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L’arte di odiare senza violenza

di Mario Grossi - 14/09/2009

Poco importa che cosa odiamo, purché odiamo qualcosa

Samuel Butler

Fin da bambini, nel tentativo di impartirci un’educazione che poi possa esserci d’aiuto nella vita adulta di tutti i giorni, ci vengono propinati sermoni che inneggiano all’amore come sentimento positivo che permette un proficuo rapporto con gli altri. Per dare maggiore enfasi a questo perenne encomio solenne che ci accompagna fin dalla nascita, i nostri genitori, la scuola, gli educatori, le istituzioni stigmatizzano quei comportamenti, considerati socialmente riprovevoli e portano un attacco frontale al sentimento che fa da contraltare all’amore. L’odio. Detto così sembra l’incipit di un discorso da alienato, teso a giustificare i propri rancori e le proprie fobie. In realtà parlare di odio e considerarlo fondamentale per la crescita e la vita dovrebbe essere attività quotidiana che spiana la via ad una ricchezza interiore che non dovrebbe essere mai sottovalutata.

Io, da sempre, per seguire la morale familiare, ogni qualvolta provavo odio, meditando vendette e rabbuiandomi, ero costretto a sentirmi cattivo, a vergognarmi, a ravvedermi, a implorare perdono per tale sordido sentimento. Mi ci sono voluti anni per ripulire la mia mente da tali stati d’animo. Solo oggi posso dire, in tutta tranquillità, che l’odio è uno dei motori che permettono al mondo di girare. Considerarlo come un oscuro e subordinato sentimento, degenerazione luciferina prodotta proprio dalla superbia diabolica che ha stravolto l’amore di Dio, è antico retaggio cristiano. Nel passato remoto, era solo un ingrediente paritetico dell’amore che permetteva tutte le dinamiche duali del mondo sensibile. Poi di questa pariteticità se ne persero le tracce.

Così oggi tutti gli odiatori sono visti come depravati, lunatici, invidiosi, frustrati, incapaci di realizzarsi in modo positivo, invischiati in un torbido ruotare di meschinità. È per questo motivo che ogni volta che qualcuno scrive qualcosa sull’odio sono sempre pronto a leggerlo. Se non altro per confrontare il mio punto di vista che mi ha permesso di rivalutarlo, senza peraltro che questo sminuisca la mia considerazione per l’amore, sentimento però assai più opaco del cristallino scintillare dell’odio.

larte-di-odiare_fondo-magazineAlcuni mesi fa è uscito, da Gremese, di Pietro Gorini L’arte di odiare. Il mio giudizio potrebbe sintetizzarsi in un laconico “parte bene e finisce male”. Da presupposti condivisibili il trattatello scivola verso un’incomprensione che non rende merito né all’odio, né agli odiatori. L’esordio aiuta a cancellare secoli di pregiudizio che si è incrostato sul sentimento più vilipeso della storia dell’umanità.

Il punto di partenza è che l’odio fa più bene dell’amore. È l’amore che genera la violenza e non l’odio. I primi capitoli sono dedicati a dimostrare proprio questo.

Tutta la trattazione si snoda a partire da quelle che vengono indicate come “le tre leggi dell’odio”:

- La prima. “Per ogni odiatore esiste almeno un odiato (individuo, categoria o gruppo etnico)”.

- La seconda. “Per ogni odiatore esiste al meno un buon motivo per odiare l’odiato”.

- La terza. “Per ogni odiatore esiste almeno un insulto da lanciare all’odiato”.

La nascita delle violenza non può essere attribuita all’odio. Lapalissiano il ragionamento. L’odio esiste fin quando non viene scaricato sull’odiato con un gesto violento. Pertanto fino a che l’oggetto dell’odio è lontano (perfezione sarebbe odiare qualcuno o qualcosa ai nostri antipodi) la violenza o propositi violenti non possono essere scaricati ma al massimo covati, generando ulteriore odio (che è l’obiettivo primo dell’odiatore). È la sospensione che può dilatarsi all’infinito la vera caratteristica dell’odio. Nessun odiatore, pur augurandosi la morte dell’odiato, la vorrebbe mai. La sua morte corrisponderebbe al cessare dell’odiato e quindi cadrebbe il presupposto della prima e fondamentale legge dell’odio.

