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Contemplare dall'alto del presente errori e fedeltà che hanno forgiato il nostro essere

di Francesco Lamendola - 25/08/2009

 

Dall'alto del presente, con il vento del futuro che gli carezza il viso, Mariano contempla lo spettacolo commovente del proprio passato, degli errori e delle fedeltà che hanno forgiato il suo essere, facendo di lui ciò che egli è diventato.
È come se vedesse il mondo per la prima volta; come se, all'improvviso, una benda gli fosse scivolata giù dagli occhi, e gli si fosse rivelato lo spettacolo straordinario della sua vita, non come una cosa morta e passata, ma come ciò che ha scolpito nella viva materia del suo essere i tratti che lo hanno consegnato al presente, svelandogli quella sconcertante connessione dei tempi e fra sé e tutte le cose e le persone che hanno fatto di lui ciò che infine è divenuto al presente, e in cui può lealmente riconoscersi.
Non a tutti è dato un simile privilegio; non tutti possono guardare, così dall'alto, l'intera sinfonia che da tanti suoni discordi, da tante corde spezzate, ha saputo ricomporre l'armonia originaria e ritrovare in essa, non già un caotico miscuglio prodotto dal caso, ma un disegno lentamente maturato, pur attraverso cadute e riprese, e risultante dalla fusione e dalla compenetrazione di una rete caleidoscopica di arabeschi sapientemente equilibrati.
Solo, in cima al colle dalla forma tondeggiante, simile a uno scudo gettato sul bordo della verde pianura, in faccia al grande fiume che scende dalla chiostra solenne dei monti vicini, nel chiaro mattino d'estate che sembra annunciare l'avvento di un cielo nuovo e di una terra nuova, Mariano si lascia carezzare dal vento e guarda avanti a sé, con occhio fermo e con fronte serena, la distesa luminosa dei campi e dei vigneti e la corsa dei cirri che solcano l'immensità del cielo, come vascelli in corsa sulla superficie di un mare sconfinato.
Rivede i capitoli della propria vita, i giorni, le ore, con una chiarezza e con una lucidità che gli sarebbero parsi impossibili: ogni particolare riemerge d'un balzo a tutto tondo, come richiamato dal suono di una formula magica, come tante conchiglie lasciate a riva dalla marea, a stagliarsi lucenti sopra la sabbia umida e scintillante nel sole.
Anche le cose più piccole e più lontane, tutto ritorna, ritorna con forza e nettezza irresistibili; e non porta con sé né rimorsi, né rimpianti, ma solo una infinita tenerezza e una vaga nostalgia; e, al di sopra di queste, una equanimità di giudizio, anzi, una assoluta sospensione del giudizio, come se tutto fosse stato così come doveva essere, necessariamente e infallibilmente; come se negli eventi e nei moti dell'anima di ieri, vi fosse una giustizia intrinseca, una aderenza limpida e assoluta all'essenza stessa della vita, al gran disegno del tutto.
Per la prima volta egli è in grado di rivedere i dolori senza più sofferenza, le angosce senza più spavento, le delusioni senza più amarezza; e, al tempo stesso, di ritrovare tutte le cose belle e liete e buone, che parevano scivolate via nel vortice del tempo e che, invece, si erano solo trattenute sul limitare dell'ombra, vive e palpitanti come se fossero accadute solo pochi istanti prima, mentre invece, magari, appartengono ad un tempo ormai molto, molto lontano.
Ma che cos'è il tempo, che cosa sono il passato, il presente e il futuro?, si domanda ora Mariano, cui sembra così esteriore e artificiale la scansione fra questi tempi diversi, mentre è così chiaro, così evidente, che un solo tempo esiste: il tempo dell'assoluto, il tempo fuori del tempo, ove tutto si tiene con tutto a formare un unico, vasto mosaico senza soluzione di continuità, e da cui scaturisce la nostra unità dinamica, il nostro continuo evolvere, anche quando ci crediamo fermi.
No, non vi sono tre tempi diversi; vi è un unico tempo, così come vi è un unico luogo, che abbraccia il qui più vicino e il laggiù più elusivo, perdendosi nelle regioni celesti al di là della Galassia, al di là della stella più lontana.
Mai, prima d'ora, Mariano lo ha visto, anzi, lo ha sentito, in tutte le fibre del suo essere, con una chiarezza maggiore di adesso, con una intensità persino quasi dolorosa: il tempo e lo spazio non sono che illusione, e tutto il reale non è che un unico punto, un unico istante, un unico lampo di luce e di consapevolezza.

