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Il maestro della rosa

di Emilio Michele Fairendelli - 16/09/2009

Alcuni mi dissero poi di averlo visto allo stesso tavolo anche in anni lontani, nel pieno della notte romena.

Ma chi può saperlo, è nostra abitudine provare a rendere la realtà meno opaca e pesante, più vicina alla verità che vorremmo colorandola con dosi robuste di invenzione e di leggenda.

Nella lingua degli ebrei un solo termine designa parola ed azione, per noi romeni parola è cuvintul, viene pronunciata e si allontana, scompare, leggera e misteriosa, come il vento fisico.

Io comunque, che avevo sempre frequentato la birreria, iniziai a vedere quell’uomo solo dal 2001, dalla primavera.

Caru cu Bere

La Caru cu Bere è la birreria storica di Bucarest.

L’edificio, in stile neoclassico, fu ultimato nel 1879.

Sino alla fine della seconda guerra mondiale fu il locale della giovane borghesia di Bucarest, degli studenti, delle comunità straniere, italiani e francesi.

Durante il regime, il locale divenne di proprietà dello stato.

La frequentavano perlopiù i dirigenti del partito, per i quali credo funzionasse, nelle stanze dei ballatoi superiori, anche come bordello.

Io, Ion Dinu Gabrieli, nacqui a Bucarest nel 1977, il 29 giugno.

Della notte romena non vidi che la fine, ma la conosco bene.

Ben prima e ben meglio che dagli studi, dalle vite mancate dei miei genitori, dai grigi crolli che si intuivano nella loro anima, dalla loro infinita stanchezza.

Ricordo come la nostra casa, ogni suo dettaglio, la facciata, i pianerottoli delle scale e poi gli interni, i nostri mobili e gli oggetti dichiarasse la notte con la forza terribile di cui solo sono capaci le cose materiali.

Nel 1989 il regime cadde.

Non sapevamo cosa sarebbe mutato, cosa sarebbe stato possibile recuperare nei nostri cuori ma sapevamo ciò che saremmo diventati, negli anni, nella libertà e sotto altri demoni: l’Europa.

L’anno successivo la mia vita attraversò un passaggio fondamentale.

Mi fu diagnosticato un tumore maligno, un sarcoma alla radice della coscia sinistra.

Fui operato in Italia, dove avevamo conoscenti.

Contro ogni previsione la gamba fu salvata svuotando tutto l’interno della coscia e dopo due mesi di radioterapia feci ritorno a Bucarest.

La prognosi restava infausta, il tumore era stato scoperto troppo tardi.

Ogni sei mesi, mi recavo in Calea Victoriei per l’esame di controllo, per gli esiti della radiografia fatta la settimana precedente.

Quella sera festeggiavo la proroga semestrale della vita, solo, alla birreria, tornando ubriaco.

“El traieste din nou!”

Lui vive ancora!, dicevo, bambino egoista, perduto e folle, chino su me stesso, alzando uno dei grandi boccali tondi.

A casa, guardavo la lunga ferita dove i raggi del cobalto avevano lasciato segni, lenti di colore scuro.

Poi, non la guardavo mai.

A volte sognavo che la ferita crescesse, coprendo tutto il corpo e che, anche allora, io riuscissi a non morire.

Negli anni a seguire presi la maturità e mi iscrissi alla facoltà di filosofia.

La Caru cu Bere era il nostro ritrovo, vi andavo quasi ogni giorno da solo o in compagnia.

Verso la metà degli anni novanta il locale era stato acquistato da un uomo di affari di Timisoara, padre di un amico studente.

Il locale, pur mantenendo le ampie volte dipinte, le altissime boiserie scure alle pareti, un pavimento fintoantico a quadri di ceramica, era stato completamente ristrutturato.

Vi circolavano ora camerieri dalle vesti sgargianti, con il nome del locale scritto sulle spalle, che distribuivano piccoli menu di carta lucida e dura dove si leggevano anche improbabili americanerie.

Spesso vi suonava un’orchestrina che di zigano aveva solo il nome: provavi a dare il tuo cuore a quel che di buono facevano gli archi e la voce della cantante dai capelli neri e tutto veniva distrutto da una tastiera assassina.

Andava meglio con le danze, balli veri e propri o gruppi di folclore, che spesso si tenevano nei fine settimana o quando la quarta sala era dedicata ai matrimoni: dolcezza, liberazione, una commozione profonda e inspiegabile vedere quei corpi, quei colori che muovevano.

Il proprietario aveva avuto l’idea di lasciare una delle cinque grandi sale voltate, la più piccola, come era un tempo.

