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Gli inizi della filosofia in Grecia

di Sofia Ranzato - 10/09/2009

Questo libro nasce come risposta a una domanda. In seguito alla partecipazione al convegno organizzato a Lille da André Laks nel 2000 Qu’est-ce que la philosophie présocratique? What is Presocratic Philosophy? l’autrice si è chiesta: fino a che punto il pensiero cosiddetto “presocratico”  può considerarsi “filosofia” e, quindi, in che misura si può dire che da questo pensiero nasca la filosofia? (p.12). Sassi risponde a questo complesso quesito, seguendo, nell’arco dei cinque capitoli di cui il libro si compone, diversi percorsi di ricerca che conducono a tracciare un quadro dei Presocratici estremamente ricco e sfaccettato.

La sua posizione sulla questione viene peraltro dichiarata già nelle pagine introduttive: opponendosi, infatti, a chi – come Lloyd, Gemelli Marciano e Nightingale – nega un carattere filosofico all’attività intellettuale dei Presocratici sulla base del fatto che la filosofia non acquisterebbe una sua autonomia prima di Platone, l’autrice accoglie sostanzialmente, anche se non in forma acritica, il disegno che Aristotele traccia nel primo libro della Metafisica, considerando Talete come “padre della filosofia”. Nei pensatori di Mileto, infatti, per la prima volta, la ricerca sulla natura si accompagna a una motivazione critica rispetto alla tradizione (pp. 13-14). Da qui si avvia la pista di ricerca che l’autrice segue nel corso del primo capitolo.

Come premessa al suo ragionamento, Sassi mette in evidenza il lungo processo storico che ha portato alla definizione della categoria dei “Presocratici”: la sua individuazione originaria si trova già in Aristotele, per poi essere ampiamente diffusa in forma popolarizzata grazie all’opera di Diogene Laerzio e venire infine riformulata, per soddisfare forti esigenze di periodizzazione, da Hegel e da Zeller nella prima metà del XIX secolo (p. 29). Nonostante la messa in discussione di tale impostazione in tempi recenti, sulla base di una tendenza antistoricistica, essa gode ancora di una sua validità. L’obiettivo dell’autrice non è dunque scardinare l’inquadramento di questi autori, quanto chiedersi che cosa venga prima dei Presocratici, da dove – per intendersi – vengano fuori Talete e i suoi immediati successori.

E così, già a partire da questo capitolo, possiamo apprezzare il  peculiare metodo di lavoro dell’autrice, uno degli aspetti più interessanti di questo libro. La risposta alla domanda si articola attraverso lo scioglimento di due nodi problematici: da un lato viene ripreso il problema del rapporto tra mythos e logos nell’opera dei Presocratici, dall’altro si considera se e in quale misura le prime espressioni di pensiero filosofico in Grecia attingano a tradizioni del mondo orientale. Anche tali questioni hanno una loro storia che l’autrice ci presenta isolando e approfondendo le tappe utili allo svolgersi del suo ragionamento. In particolare, viene analizzata l’opera di studiosi che, come Cornford – nella prima metà del secolo scorso – e Burkert – in anni più recenti – hanno dato un contributo fondamentale a un approccio antropologico allo studio dei primi filosofi, teso a metterne in evidenza il debito nei confronti di un sapere mitico tradizionale fortemente influenzato dalle culture del Vicino Oriente. Sassi, peraltro, critica le analisi dei due studiosi in quanto guidate da quella che lei definisce un’«ossessione di continuità» (p. 47). Pur non negando affatto il debito e la continuità del pensiero presocratico rispetto a queste tradizioni, ella sostiene che sarebbe «opportuno chiedersi come essi abbiano trasformato le influenze orientali, articolandole in costellazioni di pensiero in cui gli elementi derivati possono avere assunto un significato nuovo» (p. 45).