*  *  *
Come è stato possibile, si chiede egli ora, vivere così a lungo nell'ignoranza, nell'errore, nella infedeltà a quest'unico disegno arabescato, a quest'unica armoniosa sinfonia, a questo solo raggio di folgorante splendore?
Come è stato possibile smarrire la strada così di frequente, se il sentiero è tracciato con tanta perfetta chiarezza? Come é stato possibile inciampare e cadere così spesso, se non c'è particolare della via, che non risalti con abbagliante evidenza, in questo eterno presente?
Perché tanta fatica, perché tanta tribolazione? Perché tanti dubbi, tante incertezze, e così acute delusioni e sconfitte? Eppure è così evidente che non ci sono delusioni, non ci sono sconfitte, per chi sappia vedere con occhio spassionato e sgombro di paura e desiderio: ma che tutto, proprio tutto, è materiale da costruzione per realizzare quell'edificio unico, prezioso, insostituibile, che è la nostra stessa vita.
Volti, sorrisi, emozioni; dure giornate di fatica, di solitudine, di smarrimento; parole sussurrate nella notte,  preghiere, risate cristalline; sogni d'infanzia, fiabe e sconfinate fantasie; squarci di felicità, di tenerezza, di senso ritrovato; partenze dolorose, imprecazioni, propositi di rivincita; sentieri interrotti, sentieri malfidi e traditori, sassi sdrucciolevoli; albe radiose e tramonti infuocati: tutto, tutto ritorna, ogni cosa riprende il proprio posto esatto, come le tessere di un mosaico infinitamente  complesso e variegato, eppure infinitamente semplice e lineare.
Sì: era necessario che tutto fosse così come è stato; tutto, anche le delusioni e i dolori: anzi, soprattutto quelli, più d'ogni altra cosa. Era necessario partire per poi ritrovarsi; sentire quel vuoto spaventoso, per gustare tutta questa divina pienezza; giungere sino in fondo alla buia caverna, per poi esultare nel tripudio di luce dorata.
Ed ora, dagli occhi di Mariano cade anche l'ultima benda: e vede, con una lucidità come non credeva nemmeno possibile, che ogni cosa, nella vita, è solamente giusta; che nulla ci accade, che noi non abbiamo cercata; che nessun incontro, nessun distacco si verificano, se noi non eravamo pronti per viverli e per trasformarli in sostanza palpitante del nostro divenire.
Non ci sono la fortuna o la sfortuna; non esiste il caso: tutto è secondo giustizia, tutto è come deve essere.
Il vento gli scompiglia i capelli mentre guarda lontano, e sorride leggermente, inseguendo con gli occhi uno spettacolo che non è quello del fiume, dei vigneti e delle montagne che si distendono a chiudere l'orizzonte con i loro profili dentellati e fantastici.
Sorride, perché finalmente ha compreso: ha compreso che non spetta a noi decidere quali siano gli eventi della nostra vita, ma solo accoglierli o respingerli, dire di sì o dire di no a questa immensa forza cosmica che tutto muove incessantemente e che tutto trasforma, dalla zolla di terra alle nebulose più lontane della Via Lattea.
Dire di sì o dire di no: dire: lo voglio, oppure: non lo voglio; questo sì, che ci appartiene e fa parte della sfera delle nostre possibilità. Ma non possiamo creare quel che non c'è, e nemmeno sottrarre quello che non dipende da noi; non possiamo produrre qualcosa che già non si inscriva nel movimento complessivo, di cui noi siamo parte, insieme a tutto il resto.
A noi spetta il modo in cui porci di fronte al flusso della vita, certo non ci è dato di mutarne il corso o di invertire la direzione della corrente.
Non siamo noi gli architetti; siamo soltanto degli umili operai, più o meno coscienziosi, più o meno capaci di amore e, se necessario, di sacrificio.
Qualche volta, inebriati dalle correnti favorevoli, ci montiamo un po' la testa e crediamo addirittura di essere noi a imprimere il movimento della vita, a decidere il gioco mutevole delle correnti che s'incrociano sotto la chiglia.
Ma non è che illusione, accecamento temporaneo.
Noi possiamo assecondare quel movimento, oppure contrastarlo; tuttavia, anche se decidiamo di contrastarlo, non facciamo che servirne le ultime ragioni, i reconditi disegni. E rinviare il momento della nostra stessa consapevolezza.

