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L'Idea dell'essere come interiorità oggettiva nella filosofia di Michele Federico Sciacca

di Francesco Lamendola - 03/09/2009

Abbiamo già avuto modo di soffermarci a considerare nella sua dimensione complessiva la figura e l'opera di Michele Federico Sciacca - uno dei filosofi italiani contemporanei più interessanti e più misconosciuti dalla critica odierna, imbevuta di pregiudizi materialisti e antireligiosi - nel precedente articolo «Nella vicenda di Michele Federico Sciacca l'itinerario di un filosofo a Dio» (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Così pure, in un apposito saggio ci siamo occupati della filosofia di Antonio Rosmini, che, di quella di Michele Federico Sciacca, costituisce la premessa irrinunciabile, e della quale la seconda è un originale ampliamento e approfondimento (cfr. «La  teoria  rosminiana sull'origine  delle  idee: temi e struttura», ancora sul sito di Arianna Editrice).
Per Sciacca, l'essere si articola in tre forme: l'oggetto, ossia l'essere intuito, intelligibile, Idea, che è la forma ideale; il soggetto, ossia l'intelligenza che lo intuisce, che è la forma reale; infine l'amore, poiché l'essere soggetto-oggetto, essendo perfezione, è amabile: non si tratta di una terza forma distinta dalle due precedenti, ma piuttosto della forma che le congiunge, gettando un ponte (l'amabilità) fra soggetto ed oggetto.
Ma come è possibile che l'uomo, creatura contingente e particolare, abbia la nozione dell'Essere, che è pura necessità e pura universalità?
Evidentemente, tale nozione non proviene dalla sua sfera di esperienza, che è calata nella dimensione del contingente e del particolare; e tuttavia è certo che la possiede, poiché ogni qualvolta egli fa una affermazione di carattere assoluto, in qualche modo si sposta da tale piano del relativo, a quello dell'assoluto.
Come già aveva sostenuto Rosmini, la capacità di cogliere l'universalità e la necessità della verità è una partecipazione dell'uomo alla luce divina e si concretizza, appunto, nell'Idea dell'essere. Non è l'essere in se stesso, poiché l'essere in quanto tale è insormontabile e indeducibile: abbraccia sempre, per definizione, l'intera sfera del pensabile, e da nulla potrebbe venire dedotto se non dall'essere, cioè da se medesimo. La logica conseguenza di tutto questo è che noi siamo sempre nell'essere, insieme a tutto ciò che esiste e che è pensabile, ovvero che potrebbe esistere; e niente, assolutamente niente, rimane al di fuori di esso.
Per Sciacca, una ulteriore conseguenza è che noi non possiamo pensare il nulla e, pertanto, pensare equivale a porre la categoria dell'esistenza. Ma allora, senza la categoria dell'essere, noi non potremmo pensare, non solo a questa o quella cosa, ma non potremmo pensare affatto: pensare equivale a pensare l'essere, per mezzo dell'essere. Il fatto che noi possiamo cogliere le cose esistenti così come sono, è reso possibile dalla categoria dell'essere, dalla luce dell'essere che, in qualche modo, splende in noi, o meglio, alla quale noi partecipiamo e dalla quale siamo illuminati. L'essere, dunque, non è nelle singole cose, ma nel fatto complessivo del nostro conoscere.
Emerge da ciò la duplice dimensione propria dell'uomo, che da una parte - essendo determinato e limitato - è immerso nella contingenza; dall'altra, supera i limiti di essa e si spinge con il suo conoscere il mondo, e con il suo essere consapevole di se stesso, molto al di là di tale sfera particolare e contingente.
Sciacca spinge ancora più in là il ragionamento e sostiene che, così come solo l'Idea, ovvero l'oggetto della mente, è l'essere in quanto essere, allo stesso modo si deve porre una equivalenza tra la verità, contenuto della mente che percepisce in sé un qualcosa che la eccede, e l'essere: per cui la verità è l'essere, e l'essere è la verità.
Bisogna però precisare subito, a scanso di equivoci, che, per Sciacca, l'Idea dell'essere non è una forma di conoscenza della realtà empirica, ma bensì la costituzione essenziale dell'uomo, ciò che lo definisce ontologicamente come creatura spirituale; ed è, al tempo stesso, la suprema garanzia della universalità e necessità del conoscere umano, ossia della sua verità.
Il giudizio umano non è necessariamente vero; esso può dirsi tale solo se la mente umana riesce a riconoscere il vero e a giudicarlo secondo un criterio di verità. In altri termini, ogni giudizio risulta vero, se viene posto nella luce dell'essere: essa soltanto è in grado di rivelare la verità delle cose e, quindi, anche dei giudizi.
La ragione, per mezzo dell'essere, adegua le cose a se stessa, in quanto le giudica sotto la categoria del concetto.
