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La favola multietnica e la realtà dell’immigrazione. Il suicidio della sinistra

di Claudio Moffa - 29/08/2009

Fonte: claudiomoffa


Non è bastata alla sinistra ufficiale l’ennesima batosta elettorale
del giugno scorso; non le è bastato lo snaturamento della propria
identità sociale, la perdita fino alla mutazione genetica del proprio
tradizionale elettorato operaio e “proletario”. Alemanno ha vinto
due anni fa nei quartieri popolari della capitale, non ai Parioli dove
l’ha spuntata il PD; nel Nord la classe operaia vota da più di dieci
anni Lega, nella Torino della Fiat come a Milano, ma pare che
nessuno a sinistra voglia riflettere su questa tragica deriva che sta
trasformando tutte le anime dell’ex PCI nel partito dei corifei del
multiculturalismo e dei neo-salsicciari delle feste dell’Unità, tanto
tragicamente neo-liberals quanto entusiasticamente “antirazzisti”.
Non le è bastato tutto questo alla sinistra ufficiale, perché alla prima
occasione pur di dare addosso a Berlusconi e di assecondare il
patron De Benedetti e i suoi giornali, ricomincia il coro. Anche i suoi
leaders più responsabili: Bersani alla festa genovese del PD accusa il
centrodestra di ideologismi a proposito delle ultime vicende di
Lampedusa: il candidato principale alla successione a Franceschini
pensa alle pagliuzze altrui ma non vede le travi che hanno impalato
la leadership ex piccista alla croce dell’autodistruzione. Idem Fini
che – da destra - parla di emotività con riferimento alla questione
sicurezza, ma non guarda con la stessa lente alla questione
immigrazione, dove chi vuole un controllo del fenomeno è
immediatamente tacciato di razzismo e di violazione dei “diritti
umani”.
Che è successo a Lampedusa nei giorni scorsi, tanto per
cominciare? Sembrò a ingenui e furbi che il gommone dei 5 eritrei
fosse carico di un’ottantina di persone, morte in mare prima che i
sopravvissuti sbarcassero a Lampedusa. Un dramma, frutto del
“razzismo” della nuova legge che ha reso reato l’immigrazione
clandestina. Ma il 26 agosto il TG ha diffuso una foto pubblicata dal
governo maltese sul sito del Corriere della Sera, nella quale si vede
dall’alto il gommone ben pulito e di dimensioni tali che mai avrebbe
potuto contenere 80 persone. Domanda, che ci si sarebbe dovuti
porre subito: per caso i 5 eritrei hanno mentito sulle presunte
decine di vittime durante la traversata? E’ stato trovato qualche
segno (borse, sacchetti etc.) sul gommone della presenza degli 80
presunti compagni di viaggio dei fortunati eritrei? Il dubbio non è
affatto assurdo, così come non è assurdo indagare con spirito
obbiettivo sulle dichiarazioni di tutti i disperati che sbarcano con
l’obbiettivo di entrare in Italia e in Europa magari come “rifugiati”,
cioè a dire come perseguitati per motivi politici o razziali nel paese
di provenienza: è chiaro che gli immigrati irregolari hanno tutto
l’interesse a drammatizzare la loro condizione originaria e le fatiche
del loro viaggio. Sarebbe, se vero, un fatto normale, una tentazione
umana comprensibile. Il problema non sta in loro, sta in chi
ciecamente gli crede o fa finta di credergli: un comportamento che
fa parte questo sì di un approccio tutto ideologico al problema
dell’immigrazione, riassumibile in quattro dogmi intoccabili che
accomunano quasi tutta la Chiesa cattolica, i laici e postcomunisti
del centrosinistra e l’estremismo no-global e Cobas: primo dogma,
chiunque chiede di poter entrare nel nostro paese (e di qui in
Europa) ha il diritto di farlo.
Secondo, chi si oppone è un razzista né più nè meno che gli
estensori delle leggi razziali del 1938.
Terzo, tutti gli immigrati sono rifugiati, e questo aggrava la colpa di
chi vuole vietare il loro ingresso in Italia.
Quarto, opporsi all’immigrazione costituisce non soltanto una
violazione dei “diritti umani”, ma anche un danno per l’ “economia”
italiana.
