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Palestina, provincia d'Eurasia

di Tiberio Graziani - 03/09/2009

 
 

La Palestina si trova nel Vicino Oriente e, da quando esiste, la « Questione d’Oriente » sembra essere un affare vicino-orientale. In realtà la colonizzazione ebraica della Palestina è una decisione delle grandi potenze che risponde alle loro problematiche ed alle loro ambizioni. Ne consegue che la pace in questa regione del pianeta si gioca per larga misura fuori di essa.

Palestina: una questione tutta "occidentale"

Quella che la storiografia e la letteratura politologica contemporanee definiscono impropriamente come “questione palestinese” in riferimento alla tuttora irrisolta vicenda vicino orientale, che contrappone la popolazione palestinese allo stato ebraico, è in realtà un agglomerato di questioni politiche e geopolitiche, specificamente occidentali. È peculiare della pubblicistica politica e della letteratura accademica europee ed anglostatunitensi introdurre nel dibattito scientifico e politico concernente aree extraoccidentali definizioni fuorvianti, le quali, oltre ad esprimere una presunta superiorità occidentale, condizionano, pregiudicandole, anche l’analisi e la ricerca. Un caso esemplare di tale attitudine intellettualmente disonesta, giacché piega ai fini politici e di potere la valutazione di dati oggettivi e l’analisi della realtà, è fornito dalla cosiddetta Questione d’Oriente, di cui è parzialmente figlia quella “palestinese”.

In un arco temporale che va dalla guerra russo-turca del 1768-1774 fino ai primi anni del novecento, le Cancellerie europee, in particolare quella britannica, utilizzavano l’espressione “la Questione d’Oriente” per riferirsi alla politica che i rispettivi governi conducevano verso l’impero ottomano. Dietro il sintagma, apparentemente neutro, di una questione considerata in Occidente pregiudizialmente orientale, si veicolava l’idea che i problemi interni allo spazio geopolitico amministrato dalla Sublime Porta, ormai in declino, potessero essere risolti solo con il concorso ( e a beneficio) delle Potenze europee.

Il dibattito sulla “questione d’Oriente” e soprattutto le azioni volte a “risolverla” celavano un preciso disegno strategico: quello di estendere l’influenza del Vecchio Continente su alcuni territori ottomani. Le Potenze europee, con in testa la Gran Bretagna, miravano, infatti, a scardinare dal di dentro l’ecumene ottomana. Facendo leva sulle tensioni interne, vellicando e sostenendo, ad esempio, i particolarismi nazionali in Bulgaria, in Romania e nella penisola balcanica (Albania, Serbia, Montenegro, Grecia), vero “ventre molle” dell’impero, e perfino intervenendo nelle dispute tra Istanbul ed alcuni suoi governatori e viceré, come nel caso dell’Egitto di Mehmet Alì, le Potenze europee riuscirono, nel corso di quasi un secolo, a erodere gran parte dell’”estero vicino” dell’edificio geopolitico ottomano. La Questione d’Oriente venne risolta, come noto, solo al termine della Prima guerra mondiale. Con la dissoluzione dell’Impero e la sua spartizione tra le Potenze vincitrici, apparve chiaro che quella “d’Oriente” era in primo luogo una “questione dell’espansionismo inglese” nel Vicino e Medio Oriente; l’espressione indicava un vecchio progetto britannico: l’eliminazione dell’Impero ottomano.

Anche quella palestinese è una questione tutta occidentale. Essa comprende, ed occulta, almeno cinque “sottoquestioni” che possiamo, per comodità metodologica, suddividere in due gruppi, uno storico, databile dal 1881 al 1948, ed uno contemporaneo che va dall’autoproclamazione dello stato sionista, avvenuta il 14 maggio 1948, sino ai nostri giorni. Le due questioni storiche riguardano:

- una “questione ebraica” o del “sionismo pre-statale” (1), relativa alle prime immigrazioni ed ai primi insediamenti di Ebrei - provenienti dall’Europa - in Palestina (1881-1903);

- una “questione inglese”, relativa alla penetrazione economica, politica e militare della Gran Bretagna nel Vicino Oriente (1922-1948).

Mentre quelle contemporanee concernono:

- una “questione sionista” – fondata sul mito laico e religioso ad un tempo della Terra Promessa - che riguarda i seguenti tre ambiti: a) la politica demografica attuata (2) con le ricorrenti ondate immigratorie (1904-2009); b) la costruzione dell’apparato statale e del complesso militare e industriale israeliano (3); c) le relazioni dei vertici dello stato ebraico con le organizzazioni internazionali pro-israeliane presenti in Europa e in special modo negli USA (4).

