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Padre Vincenzo Bandello

di Emilio Michele Fairendelli - 25/08/2009

Ho recentemente pubblicato su questo sito alcune riflessioni sull’Ultima Cena di Leonardo.
Non molti giorni dopo avere ultimato lo scritto, complice un doppio martini serale, una piccola diastole del cuore o chissà quale altra onda della coscienza, ho avuto un sogno.
Al tavolo di un giardino luminoso, sotto un glicine, un uomo in tonaca bianca mi parlava.
Dopo poche frasi compresi che si trattava di Padre Vincenzo Bandello, che fu Priore di Santa Maria delle Grazie durante la realizzazione dell’affresco.
Parlava di lui, di Leonardo:

“ La prima volta era arrivato accompagnato da due uomini del Duca.
Aveva percorso lentamente tutto il Refettorio, guardando a lungo la vuota parete intonacata a calce.
Era come se, con il solo sguardo, cercasse di consacrare lo spazio, di renderlo pronto a ricevere, di accordarne le invisibili colonne d’aria ai quattro angoli.
All’opposto dei miei confratelli, io lo amai subito.
Per tutta la mia vita avevo sentito che la mia anima non poteva venire colmata da nulla di ciò che conoscevo: l’Ordine Domenicano, l’amicizia del Duca, l’amore per Cristo, il mio tempo.
Lui, Leonardo, pareva esistere anche altrove, in un mondo diverso dal nostro, un mondo i cui segni imparai a conoscere col tempo, un mondo dove la verità appariva semplicemente più nuda e più luminosa, aldisopra di una realtà da cui era ben distinta.
In quel mondo io volevo entrare.
Ci vollero mesi prima che facesse montare le impalcature e portasse del suo materiale, disegni a carbone già preparati su fogli enormi, volti e figure.
Leonardo mi invitava a volte nei suoi orti, poco distante dalla Basilica, dove il Duca gli aveva donato un’ampia vigna.
Spesso lo accompagnavo in città.
Alla conca di Viarenna conversammo a lungo con un venditore di cianfrusaglie, il cui sguardo trovai poi nel dipinto, in uno degli Apostoli.
Un giorno vedemmo una giovane donna, fuori dal Duomo, volgersi teneramente, quasi socchiudendo gli occhi, verso la madre che la interrogava su qualcosa: fu il volto di Giovanni.
Poi il dipinto incominciò a prendere forma e le ore libere con i confratelli divennero ore di feroci discussioni.
Serafino, Bartolomeo, Sebastiano, i più agitati. Il viso di San Giovanni! Pietro, Padre, Pietro è così vicino a Giuda, i due visi quasi non si distinguono! E’ Pietro il Capo di Santa Romana Chiesa ed è più lontano da Gesù! E la sua figura! Gli altri Cenacoli! E quella mano di Pietro, nella gola di Giovanni! Padre!
Io quietavo gli animi, ma le loro domande erano anche le mie.
Quando avrebbe risposto?
A volte passava al Convento, guardava il dipinto per pochi minuti e se ne andava subito.
Altre volte lavorava per tutto il giorno e anche per parte della notte, rifinendo alla luce delle fiaccole che ardevano sull’impalcato.
Per intere settimane – vagava forse per la città, per le piatte campagne, cercando qualcosa? – scompariva.
Una sera, lo vidi guardare l’affresco da lontano, in una vaga tristezza.
Chiesi cosa provava.
Mi rispose che il dipinto sarebbe durato meno della vita di un uomo.
La tempera, con olio di lino e bianco d’uovo, era stata una scelta sbagliata, presto tutto sarebbe diventato una macchia informe.
Quella macchia, tuttavia – disse calmo – avrebbe parlato e testimoniato, fino all’ultimo istante.
Fargli dire, comprendere il messaggio che aveva affidato al suo lavoro fu ciò che mi proposi.
Il suo modo di rispondere: a volte era come se uno specchio in lui tornasse illuminata e di poco trasformata l’immagine di ogni mia domanda, pronta ad essere risolta ma soltanto in me.
Altre volte mi pareva rispondesse dopo giorni, con un gesto o proseguendo e modificando il dipinto.
Voleva dirmi che la verità può venire comunicata solo a chi in qualche modo segreto già la tenga in sé?
Quando chiesi di Pietro e di Giovanni, di quello che nel dipinto li rendeva così diversi contro ogni tradizione e di ciò che tutto questo significava, Leonardo rispose che lui operava ma che, quanto a riuscire a descrivere il suo operare con esattezza, come io avrei meritato, era tutta un’altra questione.