Prolungare indefinitamente il tempo dell’odio allontana e non avvicina la violenza. Non a caso la vendetta è il meccanismo diabolico dell’odio per non esaurirsi e per perpetuarsi (e per scongiurare la violenza). La vendetta non è forse il piatto che si mangia freddo? La sua cifra è l’attesa, la sospensione nell’attesa, il trionfo del non fare sull’azione.

E che l’odio in realtà non genera violenza è dimostrato in maniera divertente dall’autore in un capitolo del libro che descrive quello che viene definito “Il Paradosso di Mussolini”.

Il Paradosso di Mussolini scrive l’autore «si basa sul suo celebre motto: “Molti nemici, molto onore”. La nostra tesi è che esso riveli uno spirito pacifista, un esempio classico di odio non violento, filiazione indiretta dell’evangelico “Amate i vostri nemici”.

Il motto “Molti nemici, molto onore” sembrerebbe in apparenza un incitamento alla guerra, dunque alla violenza. Ma è proprio così?

Ciò che preme a Mussolini (e al fascista) è l’onore…. È notevole il riconoscimento da parte del fascista che lui, l’onore, non lo possegga naturalmente, ma gli pervenga dal nemico. In questo senso il fascista “ha bsogno del nemico” per avere onore. Più nemici ha, più cresce l’onore.

Se il nemico è merce preziosa per il fascista, perché ogni nemico è un onore, ne discende che il fascista cercherà di non eliminare i propri nemici, per non cadere nel motto opposto “Pochi nemici, poco onore” o dio non voglia!, “Nessun nemico, nessun onore”.

Si verifica a questo punto un curioso fenomeno: il fascista all’inizio odia i suoi nemici, poi, quando si accorge che ogni nemico gli frutta un onore in più, se ne fregia. Finisce così per “amare” i suoi nemici, indispensabili per acquistare onore, arrivando alle stesse conclusioni evangeliche dell’inizio, “amate i vostri nemici”, pur essendo partito da premesse diametralmente opposte.

Il motto “Molti nemici, molto onore” si rivela dunque sorprendentemente uno slogan pacifista. Rappresenta un fulgido esempio di odio non violento».

La seconda parte del saggio che è dedicata all’elogio dell’insulto strettamente correlato, per l’autore, all’odio è quella più fiacca e la meno convincente perché si fonda su un fraintendimento che ne travisa il senso.

Sostenendo che l’insulto è correlato all’odio l’autore dimostra in quale stretto orizzonte si muova, rappresentando il panorama sentimentale in forma schiacciata e arida. Come se esistessero solo odio e amore con i loro strumenti: insulto e lode.

È a questo punto che il suo modo di ragionare diverge dal mio. Nella mia mente da un lato si trovano amore e odio contornati (come in un Pantheon) da altri sentimenti assimilabili e che ne costituiscono una variante, degradata o sminuita. Così se l’amore trova un fratello minore, più fiacco di lui, nell’affetto, l’odio si confronta con un temibile parente degenere: il disprezzo. Nel mio immaginario l’odio è sentimento diversissimo dal disprezzo. Il disprezzo trova la sua voce nell’insulto, chi odia non insulta mai l’oggetto del suo odio.

Per questo l’odio e l’amore si trovano in sintonia. Entrambi ammirano l’oggetto delle loro attenzioni. Ma mentre l’amore è sentimento opaco, nel senso che tende a vedere le cose con il filtro pregiudiziale della cecità (si tendono a non vedere i difetti dell’amato), l’odio è invece sentimento cristallino, che non si nasconde nulla, che vuole vedere tutto e chiaramente. È quando si disprezza qualcuno che si è ciechi. Il disprezzo è sentimento opaco. Quando si odia si vuole sapere tutto dell’oggetto odiato, se ne scoprono qualità e pregi (per odiarli di più ovviamente). Si vuole conoscere e nella conoscenza si apprezza l’intelletto dell’odiato. Riconoscendone le qualità e volendole distruggere, l’odiatore utilizza l’odio come un motore incessante che ha come scopo il proprio affinamento necessario per presentarsi di fronte al proprio nemico migliore di lui e soverchiarlo. In questo senso l’odio è sentimento cristallino, positivo, attivo. Per questo non può utilizzare uno strumento come l’insulto che è invece arma propria del disprezzo.

L’odio ci rende quindi migliori perché ci costringe (se ci siamo scelti un buon soggetto da odiare) ad affinarci, riconoscendo migliori delle nostre le qualità dell’odiato, ci costringe a un lavoro proficuo soprattutto su di noi. Il disprezzo è sentimento masochistico in quanto ci accomuna al soggetto disprezzato che, oggetto dei nostri insulti, non possiamo che ritenere a noi inferiore. L’odio è sentimento altruistico in quanto ci permette di riconoscere nel nostro più acerrimo nemico quelle qualità che lo rendono a noi simile o a noi superiore e questo ci spinge ad un percorso che può prendere due strade. Una perversa: riconosciuta la sua superiorità lo disprezziamo insultandolo ed una virtuosa: cerchiamo di migliorarci per soverchiarlo riconoscendone le qualità.

Se, per fare un esempio banale, prendiamo i comunisti, di fronte ad uno di loro possiamo reagire in due modi distinti. Con il disprezzo, limitandoci a dichiarare “Tanto sei solo un comunista del cazzo”, liquidando lui ( e noi prima di lui) ad un nulla inane non proficuo. Oppure con l’odio, prendendoci la briga di conoscere il suo modo di argomentare, il suo modo di pensare, leggendo i testi giudicati imprescindibili, le novità esegetiche, approfondendo, studiando, andando a scovare i bachi del ragionamento, i passati peccati e i futuri inciampi. Valutando i disastri storici e separandoli dall’impianto ideologico che li ha generati per evidenziarli meglio.

In questo senso lo odiamo, con tutte le forze, preparandoci alla nostra implacabile vendetta, sospesa nel tempo e rimandata ogni volta, in attesa di essere pronti allo scontro, all’annientamento dell’odiato. Se ci limitiamo al disprezzo ci castriamo, precludendoci strade e mondi che comunque vada ci arricchiscono e che ci renderebbero comunque migliori in quanto oggetto del nostro odioso rispetto.

Nel disprezzo non c’è strada da fare. Tutto è già percorso e l’immobilità di quel giudizio sommario costituito dall’insulto crocifigge all’inanità più noi che l’oggetto dell’insulto. In fondo così facendo stiamo insultando noi stessi. Nell’odio invece si dispiegano cammini che percorrere è un rischio. Lungo la strada potremmo incontrare, nella conoscenza delle qualità del nemico, tali forze e suggestioni da rimanerne soggiogati, così come potremmo invece fortificare il nostro pensiero appuntito, fondamentale per prevalere nel giorno della vendetta.

Che non sia da sottovalutare l’odio lo sapeva bene, tra gli altri, Carl Schmitt che correttamente riconduceva le categorie del politico a due soltanto: amicus, hostis. Amico e nemico, amore e odio nella danza fondamentale della Polis. Tutto il sottobosco degli altri sentimenti indifferenza, disprezzo, affetto è contorno, sfumatura.

Insomma l’odio ci mette in gioco perché odiando e riconoscendo pertanto il valore del nostro nemico, se da un lato ce lo fa ammirare, dall’altro non ci nasconde la possibilità che le sue qualità possano essere invece superiori alle nostre. Tutto questo ci sarebbe precluso se permanessimo nella stazione immobile del disprezzo che già definisce una posizione gerarchica e moralistica tra il disprezzatore e il disprezzato.

Nell’iridescente splendore dell’odio tutte le possibilità sono aperte, tutte le strade libere, tutte le scelte possibili. Per questo è sentimento pericoloso, arduo ma carico di opportunità.

 

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