Sono quattro assurdità. Da che esistono gli Stati e i passaporti, per
entrare in un paese occorre un regolare visto, oppure un accordo fra
Stati che lo renda non necessario. Se poi l’ingresso non certificato e
non concesso si trasforma in residenza di fatto permanente, si è
oggettivamente clandestini nel paese di imposta accoglienza. Non si
capisce perché a questo punto uno Stato non possa e non debba
normare come reato un simile comportamento, ormai diventato
drammaticamente di massa. Tutto questo è razzismo? Il paragone
fatto durante la campagna elettorale del maggio-giugno scorso in un
editoriale di Liberazione e ripreso pochi giorni dopo dal segretario
del PD Franceschini, che i respingimenti delle ondate di immigrati
in Italia ricordano le leggi razziali del 1930, è veramente privo di
logica: è l’ennesimo segnale della perdita di qualsiasi approccio
razionale e obbiettivo alle grandi questioni sociali della nostra epoca
da parte della sinistra postmarxista. Le leggi razziali del 1938
discriminavano ingiustamente cittadini italiani di origine ebraica,
ultimi discendenti di una minoranza da secoli se non da millenni
residente nel territorio della penisola. Nel caso degli immigrati si è
di fronte a cittadini stranieri che pretendono di entrare in Italia e in
Europa in assenza di qualsiasi regola e programmazione della forza
lavoro economicamente assorbibile. Un paragone che è l’altra faccia
delle famose dieci domande di Repubblica, il tragicomico
gossip con cui si cerca coprire l’assenza di qualsiasi programma
politico serio alternativo a quello realizzato mese dopo mese dal
centrodestra.
Ma gli immigrati, tutti gli immigrati, sono rifugiati? Anche questa
è una idiozia. Mi è capitato di attivarmi un paio di anni fa per il
riconoscimento dello status di rifugiato per il figlio di un ministro di
Saddam Hussein, in carcere a Bagdad, la cui famiglia era
effettivamente perseguitata dai nuovi padroni dell’Iraq occupato
dagli anglo-americani. Ma in quel caso lo status di rifugiato – poi
ottenuto - era un atto dovuto, perché si era di fronte ad una persona
direttamente immersa, sia pure in quanto figlio di un ministro, nel
conflitto in atto nel paese. Invece, nel caso della stragrande
maggioranza degli immigrati non è così: è possibile che manchi una
codificazione di uno status intermedio fra il vero e proprio rifugiato
politico e l’immigrato per motivi sociali ed economici, ma è un fatto
che in base alla stessa Convenzione di Ginevra del 1951 non è
possibile concedere lo status di rifugiato a chiunque entri in Italia,
se privo di alcuna dimostrata esperienza politica, militante, di
impegno civile. Non bastano le guerre o le dittature nei paesi di
provenienza per trasformare automaticamente ogni emigrato in
rifugiato. Chi insiste su questo argomento lo fa o per speculazione
politica o per “buonismo” qualunquista, un sentimento di
solidarietà privo di alcuna base logica e spesso dannoso per la
costruzione di una vera e concreta solidarietà sociale.
Gli immigrati come risorsa: ma per quale “economia”?
Ed eccoci dunque alla decantata “risorsa” che gli immigrati
rappresenterebbero per l’economia italiana, un tema rilanciato
recentemente anche da uno studio della Banca d’Italia. E’ il più
grande equivoco della questione immigrazione in Italia, fatto
proprio da una sociologia e una politologia dell’immigrazione
“facile” che non regge ad una critica razionale. In un articolo recente
Famiglia Cristiana, citando appunto la ricerca dell’Istituto di via
Nazionale, titola: “Senza il loro lavoro saremmo tutti più poveri”.
Un titolo ad effetto (“loro” sono gli immigrati) che non regge
all’analisi dei fatti, a meno che non la si articoli compiutamente: un
conto sono le colf e le badanti che possono risolvere i problemi di
gestione quotidiana di tante famiglie a reddito medio-basso; un
conto sono i lavoratori nell’industria nell’agricoltura e nel
commercio.