È a partire da queste premesse che l’autrice riconsidera il passo della Metafisica di Aristotele (I 3 983b 6-984a 2), in cui si traccia il profilo di Talete come iniziatore della filosofia e, cercando di estrarne dalla «potente griglia teorica […] qualche informazione utile in sede di ricostruzione storica» (p. 56),  giunge a delineare una prima immagine dell’opera del Milesio, ben distinta dalla tradizione precedente per la trasparenza espressiva, accompagnata a una riduzione dell’intervento del divino nella natura e a una possibile applicazione, per quanto embrionale, di una procedura di tipo empirico (p. 60). La rappresentazione che Aristotele fa di Talete nella Metafisica, inserendolo come primo rappresentante della sua storia della physiologia, sacrifica, peraltro, alcuni aspetti della sua attività intellettuale, come la partecipazione attiva alla politica della città e il suo comparire nel novero dei Sette Sapienti. A partire da questa considerazione, l’autrice mette in evidenza «il pluralismo di saperi e di stili di razionalità che caratterizza l’impresa intellettuale del VI e V secolo a.C.» (p. 65), cercando, tuttavia, a conclusione del capitolo, di delimitare l’ambito del sapere filosofico all’interno di questo campo fluido ed estremamente ricco di ricerche. Si tratta di un’attività intellettuale definita dalla fusione dell’interesse per «tutte le cose» ( A.A. Long, "The scope of early Greek philosophy", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, Cambridge 1999, p. 10) con una peculiare attitudine critica. Il primo elemento accomunerebbe questa nuova forma di sapere ai racconti mitici volti a rispondere ai medesimi problemi, mentre l’atteggiamento critico verso il sapere tradizionale e verso i contemporanei detentori di altro tipo di sapere accomunerebbe i filosofi ad altri pensatori dell’epoca, come, ad esempio, gli storici.

Nel secondo capitolo, il problema del rapporto tra il sapere dei primi Presocratici e la cultura mitica e tradizionale, in cui si inseriscono, permeabile alle influenze delle culture orientali, è circoscritta al campo della ‘filosofia delle cosmogonie’. Punto di partenza per una riflessione sulle cosmogonie nella cultura greca arcaica è ovviamente la Teogonia di Esiodo da considerarsi, secondo l’autrice – sulla scorta di Fränkel (H. Fränkel, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums. Eine Geschichte der griechischen Epik, Lirik und Prosa bis zur Mitte des fünften Jahrhunderts, München 1962) e Diller (H. Diller, Hesiod und die Anfänge der griechischen Philosophie, in “Antike und Abendland”, II, 1946, pp. 140-51) – come un documento importante della «preistoria della filosofia greca», in quanto prodotto «di una volontà  sistematica e di una riflessione innovativa» (p. 73). Rispetto a questo paradigma tradizionale del genere teogonico, le cosmogonie dei Presocratici, da Anassimandro in poi, si distinguerebbero perché, invece di spiegare l’assetto cosmico come esito di una successione di generazioni e conflitti divini che giustifica le prerogative divine presenti nella religione ufficiale, considerano l’ordine del cosmo come qualcosa di iscritto nella natura ab origine (p. 91). Scompare in questa cosmologia, che non ha più bisogno di fondarsi su di una cosmogonia, la presenza di personificazioni divine, «ma la natura stessa, pervasa da un qualche potere divino, ispira una reverenza tradizionalmente riservata al dio» (p. 82). Altro tratto distintivo apprezzabile nelle cosmogonie dei Presocratici è l’‘attitudine critica’ che porta a discutere le opinioni altrui su diverse questioni – come il principio del divenire o la stabilità della terra – e a contrapporvi la propria. Attraverso tale atteggiamento si alimenta una «consapevolezza crescente di determinati problemi e delle relative procedure di indagine, dall’analogia all’inferenza, dall’applicazione di meccanismi di polarità alla generalizzazione» (p. 106). L’autrice, anche in questo capitolo, utilizza in maniera critica considerazioni di altri studiosi per la costruzione del suo ragionamento, come l’analisi della cosmologia di Anassimandro in rapporto alle cosmogonie mitiche, che Vernant ha fatto in Les Origines de la pensée grecque (1962) e il dibattito sul metodo scientifico dei Presocratici avviato da Popper nel ’58-’59 (K.R. Popper, Back to the Presocratics, in “Proceedings of the Aristotelian Society”, XILX, 1958-1959, trad. it. Ritorno ai presocratici, in K.R. Popper, Il mondo di Parmenide. Alla scoperta della filosofia presocratica, a cura di Fabio Minazzi, Casale Monferrato 1998).