- una “questione israeliana” relativa: a) alla costruzione dell’identità “nazionale” israeliana e di una “religione civile nazionale” imperniata sull’olocausto (5); b) al consolidamento dell’apparato culturale, statale e del complesso militare e industriale israeliano, c) alla “pulizia etnica” a danno della popolazione palestinese (6); d) all’espansionismo dello stato ebraico strategicamente volto a realizzare, secondo l’augurio di uno dei padri fondatori, Ben Gurion, “il grande Israele, dal Nilo all’Eufrate”.

- una “questione statunitense” concernente la penetrazione economica, politica e militare degli USA nel Mediterraneo e nel Vicino e Medio Oriente, imperniata sulla sua special relationship con Tel Aviv (7).

In termini geopolitici, l’espressione “questione palestinese” nasconde anch’essa, dunque, come quella d’Oriente, un progetto ben definito: quello dell’ eliminazione ed espulsione dei Palestinesi dalla loro terra, quale precondizione per l’esistenza e l’espansione dello stato ebraico.

Palestina provincia dell’Impero ottomano

Per un lungo periodo storico che copre sostanzialmente l’intera età moderna e parte di quella contemporanea, la Palestina non costituisce uno specifico caso geopolitico. Infatti, per la ragguardevole durata di circa quattro secoli, a far data dalla sua inclusione nell’Impero ottomano a danno dei Mamelucchi, cui viene sottratta nel 1517, fino alla Dichiarazione Balfour del 1917, la Palestina è una provincia la quale, grazie alla stabilità che Istanbul assicura a tutta l’ecumene imperiale, conosce un grande sviluppo economico, sociale e culturale.

In questo considerevole arco temporale, le uniche tensioni che la riguardano e degne di essere segnalate non durano neanche una decina di anni, esattamente dal 1831 al 1840, quando essa cade sotto il controllo egiziano, a causa di una controversia sorta tra il sultano Mahumud II e pascià Mehmet Alì d’Egitto. La disputa, relativa ai territori siriani (comprendenti Palestina, Transgiordania, Libano e Siria) che il futuro sovrano egiziano reclamava quale compenso per l’aiuto offerto alla Sublime Porta in occasione della guerra contro la Grecia (1821), viene ricomposta nel 1840, dopo la morte del sultano, per l’intermediazione di Prussia, Austria, Russia e Gran Bretagna con la Convenzione di Londra.

Immigrazione ebraica

Sebbene sia giusto, per un corretta analisi geopolitica della Palestina contemporanea, partire dagli Accordi Sykes – Picot ( 16 maggio 1916) dalla Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917) e dal Trattato di Sévres (10 agosto 1920), occorre però ricordare il fondamentale ruolo svolto dai flussi immigratori e dagli insediamenti ebraici di fine ottocento nel determinare le successive tensioni locali e parte della attuale prassi espansionista dello stato sionista.

Nel 1880 la comunità ebraica in Palestina è poco consistente, essa conta circa 24.000 individui. Ma a partire proprio da quell’anno un considerevole flusso di ebrei provenienti principalmente dall’Europa centrale e orientale (Germania e Russia) si dirige verso la Palestina. La crescente immigrazione ebraica, l’acquisto di terre ed edifici da parte di ebrei europei in uno specifico territorio dell’Impero ottomano preoccupano la Sublime Porta tanto da spingerla, nel novembre del 1881, ad emanare alcune misure restrittive relative ai nuovi insediamenti ebraici in Palestina. Le norme stabilivano che gli Ebrei immigrati avevano il diritto di istallarsi in tutto il territorio dell’impero, fuorché in Palestina, al fine di non stravolgere gli equilibri demografici locali e, soprattutto, di non costituire un potenziale elemento di tensione in una provincia ottomana, considerata delicata a ragione del suo significato simbolico e religioso per i credenti delle tre religioni monoteiste. Tuttavia, il sostegno di alcuni paesi europei all’immigrazione ebraica in Palestina e la crescente affermazione del sionismo come movimento internazionale organizzato, associandosi all’inefficienza dell’amministrazione ottomana nel controllare ed impedire i flussi immigratori, inficiano la politica di contrasto all’immigrazione ed all’insediamento ebraico. In meno di trenta anni, dal 1880 al 1908, la popolazione ebraica passa da 24.000 a circa 80.000 unità, cioè, come riporta lo storico Robert Mantran (8), dal 5% al 10% dell’intera popolazione presente in Palestina.