Ma l'essere non è un concetto, è l'Idea; dunque, la ragione non può adeguare a sé anche quest'ultima, ma, al contrario, è per mezzo di quest'ultima che adegua le cose a se stessa. Del resto, se la ragione potesse adeguare a sé l'Idea dell'essere, o adeguarvisi lei, vorrebbe dire che l'Idea dell'essere è immanente al pensiero; invece il pensiero non può esserne l'origine, proprio perché non la adegua mai. Ne consegue che l'Idea dell'essere è, sì, interiorità, perché non può essere pensata se non da una mente; ma è una interiorità oggettiva, perché non deriva, non è in alcun modo prodotta dalla mente del soggetto, dalla ragione che pensa.
Quest'ultima intuizione è estremamente ricca di sviluppi, sui quali vorremmo brevemente soffermarci a riflettere.
L'Idea dell'essere è, se si vuole, paradossale, perché, pur non essendo concepibile fuori della mente, non deriva dalla mente, ma possiede un proprio statuto ontologico indipendente: ciò significa che si trova, nel medesimo tempo, dentro e fuori di noi, e che noi possiamo farne esperienza, anzi, la facciamo in continuazione, senza però essere in grado di circoscriverla alla nostra sfera di pensiero e saper dire come si sia generata.
Tutto questo è strano e affascinante, ma anche, nello stesso tempo, estremamente logico e naturale. Se non vi fosse l'Idea dell'essere, noi non conosceremmo nulla, non sapremmo nulla, neppure di esistere; essa è come un magnifico dono, un dono luminoso che accende la realtà opaca e conferisce un senso e una prospettiva alla molteplicità degli enti particolari e contingenti, che giacciono apparentemente alla rinfusa entro l'orizzonte della nostra sfera sensoriale.
Un'altra considerazione che scaturisce da quanto sopra è che noi non possiamo avere alcuna esperienza diretta dell'Essere in quanto tale, ma soltanto dell'Idea dell'essere: l'Essere in se stesso appartiene ad una dimensione che è al di là della nostra portata, almeno dal punto di vista della ragione discorsiva. Ciò non impedisce che, per altra via - ad esempio, quella dell'estasi - l'essere umano possa, a condizioni molto particolari, gettare un fugace sguardo verso quella realtà abbagliante, un po' come avviene nel mito platonico della biga alata che, per qualche istante, permette al conducente di intravedere il mondo dell'Iperuranio.
Si tratta di esperienze ineffabili, ma che sono rese possibili da un abbandono dello strumento della pura e semplice ragione discorsiva. Con la ragione discorsiva, noi non possiamo andare oltre l'affermazione cartesiana del dubbio che conferma la nostra esistenza; ma, appunto, muovendoci sempre entro una sfera di incertezza, come una sorta di nebbia che ci preclude la visione chiara e luminosa delle cose in sé.
Ma ecco come Giuseppe Beschin, ordinario di filosofia teoretica all'Università di Trento e preside della Facoltà di lettere e filosofia, ha sintetizzato questo passaggio della filosofia di Michele Federico Sciacca, in un saggio contenuto nel libro «La figura di Cristo nella filosofia contemporanea», a cura di Silvano Zucal (Edizioni Paoline, 1993, pp. 529-536)

«Sciacca sottolinea come l'uomo conosca delle verità necessarie ed universali. Sono necessarie, perché non possono che essere cose dunque sono tali da sempre e per sempre. Sono universali, perché s'impongono ad ogni essere intelligente, che non può non accettarle. Ma ogni singolo uomo non è necessario, bensì contingente, tanto è cero che ha cominciato ad esistere in un determinato momento del tempo, mentre, se fosse necessario, sarebbe sempre esistito ed esisterebbe per sempre. Inoltre non è nulla di universale, ma un essere particolare e determinato. Quello che si afferma di ogni uomo vale anche per le cose. Ma il meno non può dare il più, e così ciò che è conti gente e particolare non può dare ciò che è necessario e universale.
Ora l'uomo conosce delle verità necessarie ed universali, ma non le può ricavare dalle cose, che sono contingenti e particolari, né le può creare lui, che è contingente e particolare. Così, conoscendo delle verità necessarie ed universali, egli si apre su di un orizzonte assoluto che supera lo spazio ed il tempo, perché coglie qualcosa di valido per tutti e per sempre.