Nel terzo capitolo, l’autrice segue il processo di formazione del sapere filosofico considerandone le modalità di composizione, fruizione e diffusione. La scelta della messa per iscritto del testo sarebbe da ricondursi a un graduale desiderio di affermazione personale da parte dell’autore in una società “calda” – secondo una definizione risalente a Lévi Strauss – come quella greca, «portata fin dai suoi inizi a pensare il passato in funzione dell’innovazione» (p. 114). La forma in cui i testi sono stati scritti può darci, del resto, indicazioni sul contesto e sul modo in cui dovevano essere recepiti: se, ad esempio, la ricezione avvenisse attraverso l’ascolto di recitazioni orali in feste o simposi o, piuttosto, attraverso la lettura  anche ad alta voce all’interno di una cerchia più ristretta di persone. Sassi, sulla scia di studiosi come Lloyd e Vernant, considera il sapere di questi pensatori come strettamente inserito nella vita delle poleis nascenti, e analizza il rapporto tra il testo – peraltro di limitatissima estensione – di Anassimandro e altre forme di discorso scritto in prosa che si stavano affermando in quel periodo: i trattati degli architetti e soprattutto la scrittura legislativa rispetto a cui l’autrice vede forti punti di contatto. E proprio a partire da questa considerazione e dall’idea che Anassimandro abbia tracciato la prima carta geografica della terra abitata come “strumento di informazione geopolitica”, l’autrice formula delle ipotesi – forse un po’ audaci, considerato ciò che possiamo ricavare dalle fonti antiche – sul pubblico e sul modo in cui l’opera del Milesio doveva essere stata interpretata. L’autrice sostiene, infatti, che non solo la relazione tra gli opposti del cosmo sarebbe stata modellata sui conflitti interni alla polis, ma che tale quadro di un cosmo retto da un “equilibrio dinamico”, assicurato da leggi adeguate, potesse rappresentare un modello sulla base del quale amministrare la città. Tale modello sarebbe stato presentato da Anassimandro ai cittadini di rango elevato, nel contesto di riunioni ristrette, magari in incontri conviviali.
Molto interessante appare l’analisi del testo di Eraclito e dei suoi rapporti con i discorsi iniziatici, con quelli oracolari, con quelli legislativi e con i detti morali. L’autrice discute quindi sulla scelta del sapiente – testimoniata da Diogene Laerzio – di depositare il suo libro come dono votivo nel tempio di Artemide a Efeso. Questa copia scritta, conservata in un luogo comune come il tempio, può forse averne favorito la circolazione al di fuori della Ionia. In questo modo, come è testimoniato dall’uso che del testo di Eraclito fa il commentatore del Papiro di Derveni sul finire del V secolo, «la scrittura non assicura solo la fissazione del pensiero, ma anche la possibilità che questo esca dagli spazi della città in cui pure si è nutrito e si libri altrove: per altri lettori, per nuove letture» (pp. 163-164).