In questi settori non è affatto vero che gli italiani non vogliono
fare più certi lavori: non li vogliono fare – compresa la raccolta dei
pomodori in Puglia, che a qualche studente italiano bisognoso di
soldi per le vacanze potrebbe far comodo – per paghe basse o
bassissime, come quelle che si sono diffuse proprio grazie alla
concorrenza della massa di immigrati: un classico “esercito
industriale di riserva”, per dirla alla Marx, che in questo ultimo
quarto di secolo ha svolto la funzione storica di colpire – certo non
da solo, ma in concomitanza con altri fenomeni e politiche
“autoctone” - le conquiste salariali e occupazionali guadagnate dai
lavoratori nazionali in decenni di lotte sindacali.
Questa verità indubitabile non è frutto di ideologismi: è
raccontata dai fatti ed è stata ammessa anche (qualche volta)
persino dalla CGIL. “Cipputi dice no all’operaio squillo” titolava un
articolo de La stampa del 4 luglio 2000, che riportava il giudizio di
un sindacalista di sinistra contro la sleale e crumira concorrenza
degli immigrati. “E’ necessario superare lo stereotipo espresso
dallo slogan che recita ‘gli immigrati fanno i lavori che gli italiani
non vogliono più fare’ … - scriveva nel 1999 un sindacalista della
CGIL bolognese - ci sono infatti moltissimi esempi che
testimoniano quanto questo slogan sia sbagliato”.
Parole sacrosante. Ma la questione immigrazione non viene quasi
mai affrontata a sinistra per quella che è, allora come oggi: quella
citazione la lessi durante un convegno all’Università di Teramo
promosso nel 2000 nell’ambito di un progetto sulle
“discriminazioni etniche” finanziato dall’Unione Europea. Fra gli
oratori c’era l’on. Evangelisti dei DS, e sperai ingenuamente
nell’apertura di un dibattito: ma non successe nulla. Intervenendo
poco dopo il deputato ripeté semplicemente la solita solfa
dell’immigrazione come “risorsa” dell’ “economia”. Punto e basta.
Né a Bruxelles, nei lavori di coordinamento fra i project-leaders di
altre consimili ricerche si respirava aria migliore. Anzi, lì il solo
opporsi ad una visione fatalistica dei fenomeni migratori – come da
sociologia e politologia imperanti – il solo parlare di controlli da
una parte e di politica di pace dall’altra (le guerre degli anni
Novanta hanno provocato ondate migratorie terribili) rischiava di
farti giudicare in odore di “razzismo” e/o di pacifismo “estremista”.
Certo la pace non basta, occorre anche il rilancio della cooperazione
internazionale e un commercio equo. Certo il razzismo esiste, in
Europa e in Italia: ma costituisce l’humus sì e no del 5-10 per cento
degli episodi denunciati come tali dalla stampa e dai mass media. O
gli operai che oggi votano Lega e Pdl sono diventati tutti razzisti? E
per caso, non è proprio l’immigrazione senza regole a diffondere il
rischio razzismo in tutto il paese?
Tabù, miti privi di logica e furbizie mediatiche impediscono ieri
come oggi di affrontare correttamente da una parte la questione
delle minoranze e dall’altra il rapporto oggettivamente non
armonico – che riguarda per altro anche i servizi e il bene casa – fra
lavoratori stranieri e nazionali.
Il mito delle minoranze sempre e comunque “brava gente” è noto:
per certi militanti e politologi “buonisti” tutto il male viene
dall’esterno, dall’ “oppressore” autoctono, italiano nel nostro caso.
Non c’è nessuno o quasi a sinistra che denunci il razzismo diffuso
dei cinesi e il bestiale sfruttamento cui coloro che detengono il
controllo di queste comunità sottopongono i loro connazionali,
minori compresi. Assolutamente nessuno a sinistra che avanzi
almeno il dubbio che i Rom sono anch’essi razzisti, fino a costruirsi
un’etica tribale che rende per loro assolutamente “morale” rubare il
portafogli col cartone al pensionato, o prendersi i soldi delle
Amministrazioni pubbliche non mandando, come loro dovere, i figli
a scuola. Come si suol dire, con una fava due piccioni: si intascano
sia i soldi dei minori costretti all’accattonaggio quotidiano, sia le 50-
70 euro al giorno per una scuola che essi sono costretti a non
frequentare dai loro stessi genitori. Ma di tutto questo a sinistra si
tace: c’è l’Opera Nomadi a convincere i rivoluzionari e i
multiculturalisti che “Rom è bello” sempre e ovunque.
