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«Tu hai fatto bene ogni cosa, il Sole, la Luna e il cielo stellato»

di Francesco Lamendola - 14/09/2009


L'uomo delle società moderne ha dimenticato un elemento essenziale della propria filosofia di vita: la gratitudine nei confronti dell'Essere.
Se si esaminano i canti e le preghiere delle società pre-moderne, si rimane colpiti dal rilievo che tale elemento occupa nel contesto della loro generale visione del mondo: si può dire che, per essi, era inconcepibile guardare allo spettacolo del mondo, senza sciogliere un inno di lode e di ringraziamento alla sua bellezza e, al tempo stesso, alla Sapienza cui esso deve la propria origine e il proprio splendore.
Si rimane colpiti, ad esempio, dal confronto tra il sentire degli Indiani d'America, così intimamente impregnato di spiritualità e di consapevolezza olistica, così profondamente religioso, così sensibile ai valori della bontà e perfezione del mondo di cui siamo parte, così rispettoso della terra e di tutte le sue creature, e quello dell'uomo che si autodefinisce civilizzato, e che ha condotto una implacabile guerra di sterminio contro i legittimi abitanti di quel continente: un sentire rozzo, materialista, che esalta le pulsioni più basse dell'ego e si compiace di ogni genere di violenza, raggiro e furberia, pur di accumulare ricchezza.
«La tua creazione è bella, o Wataineuwa», cantilenavano gli Yamana della Terra del Fuoco; anche se poi soggiungevano, pensosamente: «Ma perché c'è la morte?» (cfr. il nostro precedente articolo «La fede in Dio era il fondamento dell'educazione presso gli Yamana della Terra del Fuoco», inserito in data 18/0/2008 sul sito di Arianna Editrice). Né la consapevolezza della mortalità dell'uomo toglieva loro la capacità di vedere e apprezzare le meraviglie della natura e la dolcezza della vita: proprio a loro che, spinti dalle successive ondate migratorie nell'angolo più remoto e inospitale del continente americano, dovevano lottare duramente contro il clima e ogni sorta di difficoltà, per conquistarsi la sopravvivenza quotidiana.
Ecco: la rifondazione spirituale dell'uomo contemporaneo dovrebbe partire da qui: dalla capacità di godere l'incomparabile splendore del mondo e la dolcezza struggente della vita; e, al tempo stesso, dalla disponibilità a renderne gloria e lode a quella forza cosmica che, come dice Dante, muove il sole e l'altre stelle; a quell'Essere che ha tratto ogni cosa dal nulla e le ha conferito il dono impareggiabile dell'esistenza.
La cultura moderna, e ancor più quella post-moderna, sono imbevute di pessimismo e di nichilismo: ovunque esse scorgono il male di vivere, la sofferenza, l'angoscia, la morte come fine totale e come supremo annullamento dell'essere. Non c'è da meravigliarsi che i giovani, ormai, crescano con una visione tanto negativa della vita, e che non siano più nemmeno sfiorati da un pensiero di ringraziamento verso quest'ultima; tanto più, se si aggiunge al quadro il grossolano edonismo e il miope utilitarismo con i quali sembra che l'uomo del terzo millennio voglia esorcizzare le proprie paure, e mettere a tacere la propria ansia d'infinito e di eterno.
Il sentimento della gioia, della lode e del ringraziamento è stato magnificamente espresso nel Salmo 103 della Bibbia, che costituisce un autentico capolavoro di fede e di poesia da parte di quella umanità che, ancora tecnologicamente sprovveduta e ignara di sottigliezze dialettiche, sentiva tuttavia con forza il proprio legame originario con l'Essere.
Lo riportiamo qui di seguito, in latino: lingua solenne e suggestiva, che maggiormente ne esprime il mistico afflato e ne riflette l'estatica sensazione di stupore e di bellezza.