Nel quarto capitolo l’autrice si chiede in che modo e in quale misura lo studio cosmologico, nei Presocratici, si accompagni a un discorso sull’anima individuale e a una teoria della conoscenza. Accoglie quindi la distinzione teorizzata da Gábor Betegh (G. Betegh, Escatology and Cosmology. Models and Problems, in M.M. Sassi (a cura di), La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, Pisa 2006, pp. 27-50) tra due modelli della relazione anima-cosmo: il portion model e il journey model (p. 175). Il “modello particellare” deriva dalla concezione tradizionale – attestata già a partire dai poemi omerici – dell’anima come soffio vitale, principio di vita, e si trova alla base delle concezioni di Anassimene e di Eraclito, secondo i quali «l’anima è identificata come una porzione di quel materiale […] cui è assegnata la prerogativa di principio cosmico» (p. 175). Sulla base di questo principio, l’Efesio per primo ha individuato nell’anima anche il centro delle operazioni cognitive (p. 170): la conoscenza si spiegherebbe in termini di interazione con l’ambiente cosmico. Questa concezione dell’anima come parte del cosmo, secondo l’autrice, inibisce «lo sviluppo di un senso di identità personale» (p. 176), che sarebbe invece favorito dall’altro modello di rapporto anima-cosmo, quello che Betegh definisce come journey model. Nella filosofia pitagorica, infatti, attraverso la formulazione della teoria della metempsicosi, viene valorizzata la funzione intellettuale della memoria estesa alle vite precedenti, cui si accompagna, nella tradizione orfica, un’attenzione verso un senso di responsabilità morale (in rapporto a una colpa originaria), che contribuiscono decisamente all’articolazione di un concetto di identità personale. In tale modello, peraltro, comune a correnti culturali e religiose che tendono a vedere il corpo come un ostacolo al progresso intellettuale, non viene sviluppata alcuna analisi dell’interazione materiale tra anima e corpo o delle modalità processuali della conoscenza (p. 187). In Empedocle, del resto, – osserva l’autrice – prendono posto sia un’analisi delle operazioni cognitive come funzione del composto corporeo, che una teoria dell’immortalità dell’anima - o meglio del daimon da distinguersi dall’anima - con implicazioni di natura conoscitiva e morale. Ma, come ha osservato Kahn (C. Kahn, Religion and Natural Philosophy in Empedocles’ Doctrine of the Soul, in “Archiv für Geschichte der Philosophie”, XLII, 1960, pp. 3-35), Empedocle non riesce a colmare il gap tra questi due aspetti della sua riflessione. È solo nel Timeo di Platone che sembra verificarsi questa integrazione, attraverso la concezione di un’anima individuale, in parte di origine divina e immortale (composta dagli stessi costituenti dell’anima cosmica) e in parte nata dal contatto con il corpo nell’incarnazione, quindi addetta alle sensazioni e alle passioni (p. 199).

L’ultimo percorso che l’autrice segue per giungere a un’immagine complessa e sfaccettata di quelli che considera i “primi filosofi”, si rivolge al modo in cui questi pensatori tentano di costruire «immagini autolegittimanti che prendono forma in un gioco di appropriazione e/o negazione delle modalità comunicative della poesia» (p. 205). Il desiderio di presentarsi come detentori di un sapere nuovo li obbliga a mettersi in rapporto con figure tradizionali di sapienti e, in particolare, con i poeti, con il loro modo di accedere al sapere, attraverso il contatto con le Muse divine, e di presentarlo nella forma espressiva del poema esametrico. Nel corso del VI secolo, peraltro, si era andata affermando – come appare testimoniato anche dalla lirica – una forte consapevolezza della distanza tra conoscenza umana e quella divina. Tale considerazione aveva portato alcuni sapienti – tra cui Alcmeone, Senofane e, in una certa misura, anche Eraclito – a esortare gli uomini a cercare di raggiungere una visione del mondo che si avvicinasse il più possibile a una conoscenza veritiera della realtà sulla base della massima espressione delle potenzialità umane, sebbene limitate rispetto a quelle divine.

