Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Storia: senso e non-senso

Storia: senso e non-senso

di Franco Cardini - 10/09/2009

 

Le due torri di Manhattan, nuove meraviglie del Mondo, al suolo; il Pentagono - antica figura iniziatica che architetti non digiuni di cognizioni esoteriche (ma tutta la pianta urbana di Washington è esoterica) proposero come centro dei Nuovi Signori della Terra e Guardiani della Pace Universale - in fiamme; venti di guerra e di follia che soffiano dall’Atlantico all’Oceano Indiano, e antichi inveterati pacifisti, ex-stigmatizzatori delle crociate medievali, che ora sorgono tutti a chiedere la guerra e pontificano di “guerra giusta” e di “guerra santa”; l’ombra fiabesca e terribile del Veglio della Montagna che s’allunga su un Occidente che ha di nuovo individuato il suo nemico metafisico (dopo il nazismo e il comunismo, tocca ora all’Islam) e può tornar a parlare d’Impero del Male. E’ la trama di un film alla Independence Day, oppure un incubo dal quale non riusciamo a svegliarci?

L’11 settembre del 2001 ha “cambiato il mondo”, come si continua a dire. Veramente, non so fino a che punto sia prudente parlare di queste cose. Non tanto - e non solo - perché in questo libero e pacifico Occidente, così moderato, razionale e tollerante, è facile guadagnarsi la patente di Nemico dell’Umanità; quanto - e soprattutto - perché sto buttando giù queste righe in una mattina di metà settembre: e mi chiedo che cosa potrebb’esser accaduto da qui ad alcune settimane, quand’esse vedranno la luce, se la vedranno.

Qualche anno fa, mister Francis Fukuyama - uno “studioso” molto vicino al centro del potere della Prima e Unica Potenza del Mondo - ci aveva dottamente spiegato come fossimo ormai “usciti dalla storia”, finalmente realizzando il sogno e l’aspirazione rispetto alla quale avevano fallito cristianesimo e marxismo. Il libero Occidente aveva ormai creato il migliore dei mondi possibili, e ormai altro non c’era da fare se non amministrare la raggiunta perfezione liberal-liberista.

Veramente, che questo fosse un mondo così bello come i nipotini del Dottor Pangloss ci assicuravano, a noi poveri e comuni mortali non sembrava: pensavamo alla gente che muore di fame o di guerre selvagge e dimenticate dall’America latina all’Africa, alle centinaia di migliaia di bambini deceduti in Iraq negli ultimi anni (i dati ufficiali dell’ONU parlano chiaro: e fanno raccapriccio) per mancanza di cure e di medicinali in conseguenza di un embargo del quale ci siamo perfino dimenticati le ragioni; e ci ripetevamo che forse mister Fukuyama non ce la contava giusta.

Ora abbiamo la certezza, nel bene e nel male, ch’egli si sbagliava: e che la sua tesi fosse in realtà - come splendidamente l’ha definita Massimo Cacciari su “Il Corriere della sera - Sette” del 20 settembre - una “idiozia da giapponese benestante”. Il che c’induce a riflettere con ancor maggior rigore di quanto fino ad oggi non si sia fatto sulla realtà del divenire storico e sulla sua natura, sulla sua struttura.

Non è in realta solo l’11 settembre del 2001 ad aver cambiato il mondo. Che la storia sia soggetta ad accelerazioni e a rallentamenti, e che vi siano momenti nei quali la sua struttura profonda, che si muove nella madia o magari perfino nella lunga durata, viene sconvolta dall’irrompere dell’avvenimento che provoca - o che rivela - l’emergenza; insomma ch’essa sia dominata dal conflitto tra continuità e discontinuità, fra processo dinamico ordinato e rottura, fra struttura e irruzione dell’emergenza: insomma, tutto ciò, piu che un dato di fatto è un’illusione prospettica. In realtà, non v’è istante della storia che non sia con maggiore o minore intensità ed evidenza decisivo; non v'è momento che non ne modifichi imprevedibilmente il corso, che non sia soggetto all’effetto della risultante di molte linee componenti. I condizionamenti ambientali e geostorici, il peso del passato, le intenzioni e le scelte di singoli uomini o di gruppi umani del tipo e dell’entità più varia; e infine, forse soprattutto, l’imprevisto-imprevedibile, l’Imponderabile di Vilfredo Pareto, quello che secondo la Bibbia i maghi di Faraone, dinanzi ai miracoli di Mosè che vincevano i loro prodigi, chiamavano Ezbà Elohim. Il Dito di Dio.