PSALMUS 103

Benedic, anima mea, Diomino: Domine, Fdeus meus, magnificatus es vehementer.
Confessionem, et decorem induisti: amicitus lumine sicut vestimento.
Extendens caelum sicut pellem: qui tegis aquis superiora ejus.
Qui ponis nubem ascensum tuum: qui ambulas supoer pennas ventorum.
Qui facis angelos tuos, spiritus: et ministros tuos ignem urentem.
Qui fundasti terram super stabilitatem suam: non inclinabitur in saeculum saeculi.
Abyssus, sicut vestimentum, amictus ejus: super montes stabunt aquae.
Ab increpatione tua fugient: a voce tornitrui tui formidabunt.
Ascendunt montes: et descendunt campi in locum, quem fundasti eis.
Terminum posuisti, quem non transgredientur: neque convertentur operire terram.
Qui emittis fontes in convallibus: inter medium montium pertransibunt aquae.
Portabunt omnes bestiae agri: expectabunt onagri in siti sua.
Super ea volucres caeli habitabunt: de medio petrarum dabunt voces.
Rigans montes de superioribus suis: de fructu operum tuorum satiabitur terra.
Producens foenum jumentis, et herbam servituti hominum.
Ut educas panem de terra: et vinum laetificet cor hominis.
Ut exhilaret faciem in oleo: et panis cor hominis confirmet.
Saturabuntur ligna campi, et cedri Libani, quas plantavit: illic passeres nidificabunt.
Herodii domus dux est eorum: montes excelsi cervis: petra refugium herinaciis.
Fecit lunam in tempora: sol cognovit occasum suum.
Posuisti tenebras, et facta est nox: in ipsa pertransibunt omnes bestiae silvae.
Catuli leonum rugientes, ut rapiant, et quaerant a Deo escam sibi.
Ortus est sol, et congregati sunt: et in cubilibus suis collocabuntur.
Exibit homo ad opus suum: et ad operationem suam usque ad vesperum.
Quam magnificata sunt opera tua, Domine! Omnia in sapientia fecisti: impleta est terra possessione tua.
Hoc mare magnum, et spatiosum manibus: illic reptilia, quorum non est numerus.
Animalia pusilla cium magnis: illic naves pertransibunt.
Draco iste, quem formasti ad illudendum ei: omnia a te exspectant ut des illis escam in tempore.
Dante te illis, colligent. Aperiente te manum tuam, omnia implebuntur bonitate.
Avertente autem te faciem, turbabuntur: auferes spiritum eorum, et deficient, et in pulverem suum revertentur.
Emittes spiritum tuum, et creabuntur: et renovabis faciem terrae.
Sit gloria Domini in saeculum: laetabitur Dominus in operibus suis:
Qui respicit terram, et facit eam tremere: qui tangit montes et fumigant.
Cantabo Domino in vita mea: psallam Deo meo, quamdiu sum.
Jucundum sit ei eloquium meum: ego vero delectabor in Domino.
Deficiant peccatores a terra, et iniqui ita ut non sint: benedic, anima mea, Domino.
Confessionem et decorem induit, amictus lumine sicut vestimento.
Magna est gloria ejus in salutari tuo. Gloriam et magnum  decorem impones super eum.