Né si può sostenere che l'uomo non affermi mai alcunché di assoluto. Infatti anche colui il quale che tutto è relativo o che di tutto si deve dubitare, pretende che tale asserzione abbia valore assoluto. Perciò nessuna affermazione è così relativa da non contenere in sé qualcosa di assoluto. Anche le cose che, prese nella loro materialità, sembrano chiuse in sé e totalmente soggette al divenire che ben presto le farà scomparire, se conosciute, acquistano significato, entrano in rapporto tra loro costituendo un cosmo, diventano un bene di tutti e possono attingere un valore eterno.  Questa montagna che mi sta di fronte e che ammiro, fisicamente è una ed è solo qui, ma, conosciuta ed ammirata, può costituire la gioia di numerosissime persone. Nulla di più contingente e transitorio del passaggio di un aereo supersonico, che in questo momento solca il cielo, zl di sopra della mia casa, ma, non appena il pensiero lo conosce, esso diventa una verità su cui il tempo non avrà più alcun potere.
Proprio perché l'origine delle verità necessarie ed universali non può essere nell'uomo, , nelle cose, Platone ha potuto affermare che conoscere è ricordare ciò che si è visto nel mondo delle idee; Agostino ha parlato d'illuminazione da parte di Dio, Aristotele e gli Scolastici d'intelletto agente, che, per gli Scolastici, è una partecipazione della lue di Dio. S. Tommaso accosta esplicitamente intelletto agente  e conoscenza dell'essere. Per Rosmini infine questa luce intelligibile, che ci rende capaci di cogliere la verità caratterizzata  dalla necessità e dalla universalità, è una partecipazione della luce divina ed è l'Idea dell'essere. Questa precisazione di Rosmini, ripresa da Sciacca, non è casuale.
L'essere infatti, chiarisce Sciacca, è primo: niente vi è prima e dopo l'essere, e non si può andare al di là dell'essere, perché al di là dell'essere e prima e dopo l'essere c'è il nulla, che si può immaginare solo in quanto siamo e dunque in quanto l'essere è; l'essere in questo senso è insormontabile. D'altra parte appare chiaro anche come l'essere sia indeducibile, perché potrebbe venire dedotto soltanto dall'essere, non certo dal nulla; l'essere inoltre è indiscutibile, perché per discuterlo bisogna essere. Né all'essere si giunge, perché per giungervi occorrerebbe partire o dal nulla o da qualcosa che esiste in forza dell'essere. Nel primo caso non vi si giunge, perché si è niente, nel secondo non occorre giungervi perché vi si è già. Dunque si deve partire dall'essere, o meglio, siamo sempre nell'essere e niente vi è fuori di esso.
Ma allora, tutto ciò che si pensa, si pensa nell'essere, tanto è verro che il nulla assoluto è impensabile, in quanto nell'atto di pensare il non essere è implicito l'essere di me che penso.
Quindi la capacità di pensare è la capacità di dire: É. L'essere costituisce l'affermazione radicale, che è come l'elemento in cui lo spirito nasce e vive e senza il quale è impossibile pensare qualcosa. L'essere è così la verità prima e originaria, perché noi cogliamo la verità di qualsiasi cosa affermando ciò che essa È davvero. Ma come potremmo cogliere ciò che ogni realtà È davvero senza la luce dell'essere? Allora le verità necessarie ed universali sono da ricondurre alla necessità e all'eternità dell'essere. L'essere si autoafferma, trascende il tempo e lo spazio, che abbraccia come due sue modalità.
Ma perché Rosmini e, dopo di lui, Sciacca, parlano di Idea dell'essere? Questa luce che ci costituisce intelligenti è la capacità di dire: È; quindi è la luce dell'essere che ci rende capace di conoscere le cose esistenti come SONO.  Ma allora non può essere nulla di determinato e particolare. È una luce che ci rende capaci di conoscere tutto ciò che è e tutto ciò che potrebbe essere. Si tratta pertanto dell'essere in tutta la sua estensione infinita, è l'essere come essere, che non sarebbe più tale se coincidesse con qualsiasi ente. Dunque l'uomo è un ente la cui attività è specificata non da questa o quest'altra determinazione particolare dell'essere, ma dall'essere stesso nell'ampiezza infinita della sua estensione, di cui ogni ente particolare è una determinazione. Come da una parte l'uomo è un essere determinato e limitato, ma per un altro verso sormonta i suoi limiti e accede all'ordine del tutto. Ma l'essere come essere non si può dare che come Idea, che è oggetto della mente. Infatti solo la mente può cogliere l'essere in tutta la sua estensione senza ridurlo ad un ente determinato, nemmeno all'ente che essa è, perché solo la mente può cogliere qualcosa che è presente ad essa ma da essa si distingue. Proprio per questa sua costitutiva presenza alla mente l'essere in tutta la sua estensione è essenzialmente verità:
"L'essere è la verità e la verità è l'essere."