Tutto era come stinto, il legno alle pareti, le mattonelle del pavimento a volte attraversate da crepe scure o sconnesse, la tinta color sabbia dei muri, le lampade a boccia, la greca floreale e iscritta, in alto, sotto l’inizio delle volte.

Per entrarvi, dovevi scendere due gradini.

Foto di un tempo del locale stavano appese ovunque.

Anche i mobili, certamente quelli originali, erano diversi.

Fu lì, in quella sala, a un tavolo davanti alle tre colonne dorate che erano scolpite nel pilastro di ogni arco, che lo vidi per la prima volta.

Anziano, la figura magra e elegante, corti capelli color argento, il vestito e le scarpe impeccabili,

Lo osservavo attraversare calmo i saloni, per andarsene dopo il tramonto.

Giornali e qualche libro non mancavano mai, sul tavolo.

Non beveva birra, ma vino, piccoli sorsi da un calice di rosso Bolovan che durava l’intera pomeriggio.

A volte conversava con qualcuno che lo aveva raggiunto, più spesso leggeva o annotava.

Credo riposasse la mente o cercasse un pensiero quando, spostata un poco la sedia, guardava il locale e gli avventori appoggiando le due mani e il mento a un lungo bastone che avrei detto di acciaio.

Non lo vidi mai ad un altro tavolo.

Presi a passare alla Caru cu Bere interi pomeriggi, preparando gli esami.

Mi sedevo non distante.

Un giorno, un ragazzo inglese che beveva con alcuni amici nella sala accanto fu preso da un colpo e cadde a terra.

Si teneva l’addome, urlava, subito gli si fecero tutti intorno, mentre veniva chiamata un’ambulanza.

Una delle cameriere si era avvicinata in fretta al tavolo dell’uomo.

Per un attimo credetti fosse un medico e che lei gli avesse chiesto di intervenire.

Lui si era alzato, avvicinandosi al gruppo concentrico appena aldifuori del quale stavo anch’io.

Nel cerchio di uomini si aprì un varco e l’uomo vide per un attimo, un solo attimo, quel ragazzo dai capelli rossi a terra.

Qualcuno gli sorreggeva la nuca.

Ora non urlava più, sembrava calmo, ma respirava ansando.

L’uomo si voltò e fece per tornarsene al tavolo, incrociò la cameriera, pallida e agitata, le disse una, forse due parole.

Arrivò l’ambulanza e portò via il ragazzo.

In un’ora tutto era dimenticato.

Intorno alle diciannove, come di consueto, l’uomo se ne andò.

Io volli restare: sapevo che Mariana, la cameriera, avrebbe fatto quel giorno l’ultimo turno.

Ordinai una birra e quando me la portò le chiesi perché avesse chiamato quell’uomo.

“Lui è uno che sa, un uomo che vede”, mi aveva risposto.

In quel momento, nel modo arcaico di porgere e pronunciare la frase, nel suo viso stupito e credente vivevano gli avi, moltitudini asperse da sangue gitano, la magia pagana dei boschi, la fede nei segni della terra e delle stelle.

Non era che una ragazza nata e cresciuta in un paesino vicino a Iasi, ora con in tasca l’iPod e il cellulare di ultima generazione, una piccola sfera d’argento al centro della lingua ma tutto quel tempo, così diverso, regnava ancora in lei.

Cosa le aveva detto dopo che aveva visto quel ragazzo a terra?

“Morirà”, mi aveva risposto lei.

Il giorno successivo Stefan, uno dei camerieri, studente all’università, mi disse che il ragazzo era morto ancor prima di giungere in Ospedale.

Quanto a Mariana, era capitato che avesse parlato con l’uomo mesi addietro, smesso il suo turno, di un problema che riguardava suo fratello, in carcere per un delitto.

Credeva che lui leggesse il destino perché le era capitato, servendolo, di vedere mazzi di carte e un libro con strani segni sul tavolo.

Di più Stefan non sapeva.

Quel pomeriggio stesso decisi che lo avrei conosciuto.

Quando arrivò, lasciai che portassero il calice di rosso.

Prima che iniziasse a leggere o scrivere fui davanti a lui, con il viso dei miei vent’anni.

Sul tavolo vidi un comune quotidiano e un piccolo taccuino nero.

“Mi perdoni, posso farle una domanda?”

“Prego, si sieda se vuole. Il mio nome è Marius Devaratu” rispose.

“Ion. Ion Gabrieli. – dissi sedendomi – Il ragazzo, il ragazzo di ieri, quello che è stato male. Come sapeva che sarebbe morto?”

“Per la stessa ragione per cui so ora che le posso rispondere. Ho visto la sua aura. La sua aura diceva che sarebbe morto in poche ore.”.

“Sì” dissi.