*  *  *
Questa è la cosa più straordinaria; ed è questa la scoperta che induce Mariano a sorridere lievemente, mentre tiene lo sguardo fisso in avanti.
Anche quando noi diciamo di no, serviamo la vita: la serviamo nostro malgrado, in un modo che non sospettiamo e che ci lascia l'illusione di aver preso le distanze, di aver affermato la nostra piena indipendenza; ma noi non siano indipendenti dal flusso cosmico del divenire, noi siamo solo delle alghe che ondeggiano sul fonde del fiume, mosse dalla corrente.
Non è che siamo dei burattini in balia di una forza superiore; siamo relativamente liberi di scegliere; ma, se per caso facciamo le scelte sbagliate, il disegno complessivo è cosiffatto, che, pur senza volerlo, noi serviamo ancora le leggi della vita, e accumuliamo errori su errori, solo per poter meglio vedere, un domani, la strada che avremmo dovuto seguire.
Niente a che vedere con l'hegeliana astuzia della Ragione: non è la storia che si serve dei nostri sbagli per progredire, ma noi che ci serviamo di tutto, nel bene come nel male, per costruire, quando che sia, il nostro presente, dall'alto del quale poter finalmente guardare, comprendere e perdonare.
Perdonare noi stessi, in primo luogo: perdonarci per poterci amare, per avere un po' di amore verso di noi, che ci crediamo tanto ricchi e siamo, invece, così poveri.
Siamo così poveri perché non ci vogliamo bene: non sappiano volerci bene nella maniera giusta, ma solo nelle maniere sbagliate. Finché, un bel giorno, cominciamo a capire.
Forse ci vorrà un anno, forse una vita; forse ce ne vorranno molte. Chi lo sa, chi potrebbe mai dire quanto tempo sarà necessario?
La realtà non ha fretta: uscita dal grembo dell'Essere, che l'ha tratta dal nulla, all'Essere aspira a ritornare: né gli anni, né i milioni e i miliardi di anni, hanno alcun significato per essa. Non è un problema di tempo, ma solo ed esclusivamente di consapevolezza.
Vi sono delle nobili e fortunate creature che intuiscono in un attimo questa suprema verità; altre, che devono lottare e faticare per tutta la vita, e ancora non sono riuscite ad avvicinarsi alla meta.
Non importa, pensa con indulgenza Mariano, rasserenato a questa riflessione: prima o dopo, tutti finiscono per arrivarci. Tutti e tutto.
Siano tutti viandanti in cammino, con il nostro bordone e le nostre scarpe impolverate, con i piedi piagati: i sani e i malati, i ricchi e i poveri, i felici e gli infelici.
Siamo tutti viandanti sulla strada dell'Essere.
Ritroveremo tutto, quando ormai saremo portati quasi a disperare; ma, prima, dovremo imparare a perdere ogni cosa, anche quella più amata.
Quando non avremo più paura di perdere nulla, nemmeno la cosa a noi più cara: la nostra stessa vita; allora, finalmente, capiremo, vedremo e sapremo.
Ne avremo fatta, di strada: ma alla fine arriveremo. Possiamo arrivarci un poco più presto, oppure più tardi: questo sì, dipende da noi.
Ma, alla fine, siamo tutti come dei pesciolini che si affannano in una pozza d'acqua fangosa, smaniosi di raggiungere il mare.
Quelli di essi che riescono ad arrivarci per primi, si sentono orgogliosi e felici; ma la verità è che, rispetto al mare, erano tutti più o meno nelle stesse condizioni: penosamente piccoli e deboli, pensosamente lontani e inadeguati.
Poi, alla fine, arriveranno anche gli altri; arriveremo tutti.
Sarà bello. Saremo come una sola famiglia, finalmente.