Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Der Herrgottswinkel

Der Herrgottswinkel

di Emilio Michele Fairendelli - 14/09/2009

e-buio-sul-ghiacciaioHermann Buhl

(Innsbruck, 1924 – Chogolisa, 1957)

alpinista, primo salitore del Nanga Parbat,

Pakistan, 8.125 metri, 1953

* * *

Nella nostra casa, come in tutte le case contadine del Tirolo, c’era un Herrgottswinkel, l’angolo di Dio: nello spigolo in ombra tra le due pareti del pranzo, ognuna illuminata da una finestra, stava un Cristo di legno.

Ricordo bene il suo viso così bello, intagliato finemente nel legno e colorato.

Appeso a quella croce sottile l’uomo soffriva, ma io sapevo che il suo dolore vero era lo stare in quell’ombra.

Aprendo i vetri, il lago di Lans e, da ogni lato, montagne che non davano requie entravano nella casa e la illuminavano.

A destra, lontano e su tutto, svettava la Zugspitze.

L’ombra in cui quell’uomo abitava si faceva allora ancora più scura.

In quell’ombra io, un bambino, lo immaginavo torcere le mani dai palmi inchiodati, urlare per l’impossibilità di vedere, di poter scivolare in quel bagno di luce come in un destino più alto e proprio, finalmente libero.

In alcune mattine dei giorni di festa, quando con mamma, papà, Hans e Sophie stavamo tutti insieme in quella gioia dell’amore e del sangue condiviso, un indefinibile appariva nella figura del Cristo, come se il suo corpo si fosse quietato dopo una lotta, attendendo qualcosa di ora possibile.

Ho ritrovato in me tutto questo quando, un mese prima della mia partenza, un giornalista dello Stern mi chiese perché volessi salire il Nanga Parbat.

Noi non sappiamo cosa ci chiama, eppure dobbiamo raggiungerlo.

passi-verso-lignotoRicordo il lunghissimo viaggio, con gli altri e le attrezzature, in quel camion militare il cui telo rosso sventolava ad ogni istante come uno stendardo di preghiera.

Ricordo la grande strada, oltre trecento chilometri, che il ghiacciaio di Diamir, ora ritirato sino ai piedi della Montagna aveva scavato con le sue lingue in ere lontane, ere senza l’uomo.

Poi l’ultimo villaggio, il grande altopiano del campo base, l’ultimo verde.

E là, davanti e quattromila metri più in alto, commovente nella sua dimensione inimmaginabile, nella sua nudità, nel suo simbolo, il Nanga Parbat.

Iniziammo a lottare con la montagna.

Dopo quaranta giorni di lavoro era stato attrezzato solo un quarto campo, a 6.900 metri.

Il tempo era impossibile, una valanga aveva colpito il campo due, ferendo tre dei nostri e uno hunza.

Karl Herrligkoffer aveva dichiarato la spedizione conclusa, dandoci una settimana per smantellare i campi.

Il 2 luglio del 1953 iniziò con un’ alba senza nuvole né vento.

Chiesi due giorni, io solo, senza portatori né ossigeno.

Non li ottenni.

k2Partii comunque, raggiunsi il quarto campo e poi, dopo una notte all’aperto, la Vetta del Nanga Parbat il 3 luglio dell’anno 1953, alle ore 13,50.

Negli ultimi duecento metri di cresta, sopra quota ottomila, l’ossigeno nell’aria era così rarefatto da tramutarla, lo sentivo, in un elisir.

Una persona camminava al mio fianco e mi parlava: non ricordo il suo viso né le sue parole, solo una forma vaga, un profilo d’argento.

Pochi metri sotto il piccolo piano inclinato di neve che nessun uomo aveva mai visto prima di me, la vetta, strinsi i pugni nei pesanti guanti di lana e li portai al viso.

“Sì!” dissi.

Avrei voluto urlare ma la mia voce fu solo un lungo sussurro.

L’ultimo passo e finalmente il punto in cui tutte le linee convergono e scompaiono.

Ecco l’intero Himalaya e l’Indo dalla gola sino alla sua foce, come un serpente che chiami e risvegli la terra.

Ecco il pianeta intero, convesso, sfera risonante un accordo supremo che una volta sceso mi sarebbe stato impossibile richiamare.

Ecco tutto, nella luce, come deve vederlo l’Eterno che lo sostiene, ecco i segni che dicono: l’ascesa non avrà mai fine.