Diversa appare la scelta di due sapienti come Parmenide ed Empedocle che scelgono di esprimersi nella lingua tradizionale e nel metro dell’epica. Non a caso, infatti, in entrambi, l’autorevolezza del messaggio appare garantita da un rapporto privilegiato con il divino: in Parmenide quasi l’intero poema è occupato dal discorso di una dea al sapiente, mentre in Empedocle si ritorna all’invocazione – anche se presentata in termini del tutto nuovi – alla Musa. In entrambe le opere, del resto, secondo l’autrice, si sovrapporrebbero a questa presentazione del sapere in termini tradizionali, elementi di esperienza misterica e iniziatica, uniti a forme di riflessioni sulla natura e sulle modalità di conoscenza e di presentazione del ragionamento. Questo complesso di “razionalità multiple” – espressione che l’autrice riprende da Vernant (Mythe et pensée chez les Grecs. Études de psychologie historique, Paris 1965) – che caratterizza la figura arcaica del sapiente, verrà meno in un processo che attraverserà tutto il V secolo e che porterà a una specializzazione dei saperi, in cui il genere filosofico si caratterizzerà per il ricorso a un discorso in prosa che miri alla massima chiarezza espressiva.

Come si è potuto osservare dalle analisi dei singoli capitoli, uno degli aspetti più stimolanti di questo libro consiste nella “registrazione” della ricerca nel suo svolgimento dinamico. Il libro, infatti, prendendo le mosse da una singola domanda, ne apre moltissime altre e l’autrice, per cercare di rispondervi, segue diversi percorsi, mostrandosi aperta all’uso di numerosi strumenti interpretativi.

Ogni questione viene considerata nelle diverse forme che ha via via assunto nella storia degli studi. Attraverso questo percorso, l’autrice cerca di estrarre, sia dalle fonti antiche che dagli studi moderni – che non si limitano al campo strettamente filosofico, ma si aprono ad altri ambiti di ricerca come quello antropologico, storico e filologico-letterario – tutti gli elementi che le sembrano utili allo svolgimento del suo pensiero.

Sulla base di questo metodo l’autrice non trascura mai di considerare l’influenza che, sugli autori oggetto del suo esame, può avere esercitato il contesto storico nelle sue componenti politiche, religiose e culturali. Va del resto notato che il tentativo di definire questi sapienti come iniziatori di una diversa forma di attività intellettuale, quella filosofica, sulla base di quella che la stessa autrice definisce una preconcezione – per quanto minimale – della filosofia (p. 14), la porta a proporre, in alcuni casi, rappresentazioni che possono apparire come troppo nette di questi sapienti e del modo in cui venivano recepite le loro opere nella situazione di complessa fluidità dei saperi tipica dell’età arcaica, peraltro molto ben rappresentata in questo libro. Per giustificare la comune scelta di Parmenide ed Empedocle di ricorrere a elementi che sembrano porli in continuità con la tradizione epica, come il rapporto privilegiato con il divino e l’uso dell’esametro, l’autrice, per esempio, sostiene che i due sapienti aderiscano alla tradizione poetica per proteggersi dall’operazione “scandalosa” di rivelazione e spiegazione di un sapere “esoterico” – nel caso dell’Eleate – o dalle accuse di empietà dovute alla battaglia contro il rituale del sacrificio cruento – nel caso dell’Agrigentino. L’affermazione di questo rapporto tra un’ipotetica infrazione degli usi religiosi tradizionalmente condivisi e il conseguente appello alla tradizione epica come strumento difensivo sembra, peraltro, non sufficientemente supportata dalle fonti ed essere quindi mossa da un desiderio di definizione forse eccessivo, seppure ben comprensibile in una prospettiva filosofica, che nulla toglie all’interesse e al valore di questo libro.
 
 
Sassi, Maria Michela, Gli inizi della filosofia: in Grecia, Bollati-Boringhieri, Torino 2009, pp. 307, € 19