L’immigrazione ebraica in Palestina prosegue in modo sorprendente sotto il mandato inglese (1922–1948), intensificandosi dal 1948 fino ai nostri giorni. Attualmente la popolazione ebraica in Palestina è stimata essere tra i 5.500.000 e i 6.000.000.

Il temuto stravolgimento demografico paventato dalla Sublime Porta si è avverato con conseguenze catastrofiche per le popolazioni locali: i palestinesi autoctoni vengono progressivamente privati della loro terra e in gran parte espulsi dai territori del neostato ebraico.

Nel 1951, secondo fonti ONU (General Progress Report and Supplementary Report of the United Nations Conciliation Commission for Palestine) il numero di Palestinesi espulsi assommava a 711.000 unità; oggi la cifra dei palestinese con statuto di profughi (9) è pari a circa 4.600.000.

La Palestina nel sistema bipolare

Negli ultimi anni del mandato britannico, nel nuovo quadro geopolitico venutosi a formare in seguito agli esiti della Seconda guerra mondiale, la Palestina diventa un obiettivo strategico sia degli USA che dell’URSS. Washington e Mosca (10), per motivi diversi ma finalità concorrenti, sostengono pertanto la creazione, il consolidamento e l’espansione del neostato sionista. I nuovi colossi mondiali intendono, infatti, tramite il “dispositivo” israeliano, estendere la propria influenza nel Vicino Oriente.

Stalin ritiene, in un primo tempo, all’incirca dal dicembre 1947 al settembre-ottobre dell’anno successivo, che uno stato ebraico virtualmente “socialista” e soprattutto antibritannico, impiantato nel Mediterraneo, sia utile agli scopi della rivoluzione mondiale in generale e dell’URSS in particolare. Di lì a breve, tuttavia, il Cremlino cambia repentinamente opinione. Il mutamento dell’URSS nei confronti del nuovo stato degli Ebrei si manifesta infatti già negli ultimi mesi del 1948, all’arrivo a Mosca del primo ambasciatore israeliano, Golda Meir. Il lavoro diplomatico della Meir e dei suoi successori, Mordechai Namir (Nemirovskji) e Shmuel Eliashiv, avevano reso palese la fitta rete di interessi tra i vertici dello stato ebraico, alcuni importanti dirigenti sovietici prosionisti, prevalentemente di origine ebraica, e i sionisti statunitensi artefici della special relationship instauratasi tra Tel Aviv e Washington. I rapporti tra Mosca e Tel Aviv si deteriorano ulteriormente negli anni successivi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel febbraio del 1953 (11).

Per Stalin, dunque, il rafforzamento dello stato ebraico in Palestina a danno degli Arabi, si configurava effettivamente per quello che era: un tassello della strategia del containement ed un rafforzamento dell’influenza statunitense nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente.

Anche gli USA ritengono la Palestina, a motivo della sua posizione geografica, una importante base strategica destinata a controllare, insieme alla Grecia ed alla Turchia, che aderiscono alla NATO nel 1952, la parte orientale del Mediterraneo ed il Vicino Oriente. Per tale principale motivo, oltre che per le pressioni esercitate dalla Israel lobby sul Dipartimento di stato e sul Congresso, Washington sostiene Israele, ritenendolo l’alleato più fedele dell’intera regione. Il sostegno statunitense allo stato ebraico, a causa delle perturbazioni che la presenza di quest’ultimo suscita nelle masse arabe, ha anche il cinico fine di mantenere, con evidenti scopi ricattatori, in uno stato di tensione permanente alcuni Paesi arabi, principalmente l’Egitto, la Siria e la Giordania; uno stato di tensione che verrà, come vedremo in seguito, machiavellicamente sfruttato, ai fini della colonizzazione israeliana di ulteriori territori, nel giugno del 1967, quando le discussioni diplomatiche tra arabi e israeliani cedettero la mano alle armi.

Sebbene Israele sia un alleato ufficiale di Washington sin dal 1950, all’inizio della guerra di Corea, è con la crisi di Suez del 1956, e la partecipazione alla guerra contro Nasser, che lo stato israeliano si consacra, a dispetto delle intese intercorse tra Tel Aviv, Londra e Parigi, come partner insostituibile degli USA nel Vicino Oriente. Da quel momento in poi, le questioni geopolitiche palestinesi assumono un ruolo sempre più rilevante nell’ambito della politica estera statunitense e nelle dottrine geopolitiche che la determinano. Gli USA appoggiano il progetto espansionista e neocolonialista dello stato ebraico e di conseguenza anche la politica di espulsione degli abitanti non ebrei che i vertici israeliani perseguono con costanza e determinazione fin dal 1948. Al termine degli anni cinquanta, “Israele è integrata segretamente in un’alleanza geopolitica proamericana che comprende la Turchia, l’Iran e l’Etiopia” (12). Una chiara manifestazione del sostegno americano a Tel Aviv ebbe luogo nel 1967, in occasione della guerra dei sei giorni, quando israeliani e arabi si fronteggiarono militarmente.