Ma queste affermazioni sono ricche d'implicazioni importanti. Anzitutto da quanto abbiamo detto appare evidente che l'uomo è autenticamente uomo, superiore alle cose ed agli animali, ossia capace di pensare, per questa presenza dell'essere come essere. Per tale presenza l'uomo è spirito: spirito e non anima, precisa Sciacca: anche gli animali hanno un'anima. L'Idea dell'essere ha dunque per Sciacca anzitutto un valore ontologico, non gnoseologico. Ossia essa non è una forma del soggetto in vista della conoscenza della realtà empirica, ma costituisce l'uomo come ente spirituale; ed è tale costituzione che permette all'uomo di superare la realtà empirica e di aprirsi alla metafisica. D'altra parte è ancora questa costituzione ontologica del pensiero che, come appare da quanto si è detto fin qui, garantisce il conoscere umano nella sua validità universale e necessaria. Sciacca è d'accordo con Rosmini nell'affermare che conoscere è giudicare. Ma i giudizi possono essere fonte di conoscenza autentica solo se sono veri. E possono essere tali, soltanto se la mente umana è capace di conoscere il vero e di giudicare secondo verità. Ora è la luce dell'essere, che costituisce ontologicamente l'uomo come spirito, che rende possibili i giudizi veri. Infatti ogni giudizio è vero solo se posto nella luce dell'essere, che è l'orizzonte assoluto, che rivela ogni cosa per quello che VERAMENTE è.
L'Idea dell'essere è dunque la verità per cui è vero ogni giudizio conoscitivo, morale ed estetico. Essa rende perciò possibile il giudicare che è opera della ragione, la quale ha il compito di formulare i giudizi che ci danno i concetti degli enti infiniti. Questa formulazione dei giudizi è un'attività discorsiva, che presuppone la presenza  dell'essere come essere. Ma allora l'essere come essere non si può raggiungere attraverso il procedere discorsivo della ragione, è invece presente come intuíto. E, se i concetti sono frutto dell'attività giudicatrice che è discorsiva, "L'essere in universale non è concetto, è l'Idea." Coi sono concetti degli enti, ma l'essere nella sua estensione infinita non è un ente, bensì la luce in cui gli enti sono noti.
Queste precisazioni sono importanti. Infatti, c'è adeguazione tra la ragione e le cose. E questo perché essa è attività concettuale e giudicatrice e il concetto di una cosa adegua la realtà di essa :il concetto di uomo, per esempio, adegua l'essenza dell'uomo e questa il concetto.
Non c'è invece adeguazione tra la mente e l'Idea dell'essere, perché l'io come ente determinato non può mai coincidere con l'essere nella sua infinità. Così l'essere come essere è ciò che è, solo in quanto presente alla mente, perché al di fuori dell'atto intellettivo ci sono solo gli enti, non l'essere nella sua infinità; d'altra parte esso non può essere immanente all'atto che lo pensa, ma lo trascende, perché il pensiero non lo può produrre, in quanto non lo adegua mai. Perciò l'essere come verità, l'Idea dell'essere, è interiorità perché deve essere pensata da una mente, ma è interiorità oggettiva, in quanto non è un prodotto della mente, del soggetto. Tale posizione tiene conto dell'istanza interioristica del pensiero moderno, un'istanza che è anche tipicamente cristiana  e fa sì che l'uomo non si disperda nella esteriorità delle cose; e nello stesso tempo supera gli inconvenienti del soggettivismo.»

C'è un'altra conseguenza importante che vorremmo sviluppare, la quale scaturisce dalla concezione dell'essere propria di Michele Federico Sciacca.
Abbiamo visto che noi possiamo esprimere giudizi veri sulle cose, ed avere una conoscenza veritiera del mondo, solo grazie all'essere, che rende possibile l'attività conoscitiva, estetica e morale. Abbiamo anche visto che, per Sciacca, l'essere si presente anche sotto la forma dell'amore, in quanto la relazione dell'oggetto e del soggetto è, di per sé, amabile. Pertanto possiamo anche dire che le cose divengono per noi conoscibili mediante l'amore, possiamo adeguarle a noi mediante l'amore e non solo mediante la ragione.
Forse, sarebbe più esatto esprimersi così: l'amore non è altra cosa dalla ragione, ma una modalità dell'essere, grazie alla quale la ragione realizza il suo magnifico slancio verso l'infinito, oltrepassando i propri stessi limiti e attingendo alla sfera dell'assoluto.
Può darsi che ci siamo spinti un po' oltre la filosofia di Michele Federico Sciacca, tuttavia crediamo che ogni vero filosofo sia orgoglioso non già di fornire al prossimo un itinerario bello e tracciato, ma una serie di spunti, grazie ai quali ciascuno sia aiutato e stimolato a cercare la propria via, nel comune sforzo verso la verità.
La verità è una, ma le strade per arrivarvi sono numerose: tante, quanti sono gli esseri umani che si mettono in viaggio verso di essa.