Ma torniamo al tema principale, il rapporto fra lavoratori stranieri
e nazionali: anche qui le perle non mancano. Come l’inconsistente
analisi di Bernocchi a La 7 durante uno dei dibattiti sulle elezioni
europee. Per il leader dei Cobas ci sarebbe stata e ci sarebbe in
Italia un’alleanza degli industriali con i “penultimi” (cioè la classe
operaia nazionale) ai danni degli “ultimi”, gli immigrati. E’ una
assurdità: l’alleanza semmai è stata ed è fra industriali e forza lavoro
immigrata ai danni dei lavoratori italiani, come da articolo prima
citato, e come da semplice logica: con quali paghe, con quale
disponibilità al lavoro iperprecario vengono assunti gli immigrati in
tante aziende italiane? A quanto ammonterebbe un salario secondo
tariffe contrattuali nell’edilizia, contro i 25 euro giornalieri (e per 12
ore di lavoro al giorno) garantiti agli immigrati, in condizioni
peraltro di forte insicurezza, a rischio della vita, nei cantieri?
Lo slogan “gli immigrati sono una risorsa per l’economia italiana”,
condiviso da fior di ricerche economiche e sociologiche, parte da un
assunto astratto e monolitico dell’economia. E’ chiaro che ci sono
diversi interessi economici, secondo settori economici e secondo
classi sociali. All’industriale senza scrupoli va bene l’immigrato,
possibilmente clandestino, perché più sfruttabile; per l’operaio o il
disoccupato italiano lo stesso immigrato costituisce una minaccia
per il proprio posto di lavoro o almeno per la propria paga. Al
cittadino di qualche quartiere bene – zona ricca, disponibilità di
case per immigrati zero – l’immigrazione geograficamente lontana
potrebbe apparire, con buona dose di scemenza o di ipocrisia,
nientemeno che un arricchimento multiculturale grazie all’ astratto
incontro col mitico “diverso”; ma al cittadino delle grandi periferie,
la stessa immigrazione appare, in tutta la sua concretezza
quotidiana, come uno dei tasselli del degrado urbano in cui è
costretto a vivere: e il “diverso”, privo di un reddito sufficiente, di
un lavoro garantito e di una vita affettiva e sessuale normale, può
diventare molto meno poeticamente colui che ti rapina o ti stupra.
E’ così difficile capirlo? Evidentemente per il centrosinistra sì: il
centrosinistra preferisce demonizzare le leggi sull’immigrazione del
centrodestra e i centri di permanenza degli immigrati, anziché
svolgere una critica interna alla concreta applicazione della
(necessaria) politica di contenimento e controllo dell’immigrazione
straniera in Italia. Non interviene per criticare il singolo operatore
di polizia o funzionario di stato per eventuali comportamenti
“caricati” di arroganza razzista; vuole semplicemente abolire la
Bossi Fini, la legge sulla sicurezza, i centri di permanenza, ogni
forma di controllo. Non difende semplicemente il sacrosanto diritto
dei musulmani in Italia ai loro luoghi di culto , ma semplicemente
vuole che entrino nel nostro paese tutti i musulmani del mondo,
altrimenti si è razzisti. Il tutto dentro una politica più o meno
culturale che ha ben digerito il giornalismo islamofobo di Oriana
Fallaci e di Magdi Allam; e una politica estera che prende in tanti
modi le opportune distanze dall’Islam mediorientale, l’Islam
autoctono con i suoi Stati sovrani e suoi movimenti di liberazione
nazionale.
Così la sinistra ha perso le elezioni europee e la possibilità di
governare in Italia; così ha mutato la base del proprio elettorato,
come dimostra la geografia del voto nelle consultazioni degli ultimi
dieci vent’anni. Classe operaia addio: adesso l’ex Partito di Togliatti
e Berlinguer pensa agli immigrati come bacino di (improbabili?)
voti per far fronte alla sua crisi senza scampo, dovuta alla sua
subalternità totale al carro di Repubblica e di De Benedetti e
all’assenza di ogni reale programma riformatore.
L’immigrazione non è certo il solo terreno in cui si scopre e
verifica “la sinistra che non c’è” – ce ne sono ben altri, a cominciare
dalla politica economica per proseguire con la riforma della
Giustizia, dell’Università, o la politica estera - ma sicuramente il
principale, soprattutto per una forza che un tempo faceva del
legame con le masse popolari la base dei propri successi in
Parlamento e nel paese.