“Era diventata di un azzurro tenue, il bordo superiore vibrava, già si era aperto in alcuni punti. Così, la sua Anima era pronta a lasciarlo. Non c’era alcun modo di cambiare le cose”.

Ordinò anche per me un bicchiere di Bolovan.

Quando arrivò, alzammo insieme il calice e lui disse forte: “Pentru lume!” , per il mondo! come usa tra romeni.

Bevvi un primo sorso pensando che in questa nostra povera lingua di chiaroveggenti mendicanti dello spirito lume significa tanto mondo quanto umanità quanto luce.

Mondo materiale, luce fisica, uomini e Luce prima, la Luce di Genesi 1.

Una sola parola: lume.

Parlai di me e dei miei studi.

Lui mi disse di avere sempre vissuto a Bucarest ed essere stato un professore di storia all’università.

Si era ritirato, viveva ora della sua pensione e di alcune proprietà che il governo aveva restituito a lui e al fratello come unici eredi della famiglia.

“Hai desiderio di guardare un poco dentro le cose?” mi chiese passando al tu.

La domanda non mi sorprese, come la attendessi e risposi che sì, lo volevo.

Estrasse un sottile blocchetto di carte dalla tasca interna della giacca e lo mise sul tavolo.

Mi invitò a tagliare il mazzo e a rovesciare la carta.

Lo feci.

“Cosa vedi?”

“Il Matto dei Tarocchi.”

“Lo conosci?”

“Un poco.”

“Descrivilo.”

“Cammina su un sentiero, ha una giacca multicolore, e così il turbante. Porta una cinta dorata fatta di grossi medaglioni, un piccolo fardello appeso ad un bastone, il bastone non appoggia sulla spalla ma anche, perché è tenuto dal braccio opposto, sulla gola”.

“Poi?”

“Un cane, un cane lo azzanna. Alla coscia sinistra. I pantaloni sono lacerati, cade del sangue a terra. Il sangue imbeve il suolo, dove c’è un fiore, forse un giglio.”

“Ancora.”

“Il suo sguardo azzurro. E’ perduto e verso l’alto, non guarda in avanti. C’è il dolore per il morso dell’animale”

“Hai visto tutto e bene. Hai visto te stesso”.

Gli occhi mi si riempirono di lacrime.

Lui ritirò le carte.

Tacemmo qualche attimo.

Gli dissi del mio male, di non avere mai considerato quella incredibile identità di immagine.

Eppure conoscevo la tomba di Phersu, la nascita di Dioniso.

Ora la carta del Matto mi parlava, come una rivelazione.

“Perchè Gilgamesh – disse – batte la mano sulla coscia sinistra sino a ferirsi quando nel dolore piange l’amico Enkidu? Perché l’esagramma 36 del Libro dei Mutamenti, La lesione della luce, recita “il male lo ferisce alla coscia sinistra”?

Lì il morso deve avvenire, il Matto deve essere colpito alla coscia, vicino al centro sessuale, al luogo che la Sephirah Yesod, fondamento e verità, occupa nel corpo umano, nel vortice del chakra Muladhara, il chakra che governa il rapporto tra Anima e mondo fisico.

La lesione entra nel corpo umano dal lato sinistro, il meno protetto.

Non uccide, ma tocca il rapporto con la realtà.

E con se stessi, poiché Muladhara, lacerato, non può trattenere la sua energia, non può sublimarla nelle sue spirali, spingerla verso l’alto nel corpo sottile dell’uomo ma la disperde nella terra, come nella figura dei Tarocchi.

L’uomo, così indebolito, ha orrore del mondo materiale e crede di potergli sfuggire guardando verso l’alto.

Ma questo non è possibile.

L’uomo rimane chino, come chi abbia ricevuto un colpo al ventre, verso la stessa terra che rifiuta.

Se il suo sguardo rifiuta l’orizzonte e, perduto, si alza verso il cielo è per l’intensità del morso.

Egli teme la morte: senza patria, né terra né spirito, questa gli appare definitiva, intollerabile.

Paura, disperazione, rabbia, la perdita, per debolezza e per smarrimento, di ogni dimensione etica, di ogni fede, l’inizio di ogni male.

Sei tu, Ion.”

Pensai ai miei anni trascorsi, a quel camminare di ore per la città o nei cortili dell’università immaginando la mia morte e l’incendio del mondo, odiando tutto e tutti.

Alla mia incapacità di abitare il tempo, di amare.

Pensai a mio padre, che avevo deriso, a una donna che avevo illuso e tradito e che mi amava conoscendo, non come quell’uomo nel suo calmo sapere ma in un modo più intimo e segreto, amandomi, tutto di me.

Gli chiesi cosa dovevo fare.