Per il politologo Jean-François Legrain “la guerra arabo-israeliana detta dei ‘sei giorni’ (5-6 giugno 1967) si inserisce nel (…) progetto di espansione/espulsione. Una volta ancora, - nota lo stesso autore – la storiografia classica aveva sottolineato il carattere fondamentalmente difensivo di questa guerra. Alcune testimonianze rese pubbliche trenta anni dopo, tra cui quella dell’ ‘eroe’ israeliano, il generale Moshe Dayan (1915-1981), annullano questa versione ed evocano una politica israeliana deliberata di provocazione che aveva lo scopo di gettare gli Stati arabi in una guerra persa in anticipo che avrebbe permesso l’occupazione dei territori “ (13).

Dopo il 1967”, sottolinea Aymeric Chauprade, a proposito dei rapporti tra Israele e Stati Uniti, “gli Americani possono legittimamente considerare Israele come un atout di grande qualità nella guerra fredda. Il piccolo stato ebraico è diventato una vera potenza regionale che, per di più, ha dimostrato la capacità di colpire due alleati di Mosca (l’Egitto e la Siria) e di chiudere la rotta del canale di Suez, bloccando l’approvvigionamento sovietico a Hanoi” (14).

La stretta relazione che lega Washington e Tel Aviv si rafforza per tutto il periodo della Guerra fredda. In questo arco temporale la resistenza dei Palestinesi, rappresentati principalmente dalla Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), attraversa fasi alterne che non conducono a soluzioni definitive. Il cosiddetto “processo di pace” sponsorizzato degli USA si rivela una beffa per i palestinesi, le cui condizioni peggiorano sempre di più.

La Palestina nell’istante unipolare

Con il crollo del Muro di Berlino ed il collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti, ormai unica potenza incontrastata a livello planetario, impongono un nuovo ordine globale che prevede, in primo luogo, la organizzazione del Vicino e Medio Oriente. Le tappe principali del riordino statunitense sono: la Guerra del Golfo (1990-1991), l’occupazione dell’Afghanistan (2002) e l’aggressione all’Iraq (2003). Successivamente, nel 2004, gli strateghi neocon di Washington inseriscono il Vicino e Medio nell’ambito di un progetto ben più ambizioso denominato Grande Medio Oriente. Questo progetto, che ripropone alcune linee strategiche manifestatesi intorno al 1975, nell’ambito degli Accordi di Helsinki, prevede la “balcanizzazione” di una vasta area che va dal Marocco fino alle repubbliche centroasiatiche, vale a dire la sua riorganizzazione lungo frontiere etnico-confessionali. Con tale progetto geopolitico, Washington intende contenere la nuova Russia di Putin, accaparrarsi le risorse energetiche in Asia centrale e mantenere in uno stato di tensione e ricatto permanenti – nel quadro della dottrina dello scontro di civiltà – gran parte delle popolazioni eurasiatiche. In questo quadro di riferimento, per la Palestina è prevista la soluzione detta dei “due stati”, uno israeliano, che occuperebbe la quasi totalità del territorio palestinese ed uno – a sovranità limitata e privato delle risorse idriche - guidato dall’Autorità Nazionale Palestinese.

Tale soluzione, qualora si realizzasse, renderebbe formalmente ufficiale il processo di “bantustanizzazione” già in atto dal lontano 1948, con la conseguenza di acuire ulteriormente, col passar del tempo, le tensioni tra la popolazione palestinese e lo stato colonialista ebraico.

In realtà il disegno strategico di Tel Aviv sembra mirare piuttosto all’espulsione totale delle popolazioni non ebraiche residenti in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. I Palestinesi espulsi, secondo tale progetto, dovrebbero far parte di una Confederazione giordano-palestinese (15).

