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Fatah: un nuovo inizio?

di Eugenio Roscini Vitali - 27/08/2009

 

“La nostra unità ne è uscita rafforzata, la nostra determinazione più forte, la nostra fiducia nel futuro più ampia. E’ un nuovo inizio verso la libertà e l’indipendenza”. E’ con queste parole che Mahmoud Abbas ha accolto i risultati del Sesto Congresso di Fatah, lo storico movimento politico palestinese che lo scorso 4 agosto è stato chiamato a rinnovare il Comitato Centrale ed il Consiglio Rivoluzionario. Un nuovo inizio, auspicato da molti; un cambiamento che coinvolge il più grande tra i movimenti politici mediorientali, quello fatto da moderati e rivoluzionari, quello che per oltre cinquanta anni è stato la principale forza di liberazione nazionale. Quello che ha saputo interpretare le aspirazioni e i sogni del popolo palestinese, che ha lottato per ridare speranza alla diaspora ed ha restituito dignità a chi era rimasto prigioniero nei Territori. E’ quello che si identificato con l’Autorità nazionale e che alla fine si lasciato risucchiare dalla spirale di una politica malata, fatta di clientelismo e nepotismo, di mezze figure, di personaggi che l’hanno portato alla sconfitta elettorale del 2006, che l’hanno invischiato negli scandali e nelle dispute di potere e che alla fine l’hanno trascinato in guerra civile sanguinosa e crudele.

Al Congresso hanno partecipato più di duemila e trecento delegati; 617 i candidati in corsa per gli 81 seggi disponibili nel Consiglio Rivoluzionario, (composto in totale da 130 membri) e 96 quelli in lizza per i 19 posti a disposizione nel Comitato Centrale (tre dei 23 membri del direttivo saranno designati dal comitato stesso). Molti gli assenti: i rappresentanti di Fatah nella Striscia di Gaza, che hanno potuto esprimere il loro voto telefonicamente perché bloccati da Hamas come ritorsione agli arresti dei suoi militanti in Cisgiordania, e gran parte dei delegati in esilio, tra cui Faruq Kaddumi, responsabile negli anni Ottanta del dipartimento dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) con sede a Tunisi, da dove non è mai rientrato e da dove continua la sua battaglia personale contro attuale leadership di Abbas.

Assenze che hanno sicuramente favorito la corrente più moderata del partito, quella della “resistenza pacifica” che sostiene Anp e che mostra un volto di apparente intransigenza verso lo Stato ebraico e i suoi alleati; ma che intende comunque sciogliere tutti i gruppi armati di Fatah (le Brigate di al Aqsa in primis) e punta ad una soluzione del conflitto attraverso le trattative bilaterali con Israele e rapporti di amicizia con gli Stati Uniti.

Nonostante il tentativo di riciclare volti più o meno noti, il partito uscito dal Sesto Congresso è senza dubbio un partito rinnovato, almeno nei nomi che andranno a formare la nuova dirigenza: secondo i comunicati del capo della commissione elettorale, Fawzi Salamah, nel Consiglio Rivoluzionario sono state elette 11 donne, un ebreo, quattro cristiani e 70 nomi nuovi; 19 gli eletti nel Comitato centrale, 14 dei quali alla loro prima esperienza. Tra le file della nuova guardia figurano: il professore di antropologia Uri Davis, ebreo antisionista che nel 1984 entrò a far parte di Fatah e nel 2008 si è convertito all’Islam per sposare Miyassar Abu Ali, anche lei dirigente del partito; l'avvocato Fadwa Barghuti, moglie di una delle figure più popolari e carismatiche della galassia politica palestinese, Marwan Barghuti, eletto nel Comitato nonostante stia scontando in Israele la condanna all’ergastolo inflittagli nel 2004 per omicidio plurimo, strage e terrorismo; il governatore di Nablus, Jamal Mouheisen, il nipote di Arafat, Nasser al-Qudwa; Afif Safeya, ex ambasciatore dell’Olp negli Stati Uniti; Jibril Rajoub, ex capo della sicurezza interna dell'Autorità nazionale palestinese (Anp); l’attuale ministro per il coordinamento della sicurezza, Hussein Sheikh, e il rappresentante militare di Anp a Gaza prima che la Striscia cadesse nelle mani di Hamas, Mohammed Dahlan.

Sono proprio nomi come Rajoub, Sheikh e Dahlan che però offuscano questo passaggio generazionale, personaggi legati al passato, allo spettro della gestione oscurantista dei fondi e al presunto Paino “B”: il sostegno statunitense all’apparato politico-militare di Fatah che tra il 2006 e il 2007 avrebbero operato su input della Casa Bianca affinché Gaza diventasse teatro di una sanguinosa guerra civile. Stelle del vecchio “regime” che non hanno mai brillato troppo ma che, insieme all’ex capo dell’intelligence, Tawfiq Tirawi (anche lui eletto nel Comitato centrale) e a molti personaggi del partito che orbitano intorno agli organi di sicurezza, cercano di blindare il movimento dal pericoloso morbo del cambiamento.

Un rinnovamento radicale chiesto a gran voce dalle correnti guidate da Marwan Barghouti, delfino di Arafat e comandante della prima Intifada, e da Hossam Khader, altro esponente di spicco della nuova generazione e capo del Comitato per la difesa dei rifugiati, eletto deputato nel 1996 nel distretto di Nablus e da poco uscito dal carcere israeliano di Beer el-Sbia, dove era stato rinchiuso nel 2003 per i fatti legati alla seconda Intifada.

Anche se in linea di massima la Conferenza ha approvato la politica proposta da Abbas, quella del negoziato di pace bilaterale che punta alla soluzione del doppio Stato e che esclude qualsiasi risposta armata al colonialismo sionista, in Israele c’è chi dubita che il voto dei delegati sia riuscito a screditare definitivamente i gruppi che, di fatto, rappresentano l’ala combattente del movimento. I nuovi membri del Consiglio però una condizione sono riusciti a stabilirla: colloqui di pace con Gerusalemme solo in cambio dello stop israeliano alla costruzione di nuovi insediamenti ebraici in territorio palestinese; ritiro delle truppe dalla Cisgiordania e nuove forme di lotta che comprendano la possibilità di impugnare le armi qualora i negoziati dovessero fallire.

Una presa di posizione che in pratica rilancia il dialogo con l’altra anima della Palestina, quella guidata dal movimento islamico di Khaled Mashaal, e che dà fiducia a tutti quei palestinesi che per lungo tempo avevano perso le tracce dello storico Movimento di Liberazione Palestinese fondato nel 1959 da Yasser Arafat. Ma se Fatah tornerà veramente ad essere il partito del popolo, più forte e più coeso della sbiadita versione vista negli ultimi anni, capace di essere il perno della storia palestinese e di saper raccogliere le speranze e i sogni delle nuove generazioni, lo vedremo con il tempo.