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Scuola, progresso e sapere

di Massimiliano Viviani - 15/09/2009

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In questi giorni di apertura delle scuole, entreranno in vigore alcuni provvedimenti presi recentemente dal Ministro Gelmini in merito alla scuola dell'obbligo, al fine di rendere più competitivo il nostro sistema scolastico e adeguarlo agli ansiogeni standard tecnico-produttivistici impostici dalla competizione globale: per l'insegnamento nella scuola primaria non basterà più la laurea quadriennale ma ci vorrà quella quinquennale (!), per la scuola secondaria oltre alla laurea magistrale ci vorrà un anno di tirocinio, e dulcis in fundo non poteva mancare il solito richiamo a un incremento della presenza delle nuove tecnologie fra i banchi di scuola, e a un miglioramento dell'insegnamento dell'inglese.
Cose già note, già sentite milioni di volte, ma che vanno in una unica direzione delineata da una fede (o sarebbe meglio dire "ossessione") incrollabile nel progresso quantitativo e produttivistico. Questioni che valgono -ancora di più amplificate- anche per l'Università, dove le uniche preoccupazioni sembrano oramai limitate all'entità dei finanziamenti, al numero di specializzazione dei corsi e alla competitività (!!) con le altre Università per la ricerca e gli agganci col meraviglioso mondo dell'impresa.
Da una parte quindi c'è la tendenza nemmeno tanto nascosta a preparare l'alunno all'ingresso nel mercato del lavoro (la scuola oramai non serve ad altro) tramite una forsennata specializzazione delle materie di studio e l'introduzione di una mentalità di tipo "tecnicistico". In questa linea si inseriscono i richiami alle nuove tecnologie -cosa del resto inutile perchè i ragazzini non aspettano certo la scuola per imparare ad usare il computer, e mi pare che oggi se la cavino fin troppo bene anche da soli. Dall'altra c'è l'esigenza di regolare e normativizzare ogni forma di insegnamento: il richiamo sempre più insistente a metodi di insegnamento nuovi e più sofisticati va di pari passo con l'irrigidimento della scuola e l'attenersi scrupoloso a schemi e obiettivi prefissati, standard e impersonali. (Detto per inciso, per insegnare bene ai bimbi di 6 anni a leggere, scrivere e far di conto, siamo sicuri che sia proprio necessaria una laurea?!)
Il legame sempre più stretto con il mercato del lavoro è probabilmente l'aspetto più irritante e dannoso della questione. Esso rende privo di senso pure la tanto sbandierata nozione di "merito": la corsa dei migliori, dei più bravi, dei maratoneti della memoria e dell'accumulo di nozioni, tra illusioni di successo e di emulazione dei grandi del passato, oramai non porta molto più lontano dell'impiego ben retribuito presso una qualche multinazionale straniera, o del posto di ricercatore presso un qualche centro di ricerca, magari da quella finanziato. Il sentimento di frustrazione del moderno istruito -elementare o universitario che sia- è caratteristico di un'istruzione che oramai non aiuta più a comprendere il mondo, ma solo ad entrarvici meglio.
Per questo l'insistenza posta sulla cosiddetta meritocrazia è fuorviante: la meritocrazia scolastica e universitaria è la proiezione della meritocrazia produttivistica del lavoro, imperniata su efficienza, velocità e quantità, dove la qualità del sapere esistente -che pure spesso non è poca- è tuttavia funzionale a un sistema dove viene assorbita, fagocitata, resa inutile o impotente. Di mezzo c'è sempre il mondo della produzione con i suoi standard internazionali di cui non possiamo più fare a meno. Anche i settori più "puri" come le lettere o la filosofia, alla fine risentono di questo clima quantitativo e specialistico, e diventano delle sorte di ingegnerie letterarie o filosofiche.