L’era multipolare: Palestina provincia d’Eurasia

Nel nuovo sistema multipolare, escludendo l’ipotesi di un’azione militare condotta da Israele e dagli USA contro l’Iran, difficilmente i progetti israeliani di espulsione e di ampliamento della sovranità di Tel Aviv sulla Cisgiordania e sulla striscia di Gaza potranno realizzarsi; giacché, oltre gli attori principali dell’area in questione, Turchia, Giordania, Siria, Egitto, ed Iran, occorre considerare anche quelli globali, cioè la Russia e la Cina. Mosca e Beijing hanno tutto l’interesse a contenere l’espansione di Israele e ad impedire il suo radicamento nel Vicino Oriente. Un Israele militarmente ed economicamente forte costituirebbe, per le due potenze eurasiatiche, nel medio periodo, una reale minaccia strategica, stante la stretta relazione che lega Tel Aviv a Washington e l’influenza della Israel lobby nella conduzione della politica estera statunitense. Israele, infatti, oltre a costituire un punto nodale del progetto denominato Nuovo Grande Medio Oriente, teso ad assicurare il predominio nordamericano nell’intera area, ambisce a diventare l’unica potenza regionale. Per tale principale ragione, lo stato ebraico ostacola e perturba le relazioni che pazientemente la Federazione russa e la Repubblica popolare cinese, in una prospettiva di integrazione eurasiatica, intessono e sviluppano con gli altri attori regionali, in particolare con la Turchia di Erdogan, l’Iran di Ahmadinejad e la Siria di Bashar al-Asad. Il consolidamento e l’ulteriore sviluppo di tali relazioni, segnatamente sul versante della difesa e della sicurezza regionali, costituirebbero un realistico e promettente inizio per la soluzione delle questioni sorte con la creazione dello stato ebraico, cioè per il ritorno della Palestina, quale provincia d’Eurasia, nell’alveo di un contesto geopolitico unitario.

Note

1. Eli Barnavi, Storia d’Israele, Bompiani, Milano 2005, p. 138.

2. Fréderic Encel, François Thual, Géopolitique d’Israël, Édition du Seuil, Paris, 2006, pp. 23-25.

3. Diana Carminati, Alfredo Tradardi (a cura di), Boicottare Israele, Derive Approdi, Roma 2005.

4. John J. Mearsheimer, Stephen M. Walt, La Israel Lobby e la politica estera americana, Mondadori, Milano 2007.

5. Secondo Bruno Guigue, la ”resurrezione dell’olocausto”, manifestatasi nella seconda metà degli anni settanta del secolo scorso, costituì un avvenimento culturale di primaria importanza per rafforzare i già stretti legami tra Washington e Tel Aviv ed influenzare ulteriormente l’opinione pubblica statunitense a favore di Israele, Aux origines du conflit israélo-arabe. L’invisible remords de l’Occident, L’Harmattan, Paris 2008, p. 135-139. Per Norman Finkelstein, controverso autore de L' industria dell'Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Rizzoli, Milano 2004, invece, il tema dell’olocausto divenne uno strumento di pressione e propaganda a sostegno di Israele subito dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967.

6. Ilan Pappe, La pulizia etnica dei palestinesi, Fazi Editore, Roma 2008.

7. Per l’orientalista francese di origine ebraica, Maxime Rodinson (1915-2004), l’insediamento della colonia ebraico-sionista e la formazione dello stato di Israele nel 1948 sono il risultato “di un processo che si inserisce perfettamente nel grande movimento dell’espansione europeo-americana dei secoli XIX e XX per popolare o dominare economicamente e politicamente gli altri popoli”, citazione tratta da Serge Cordellier (a cura di), Le dictionnaire historique et géopolitique du 20e siécle, La Découverte, Paris 2007, p. 574. Per un approfondimento del pensiero di M. Rodinson riguardo alla questione israeliana vedere il suo Israele e il rifiuto arabo, Einaudi, Milano 1969.

8. Robert Mantran, Storia dell’impero ottomano, Argo, Lecce 2000, p. 588.

9. Dati dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, UNRWA, consultabili presso il sito internet ufficiale: http://www.un.org/unrwa.

10. Gli USA riconoscono Israele de facto, appena “dieci minuti dopo la proclamazione dello Stato, quando a Washington era passata la mezzanotte”, (cfr. Leonid Mlecin, Perché Stalin creò Israele, Sandro Teti editore, Roma 2008, p. 128) , il riconoscimento de jure avverrà nel gennaio del 1949. Mosca riconosce lo stato sionista il 18 maggio, quattro giorni dopo l’autoproclamazione della nuova entità statale.

11. Sui complessi rapporti tra Stalin, il movimento sionista e Israele si rimanda a Leonid Mlecin, op.cit.

12. Aymeric Chauprade, Chronique du choc des civilisations, Éditions Chronique-Dargaud s.a., Pèrigueux 2009, p. 143.

13. J.-F. L. (Jean François Legrain), Question palestinienne, in Serge Cordellier (a cura di), op.cit., p. 575.

14. Aymeric Chauprade, op. cit., p. 143.

15. Benny Morris, Due popoli, una terra, Rizzoli, Milano 2009, pp. 190-197