Non ci occuperemo qui del senso trascendente della storia, del suo senso nascosto, perché non siamo teologi e perché questo numero ad altro è dedicato. Qui, c’interessa la crisi (di trasformazione? di crescita? di morte?) della “storia degli storici”, di quella alla quale si era abituati ad attribuire da circa due secoli una “ragione” e un “senso”. Vorremmo comprendere un po’ meglio, e aiutare a far comprendere, se, come e perché sia ancora possibile una storia intesa sia come scienza oggetto di sistematica ricerca e di sapere metodologicamente ordinato, sia come disciplina di studio e di formazione per i giovani e i giovanissimi.

Troppo spesso, in passato, le varie forme dello storicismo hanno trasformato la ricostruzione storica del passato in una specie di “profezia post eventum”: tutto quel ch’era accaduto, lo era perché doveva accadere e doveva accadere perché era accaduto. Con tali premesse, e seguendo una logica di questo tipo, era anche facile posizionarsi nella mappa del tempo, e decretare che questo era giusto perché nel “senso” della storia, e che quest’altro non si poteva né fare, né dire, né pensare, in quanto contrario al senso e al vento della storia. E magari, prendendo a prestito categorie pensate per la scienza e per la tecnica, si poteva parlare di “progresso” e di “regresso”; e decretare che questo “portava avanti” e quest’altro invece “faceva retrocedere” le “lancette della storia”. Il problema, oggi, è proprio questo: è ancora possibile pensare alla storia come a un orologio? E, se lo è, si tratterà dell’orologio del Big Ben, di quelli di Salvador Dali che si sciolgono al sole o di quelli, angosciosamente senza lancette, del “sogno del professore” ne Il posto della fragole di Ingmar Bergman?

Il libro fondamentale di Reinhart Koselleck Vergangene Zukunft (“Futuro passato”), del 1979, proponeva già oltre un ventennio fa una riflessione sulla modernità come tempo in cui era possibile concepire una continua autorigenerazione del presente e pensare al futuro come a un luogo di “attese” concepite come realisticamente in grado di realizzarsi; e quindi sul momento che allora si cominciava ad attraversare, e dal quale non siamo forse ancora usciti, come luogo nel quale l’esperienza del passato vedeva restringere progressivamente il suo valore sia nel campo dell’etica che in quello delle prospettive analogiche e del calcolo delle probabilità, e nel quale pertanto riesce difficile attendere e sperare qualcosa di preciso dal futuro. Con molta lucidità, Remo Bodei ha spiegato al riguardo - prefacendo l’edizione italiana del libro Modernus di Walter Freud - che “perdendo il suo carattere esemplare, il passato ci sostiene sempre meno nelle nostre scelte e previsioni, il presente ci sfugge, le attese e le speranza sono indotte a rivolgersi a un avvenire indeterminato o utopico”, e che pertanto, “se il concetto di postmoderno ha un senso, questo va cercato nel progressivo svuotamento dell’idea di Neuzeit, di modernità come tempo capace di rigenerarsi incessantemente e di futuro come luogo di attese realizzabili”.

Siamo usciti quindi dall’era non diciamo delle certezze, ma quanto meno dalla progettazione di esse, dall’era delle ideologie. L’Occidente, a partire dal Sei-Settecento, ha rinunziato - unica forse fra le culture espresse dal genere umano nella sua storia plurimillenaria - a conferire un senso al cosmo e alla vita. Era necessario, proprio per legittimare questa rinunzia, mantenere almeno il conferimento di un senso alla storia: l’Occidente non ha potuto o non ha saputo farlo. E’ prima approdato, nell’effimera età delle ottimistiche certezze fin de siecle, all’improbabile uscita liberal-liberista dalla storia stessa; e quindi, nell’angoscia per la fine di questa breve folle illusione, ha riscoperto - per ora nell’Islam - il nuovo Nemico Metafisico. Quel che non sembra riuscir a fare, è il rispecchiarsi nella realtà del disincanto e ammettere che la storia non ha, non può avere alcun senso immanente. Non pretendiamo di soccorrerlo su questa via. La nostra è solo una concordia discors, la raccolta d’una pluralita di nonconformiste e periferiche testimonianze. Il coro sta cantando qualcosa d’incomprensibile: ma il volume della sua possente voce è molto alto. Noi siamo deboli voci fuori dal coro. Ma può darsi che vi sia ancora qualcuno disposto a tender orecchio.