Ancora si preoccupava di me come uomo di Chiesa.
Tuttavia dopo pochi giorni, al rientro da un breve viaggio, notai che nel dipinto, allo scollo di Gesù e di Giovanni, di loro due soli, era stata aggiunta una gemma a castone come fermaglio: verde smeraldo per Gesù, grigioargento per Giovanni.
Non più grandi di un uovo sulla larga parete, appena dipinte le gemme splendevano come vere e sempre colpite da una luce.
Del modo con cui Pietro teneva, con il braccio ritorto, il coltello, avevo ben compreso il significato da parole di tanti anni prima, pronunciate dal mio tutore in seminario: occorre colpire i nemici della Chiesa con lama implacabile. Colpisca di fronte o in obliquo, nella luce o nel segreto, ciò che conta è che la lama colpisca!
Ma quel gesto di Pietro, che tanto angosciava Frà Serafino, quel gesto della mano alla gola di Giovanni, come spiegarlo?
Pareva una minaccia, ma la mano era rilassata e Leonardo aveva reso quel gesto ancora più lieve, delicato, ripensando il disegno del pollice.
Pietro voleva solo conoscere il nome del traditore, aveva toccato il corpo di Giovanni per chiedergli di rialzare il viso che stava tra le braccia, riverso sulla tavola – come in alcuni schizzi preparatori che avevo visto tra il materiale di Leonardo – e la mano non faceva che seguire naturalmente quel movimento?
Vi era altro?
Anche qui, Leonardo non rispondeva.
Non occorre che l’artefice conosca tutto delle sue forme, della sua opera, – diceva – importa solo che ciò che egli è destinato a portare possa venire pienamente in luce.
Siamo fiumi, torrenti nel tempo, Vincenzo, non sappiamo che poco delle acque che scorrono in noi verso un mare più grande.
Gli credevo, ma non circa l’essenziale: lui sapeva.
Pietro, il Secolo, il Primato. Giovanni, il prediletto, lo Spirito, sempre velato, sempre in esilio. La differenza, la differenza che elevava in grado, in chiarezza, in qualità d’Anima chi la comprendeva, così più avvicinandolo al Cristo di verità.
Intuivo.
Leonardo mi aveva parlato delle dissezioni di cadaveri che aveva operato in Toscana.
Mi aveva descritto gli organi interni del corpo dell’uomo, che si connettono in un rosso disegno come di stelle e pianeti, vivi e palpitanti ancora in chi è morto, aveva evocato il bimbo formato e raccolto che abita una cavità nel ventre della madre.
Egli aveva immaginato che una rete invisibile all’occhio, fatta di tenui fili, di plessi luminosi, si sovrapponesse a quei rozzi organi di animale costituendo un altro corpo d’uomo, più libero, più vero, più vicino al Cielo.
Il centro della fronte, Vincenzo, dove possiamo guardare il vero Dio, e Lui vedere noi. Il centro della gola, dove si riconosce la verità e si vede ciò che non è visibile. Il centro del petto, dove la vita è sostenuta, dove stanno le passioni e la forza. Il centro della radice, alla fine della colonna, dove arde il limite tra l’uomo e il mondo, sacro quanto il più alto.
Così, senza una risposta, ero destinato a comprendere.
Una sera, lasciando il convento, udimmo poco fuori dalle mura del chiostro una donna intonare una canzone accompagnata dalla cetra del suo musico.
Un tiglio bianco si agitava nel vento, il cielo era puro e come d’alabastro, nella sua voce c’era una tale bellezza, una tale pienezza che non riuscii a trattenere le lacrime.
Il canto era un canto cortese ma pareva contenere ogni cosa.
Quando ebbero finito ci avvicinammo, inchinandoci verso la donna per ringraziarla di quanto aveva offerto.
Lei ci guardava, le gote ancora di porpora.
Leonardo alzò la mano, il gesto di Pietro, il gesto del dipinto, indicando dolcemente la gola della donna.
Lo vedi, Vincenzo, dove sta la verità?
Pochi mesi dopo lasciò per sempre Milano.
Non lo rividi mai più nel mondo ma nelle ore più alte di ogni giorno, in me”.

Padre Vincenzo Bandello
Priore Basilica di
Santa Maria delle Grazie, Milano,
1495 – 1497, durante la pittura
dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci