvi.