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Palestina: la condizione del non ritorno

di Eugenio Roscini Vitali - 15/09/2009

 

Il via al cemento è la risposta del ministro israeliano della Difesa, Ehud Barak, alle richieste dell’amministrazione americana, che da mesi insiste per ottenere da Israele un chiaro impegno a congelare la colonizzazione in Cisgiordania. Cinquecento nuovi alloggi che verranno costruiti in zone già strappate ai palestinesi; quartieri a ridosso delle città - colonia che il governo considera propaggini del territorio israeliano e quindi, come tali, appartenenti al così detto “versante israeliano della barriera di sicurezza”. Un modo strano di interpretare il diritto e la geografia ma efficace e per mettere a tacere i “falchi” della destra ultraortodossa e sionista che tengono in scacco il governo e che in cambio sono disposti a chiudere un occhio sull’impegno preso da Netanyahu con gli Stati Uniti su una “moratoria” alla colonizzazione.

Una “moratoria” e non un congelamento, una riduzione che non garantisce la fine delle attività edilizie in Cisgiordania e non ferma i duemilacinquecento alloggi già in costruzione a Gerusalemme est o i tremilacinquecento che a breve verranno edificati nella periferia orientale di Maaleh Adumim, il progetto noto come E-1 o Mevasseret Adumim che, una volta terminato, dividerà di fatto la Cisgiordania in due tronconi.

In cambio della cosìddetta “moratoria”, Benjemin Netanyahu si aspetta una contropartita politica: il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico. Un’istanza che ai profughi e a gran parte di coloro che vivono nei Territori occupati appare più che altro come una presa in giro; una condizione volta a far naufragare ogni negoziato di pace e a fermare la nascita dello Stato palestinese.

Un presupposto difficile da accettare, almeno fin quando continuerà l’occupazione della Cisgiordania, l’assedio della Striscia di Gaza e ai profughi verrà negato al diritto al ritorno in Palestina. Una richiesta che agli occhi degli israeliani può sembrare trasparente ma che dall’altra parte del muro è avvertita come un tranello, una trappola creata ad arte per rafforzare in Israele l’idea forviante di un popolo palestinese che non vuole la pace.

Quella sul riconoscimento di Israele come Stato Ebraico é una questioni che risale alla stessa Dichiarazione di Indipendenza letta da David Ben Gurion il 14 maggio 1948: “In Eretz Israel è nato il popolo ebraico, qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e politica, qui ha vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori culturali con portata nazionale e universale e ha dato al mondo l’eterno Libro dei Libri…….. Nell’anno 5657 (1897), alla chiamata del precursore della concezione d’uno Stato ebraico Theodor Herzl, fu indetto il primo congresso sionista che proclamò il diritto del popolo ebraico alla rinascita nazionale del suo paese. Questo diritto fu riconosciuto nella dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 e riaffermato col Mandato della Società delle Nazioni che, in particolare, dava sanzione internazionale al legame storico tra il popolo ebraico ed Eretz Israel e al diritto del popolo ebraico di ricostruire il suo focolare nazionale.”

In realtà, la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite approvata il 29 novembre 1947, ovvero il Piano di partizione della Palestina destinato a risolvere il conflitto scoppiato durante il Mandato britannico, con il quale sarebbero stati costituiti due Stati, uno ebraico ed uno arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale, non definiva se Israele è lo Stato-nazione del popolo ebreo o uno Stato la cui essenza è definita dalla religione di Stato che viene dichiarata nella sua stessa Costituzione.

Un dubbio che gli opuscoli apparsi in Europa nel XIX secolo, nei quali si preconizzava il ritorno a Sion e la creazione di uno Stato per gli ebrei (e non uno Stato ebraico), avevano dipanato quasi un secolo prima e che lo stesso fondatore del movimento politico sionista, Theodor Herzl, aveva chiarito nel libro “Lo Stato degli ebrei”, pubblicato a Vienna nel 1896.

Herzl aveva spiegato la crescete ondata di antisemitismo in questi termini: “Qualsiasi sfumatura prenda, io ritengo che la questione ebraica non sia né religiosa né sociale, bensì nazionale……… Ebbene, l’antisemitismo esploderà con tanta più violenza quanto più esso si sarà fatto attendere. L’infiltrazione degli ebrei, attirati da una sicurezza apparente, e l’ascesa sociale degli ebrei autonomi, si congiungono in un fenomeno di estrema violenza e provocano la catastrofe. ……Nessuno è abbastanza forte o abbastanza ricco da poter trapiantare un popolo da un luogo a un altro. Solo un’idea vi può riuscire. L’idea dello Stato possiede questa forza”. Un’analisi che sembra quasi una premonizione a quello che sarebbe accaduto quarant’anni più tardi, dalla quale risulta evidente che il problema è razziale e non religioso e che per gli ebrei, non esistendo alcuna possibilità di assimilazione, l’unica soluzione è la creazione di uno Stato.

Sin dall’inizio, per la sua natura profondamente laica, il movimento sionista viene considerato dagli ambienti ortodossi interni al mondo ebraico, europeo e non, come un tentativo di degiudaizzazione: una ricerca della normalità che non parla mai del popolo ebraico in termini religiosi ma che vuole costruire un’identità basata su un senso di appartenenza che ponga fine alle persecuzioni razziali. Questa marcata natura secolarista si riflette anche sui padri fondatori dello Stato di Israele e su quei governi che dal 1948 in poi non esprimeranno mai il desiderio politico di trasformare il Paese in una entità religiosa destinata ai soli ebrei.

Una laicità che i palestinesi oggi usano come argomento per dire no alla richiesta israeliana di riconoscere Israele come uno Stato ebraico o come lo Stato nazionale del popolo di religione ebraica: un riconoscimento che probabilmente non metterebbe in pericolo i diritti di quel 20% di arabi che vive in Israele ma che sicuramente metterebbe fine alle speranze di ritorno dei profughi e alla restituzione dei Territori colonizzati.

Anche se per motivi diversi, ne i palestinesi ne gli israeliani credono nel reciproco ruolo di partner per la pace e obbiettivamente non c’è una ragione valida perché si debba credere che un giorno, nel vicino Medio Oriente, gli arabi e gli ebrei possano vivere in pace. Lo dimostrano l’esistenza di un muro alto otto metri, gli insediamenti in Cisgiordania, l’assedio della Striscia e i razzi lanciati su Israele dalle Brigate dei Martiri di al-Aqsa; lo dimostrano le divisioni tra Hamas e Fatah e quelle all’interno di Israele, fra chi crede nella soluzione di due Stati e nella pace e chi invece è ancora convito che nel XIX secolo la Palestina fosse veramente “una terra senza popolo per un popolo senza terra”.

Lo dimostrano i media israeliani, che ogni giorno mandano in onda le dichiarazioni dei fondamentalisti islamici e le immagini dei razzi che da Gaza piovono su Israele; lo dimostrano le decisioni di Netanyahu, che parla di pace mentre caccia dalle proprie case i palestinesi, e Hamas, che ricordando agli arabi le atrocità israeliane, narra di fantomatiche promesse che Olmert non avrebbe mai mantenuto ed Abbas mai accettato: un’improbabile 100% dei Territori occupati offerto all’Autorità palestinese, la sovranità araba su al-Haram al Sharif e il riconoscimento del principio del diritto al ritorno. Lo dimostrano le dichiarazioni del ministro israeliano per le Infrastrutture, Uzi Landau, che indifferente alle proteste dei palestinesi dice di non vedere “alcuna ragione per fermare le costruzioni né a Tel Aviv, né a Gerusalemme, né in Giudea o in Samaria”.