L'ultima delle società pre-moderne che ha preceduto l'età del Grande Disincanto, ossia la società contadina occidentale, serbava ancora una sia pur debole traccia di questo originario legame con l'Essere, fatto di disponibilità alla lode e al ringraziamento.
Ciò traspariva anche nei semplici gesti quotidiani: come quello di benedire il pane prima di mettersi a tavola e di recitare una breve preghiera, per riconoscere che il cibo non viene solamente dal lavoro dell'uomo, ma, prima ancora, da una Fonte sovrabbondante e generosissima, alla quale l'uomo attinge per le sue necessità, ma che non sta in suo potere evocare o allontanare, così come non sta in suo potere sostituirsi ad essa e farne le veci.
Lo spirito incredulo e nichilista, proprio della modernità, si domanda di che cosa l'uomo dovrebbe ringraziare, dal momento che la vita è insidiata da ogni sorta di pericoli e di sofferenze, e, da ultimo, dall'appuntamento senza scampo con la morte.
Il solo fatto che tanta gente, oggi, si ponga una tale domanda, la dice lunga su quanto ci siamo allontanati da un rapporto spontaneo e fiducioso con l'Essere: abituati, dai progressi di una tecnoscienza puramente quantitativa, ad allontanare ogni pietra d'inciampo dal nostro cammino, e a considerare come inutile o dannoso tutto ciò che rallenta ed ostacola la nostra marcia verso la realizzazione di un Ego sempre più avido e ipertrofico, abbiamo smarrito ogni senso del limite e pretendiamo sempre di più, come un nostro diritto acquisito.
Anche sconfiggere la morte ci sembra un diritto: per cui, invece di vedere in essa la necessaria pietra del paragone del nostro modo di vivere, inseguiamo il sogno di impossibili rivincite contro di essa e calunniamo l'intera creazione, perché un giorno dovremo lasciare i beni materiali e i piaceri effimeri, sui quali abbiamo costruito tutta la nostra esistenza.
La nostra scontentezza e la nostra attitudine a recriminare nascono da un totale fraintendimento del rapporto essenziale fra noi e la realtà. Simili a bambini viziati, pensiamo che la realtà sia buona se ci riserva solo gioie e successi; e che sia cattiva, se ci pone a tu per tu con lo scacco e l'impotenza. Ma questo è un errore di prospettiva, che nasce dalla nostra profonda ignoranza.
L'esperienza dello scacco e dell'impotenza - negli affetti, nella salute, nell'ambito professionale - non ha il potere il diminuire il nostro essere, ma semmai di accrescerlo e fortificarlo: dipende solo da noi e dal nostro modo di porci di fronte ad essa. Nessuna esperienza negativa potrà mai renderci peggiori, se noi non vi acconsentiamo; e nessuna esperienza positiva potrà mai renderci migliori, se non sappiamo viverla con consapevolezza e senso della misura.
Pertanto, se compiamo almeno uno sforzo per metterci in una tale prospettiva, ecco che la nostra percezione del rapporto fra noi e la realtà subirà un autentico salto qualitativo: e capiremo che non sono le cose a fare di noi quello che siamo, nel bene o nel male: ma che ciò dipende dalla nostra maniera di viverle, e dalla maturità con la quale ci presentiamo all'appuntamento con esse. Tanto è vero, che nessuna esperienza felice potrà mai renderci felici, se noi non siamo capaci di riconoscerla ed apprezzarla al suo giusto valore; e che nessuna esperienza dolorosa potrà mai renderci infelici, se noi la sapremo elaborare e trasformare in occasione di crescita e di perfezionamento.
Ma è chiaro che, per poter intraprendere un simile percorso, dobbiamo reimparare il sentimento della gratitudine esistenziale; e, a monte di esso, dobbiamo riscoprire la freschezza e l'incanto del mondo, come il bambino che lo vede per la prima volta, quasi fosse appena uscito, rorido di rugiada, dalla mano di Dio.
Quando impareremo a non dire sempre e solo: «Io, Io», ma a dire: «Tu»; quando impareremo a non chiuderci, ma ad aprirci; a non guardare il mondo con l'occhio calcolante e con la volontà di manipolazione delle cose, ma con spassionata, disinteressata capacità di contemplazione: allora torneremo a stupirci e a gioire per la nobile imponenza delle montagne, per l'amenità delle colline, per il verde variegato dei prati, dei boschi e dei campi coltivati, per l'aroma di salsedine sulla riva del mare, per il senso d'infinito delle onde che si frangono nella notte, per la pace grandiosa del cielo stellato.
Diventeremo persone migliori: persone con un cuore di carne, che sente, che ama, che sa cosa sia la riconoscenza; smetteremo di dare tutto per scontato, le comodità superflue il benessere drogato della società dei consumi. Forse capiremo che si può avere l'anima serena anche senza tenere lontano il caldo dell'estate con il condizionatore, e il freddo dell'inverno con un ricorso esagerato al riscaldamento; anche senza ubriacarci di televisione e di Internet.
Ritorneremo all'essenziale.
L'essenziale è il nostro legame con l'Essere: perché con esso, riprendendo la similitudine evangelica, siamo simili a dei tralci uniti alla vite, che portano molto frutto; ma senza di esso, siamo dei tralci secchi ed inutili, buoni soltanto ad essere gettati nel fuoco.
Per dare frutto, dobbiamo rimanere radicati nell'Essere.
E capire che noi stessi siamo una scintilla dell'Essere: eterna, meravigliosa, indistruttibile.