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La banda delle quattroruote

di Carla Ravaioli - 27/08/2009




Che accadrà se il rapporto tra popolazione e autoveicoli si estenderà a tutto il mondo? La terribile domanda di Oscar Marchisio torna d'attualità anche con il nuovo accordo tra la Fiat e Pechino, esaltato quasi da tutti. Così la Cina diventa l'esempio-limite della insostenibilità quantitativa e qualitativa del modello economico imperante
«Tra due anni la prima Fiat Cinese», «Alla Chrysler arriva lo stile Lingotto», «Fiat produrrà la 500 in Messico». Eccetera. Non è che qualche esempio dell'euforia con cui i nostri giornali salutavano in questi giorni la rinascita dell'auto italiana nel mondo. D'altronde affiancati dalla stampa straniera. Nessuno trova di che stupirne, in un panorama di economia in grande affanno, tra mercati che affondano, crollo dei consumi, calo degli investimenti per l'80%, «riprese» via via annunciate e smentite.

Il rapporto popolazione-autoveicoli
Per la verità di che stupirne ce ne sarebbe eccome, anche se rarissimi sono quelli che hanno il coraggio di riconoscerlo, e soprattutto di dirlo. Uno degli esempi più significativi di questa eccezionale consapevolezza è un articolo firmato da quello straordinario personaggio che è stato Oscar Marchisio, e apparso sul manifesto del 15 scorso, due giorni prima della sua improvvisa scomparsa. Proprio dall'automobile (simbolo e mito della società moderna, che al nostro vivere a lungo ha consentito facilità e velocità di movimento, euforia di libertà, perfino illusione di onnipotenza) Oscar Marchisio muove per descrivere la fine inesorabile di un'epoca e di un modello economico.
Cominciando (prima ancora di considerare i problemi più noti e discussi del traffico automobilistico, progressivo esaurimento dei carburanti fossili, inquinamento atmosferico sempre più pericoloso, ecc.) proprio dalla velocità, di fatto ormai messa a rischio, anzi decisamente negata dalla stessa inarrestabile dilatazione del parco macchine, italiano e mondiale, «che esaurisce e satura città e rete stradale»: così che «il sistema dell'auto a proprietà individuale si sta bloccando e nega le premesse per cui è nato», addirittura capovolgendosi nel suo opposto, fino a trasformarsi in «autoimmobile», responsabile di un ormai intollerabile «inquinamento spaziale». In Italia, con un parco-macchine di 35.297.600 veicoli, siamo tornati a «velocità commerciali (15 km a Milano, 5 km a Napoli) inferiori al traino animale ottocentesco».
Che accadrà quando, e se, il rapporto tra popolazione e autoveicoli si estenderà a tutto il mondo, insistendo in quel processo secondo cui «il capitale sfrutta fino al limite del disastro» la diffusione dell'auto? Marchisio risponde assumendo la Cina (paese che per anni ha assiduamente frequentato, acquisendone una conoscenza d'eccezione) quale esempio più significativo del fenomeno e ponendola a confronto con l'Italia: in dieci anni (tra il 1997 e il 2007), mentre da noi la produzione di auto diminuiva del 30%, in Cina aumentava del 562%. Se questo andamento seguitasse fino a raggiungere il livello del nostro rapporto auto-abitanti, si toccherebbe «l'assurdo di più di 700-800 milioni di auto solo per il mercato cinese, nettamente superiore ai 664 milioni di veicoli circolanti attualmente nel mondo».
Una proiezione ipotetica, ma assolutamente coerente con i modelli attualmente in essere in Cina e nel mondo: che da un lato non può non costringere la Cina a confrontarsi seriamente con i propri problemi di inquinamento già oggi assai oltre il sopportabile, dall'altro non dovrebbe mancare di rimettere in causa l'intero modello di mobilità oggi invalso, e il suo rapporto con le risorse energetiche ancora disponibili. La Cina potrebbe insomma essere l'esempio-limite dell'insostenibilità quantitativa e qualitativa del modello economico imperante, il quale ormai sempre meno - e non solo nella produzione di autoveicoli - riesce a rispondere alla crescita esponenziale di valore che è regola fondante del capitalismo.
Marchisio parla di una realtà-limite, lo fa con la verve e il coraggio che gli erano propri, e ci mette anche i numeri (che sono sempre l'argomento più convincente). Ma in fondo si muove nell'ambito di una critica che ha già una sua storia e una sua elaborata razionalità. I limiti del pianeta, fin dall' Ottocento per più aspetti considerati, anche da parte dei grandi del marxismo, da più di mezzo secolo sono oggetto di impegnate e sistematiche analisi scientifiche, e sempre più anche di divulgazione non di rado di qualità (oltre che, spesso, di tutt'altro che innocente banalizzazione). L'impossibilità fisica della esportazione in tutto il mondo dei modi di vita dell'occidente è un fatto non solo scientificamente incontestabile, ma (così almeno parrebbe) di elementare ovvietà, e d'altronde largamente noto. Un fatto che dunque non può non essere parte del bagaglio conoscitivo di tutti i politici, gli economisti, i banchieri, i grandi manager, i capi delle compagnie multinazionali: i quali però sembrano rimuovere questa elementare nozione dal proprio orizzonte mentale, per affidare concordemente ogni giorno alla comunicazione il loro insistito, convinto, talora accorato auspicio di ripresa, di fuoruscita dalla crisi, di crescita.

Le catastrofi adesso
In questo quadro l'esultanza per la Fiat cinese non può certo stupire. Come non stupisce che si taccia o si dia il minimo rilievo possibile agli eventi catastrofici a ripetizione causati dallo squilibrio ambientale. Cito i più gravi fatti del genere verificatisi negli ultimi dieci-quindici giorni, riportati dall'informazione nel modo più casuale e distratto. La rottura di un grande oleodotto nel sud della Francia ha determinato il rovesciamento di enormi quantitivi di petrolio, con pesante inquinamento del Parco del Rodano, uno dei più celebrati del genere. Il Monsone, abituale regolatore climatico dell'India, è arrivato quest'anno con forte ritardo e in forma insolitamente leggera, causando gravissimi danni all'agricoltura. Insolita pesante siccità e addirittura vaste zone di desertificazione, causate da temperature insolitamente elevate, vengono denunciate anche dal governo australiano. Lo scioglimento dei ghiacci in Antartide procede sempre più celermente e via via aggredisce ampie zone finora estranee al fenomeno. Il ciclone Morakot ha investito l'isola di Taiwan, causando l'evacuazione di 14mila persone, mentre altre 2mila restavano isolate da una grossa frana; il ciclone ha proseguito poi nel sud della Cina, obbligando allo sfollamento circa 300mila abitanti. Nel nord-ovest della Cina forti emissioni di piombo e cadmio da una fabbrica di tubature hanno causato l'avvelenamento di 600 bambini: ne sono seguite rivolte, sedate dall'esercito. In Siberia 11 morti e 65 dispersi, oltre a un imprecisato numero di feriti, sono conseguenza dello scoppio di una grande centrale idroelettrica. A Capri si denuncia il grave inquinamento della celebre Grotta Azzurra: pare si tratti degli scarichi di un vicino albergo, ultimo episodio della gestione dei rifiuti ormai di norma in Italia affidata alla camorra. Lo scontro con morti e feriti verificatosi tra due elicotteri sul fiume Hudson, è forse da addebitarsi a distrazione dei controllori, ma certo - come coralmente asserito - si deve innanzitutto al sempre più fitto traffico aereo, ormai abituale nei cieli di Manhattan.

La politica è lontana

Tutto ciò (e molto altro di cui sovente non si dà notizia alcuna) non pare interessare i responsabili mondiali delle scelte economiche immediate come delle politiche di più vasta portata. Il rapporto diretto e decisivo che inevitabilmente si determina nel processo economico, che vede da un lato i modi e le quantità di produzione e consumo praticati da sei miliardi di persone, dall'altro la salute dell'ambiente naturale da cui, senza alternativa possibile, produzione e consumo traggono alimento, e in cui rovesciano i rifiuti (liquidi, solidi, gasosi) che ne derivano; la patologia che fatalmente in questo rapporto si crea, tra il primo termine, in aumento continuo, e il secondo, un pianeta di dimensioni date e non dilatabili.
Tutto questo - ripeto - che ampiamente la scienza ha analizzato e descritto, e in modi che chiunque lo voglia può intendere, appare del tutto estraneo al dire e operare dei politici di ogni livello. La ripresa, l'uscita dalla crisi, la risalita dei mercati, i decimali del Pil in aumento dello zero virgola zero qualchecosa, sono al centro dei loro pensieri; esultano per la scoperta di giacimenti petroliferi sotto i poli in liquefazione (viva dunque l'effetto serra!), dedicano grida di giubilo alla Fiat cinese. Nei grandi meeting internazionali fissano riduzioni di gas climalteranti che, al di là della loro assolutamente ipotetica messa in opera, non basterebbero certo a compensare l'aumento dei gas medesimi dovuti all'auspicata crescita. Nel migliore dei casi si strumentalizza la ricerca ambientalista per energie rinnovabili e sistemi produttivi meno inquinanti, sfacciatamente rilanciandola come "green growth", assimilandola cioè alla stessa logica che mette a rischio il futuro.
In questa situazione non basta impegnarsi per cambiare il modello di trasporto. Occorre aggredire radicalmente il modello economico oggi attivo. Oscar Marchisio lo sapeva bene, e più volte ne avevamo discusso. Per discuterne ancora lo avevo chiamato dopo aver letto il suo ultimo articolo. Non ho avuto risposta. Il giorno dopo, aprendo i giornali, ho capito perché.