“Solo illuminare le cose, nominarle, le rende diverse, trasformabili.

Si tratta di una prima giustizia.

Se un velo opaco è sulla superficie di uno specchio d’acqua l’apparire mattutino del sole, della pura luce fisica, lo scioglie facendo tornare l’acqua limpida.

Una legge fisica, ma queste non sono che riflessi di leggi spirituali.

Io non sono stato per te che il momento in cui guardare la carta, tutto è nelle tue mani.

La più grande delle ferite, il più grande dei limiti è la più grande delle occasioni.

Si può arrivare dove altrimenti non saremmo mai giunti.

E’ per questo che il Male abita il mondo.

Vedi, io credo che la cinta d’oro del Matto non sia, come dicono, un cordone di simboli zodiacali che dichiara la follia della figura nell’influsso delle stelle.

Le stelle agiscono su di noi da lontano, nella distanza e, per questo, non possono mai toccare il nostro corpo.

Io credo che il cordone sia quello che resta di una immagine perduta, troppo estrema per poter sopravvivere sino a noi in forma compiuta: il pettorale magico del Sommo Sacerdote di Gerusalemme, dove scintillavano le sacre pietre del Nome e indossando il quale egli vedeva e poteva chiamare lo Spirito.

L’oro del cordone è il bene più prezioso che il Matto possiede.

Confrontalo con il piccolo fardello di stracci alle spalle, certamente questo contiene beni spirituali, ma in povera quantità e faticosamente portati dal bastone incrociato.

Tuttavia il cordone d’oro è solo in potenza, il compito del Matto è attivarlo, solo lui che lo indossa può farlo.

Ricorda che il basso, il male relazionale e psicologico, ogni disordine degli affetti, ogni crudeltà, ogni impossibilità d’amare possono essere mutati solo sanando il nostro rapporto con l’alto, perché di questi sono creature, figli bastardi e servi.

Ecco il lavoro che ti aspetta.

Che tu lo voglia o no, che tu ne sia consapevole o no, muterà solo la velocità del processo e il numero di vite in cui si compirà.”

Avevo compreso tutto, non avevo nulla da aggiungere.

Parlammo di molte altre cose.

Gli chiesi del poter vedere l’aura e del resto, di quel suo sapere.

Mi rispose che in fondo erano cose da nulla.

Ben altro avrebbe voluto per sé.

Non era mai uscito dalla Romania, il suo conoscere veniva dai libri, ogni suo viaggio era avvenuto “intorno alla sua stanza”.

Aveva anche il potere del prana, negli anni aveva curato e guarito molte persone.

“Prodigi, per quanto piccoli – mi disse sorridendo – non se ne dovrebbero mai fare.

E’ come tirare un elastico, poi tutto ritorna come prima.

Ed è energia sottratta al vero lavoro di trasformazione della realtà, quello che resta, che avanza ad ogni istante, lo yoga del mondo, quello che trasformerà di nuovo la cinta d’oro del Matto nel pettorale magico.

Non ne compii che uno, senza volerlo, nascosto a tutti, più di trent’anni fa.

Eravamo nel pieno del regime, il nostro mondo era pronto a crollare sotto la sua indegnità, il suo niente.

La settimana prima mia moglie era morta nel grigio Ospedale del Popolo, per una banale infezione.

In qualunque città d’Occidente sarebbe guarita, credo, in pochi giorni.

Le mie lezioni all’Università erano in quel periodo seguite da un uomo della Securitate.

Si era sparsa voce che io portassi messaggi reazionari.

Passavo le giornate ad occultare quanto volevo dire nel testo delle lezioni, in modo che queste potessero parlare agli studenti ma risultare incomprensibili, innocue per quell’uomo in grigio.

Ma tutto restava lettera morta, tra gli studenti, nessun viso, nessuno sguardo, Ion, che ricordasse il tuo.

Il loro sentire era incatenato, la loro Anima piegata.

Non parlavo, così, a nessuno.

Era un giorno di novembre e attesi che diventasse buio nella stanza.

Udivo, fuori, i rumori della città, i tram, le macchine.

Pensai di uccidermi.

Poi immaginai il mattino successivo, il sole che sarebbe comunque sorto e il mio camminare in quella luce e in quel tepore verso l’università, verso il mio lavoro.

Avrei potuto, comunque e in qualche modo, nominare Alessandro e Napoleone, dire le date e i fatti della storia umana, ricordarmi di lei.

Qualcosa simile ad un’onda cambiò allora il mio sentire in una gioia impersonale e vasta.

Guardai il tavolo di legno che puntava verso l’alta finestra dalla quale filtrava ancora della luce, densa e come di piombo.

Mi venne in mente un quadro di Vermeer.

Alzai la mano, verso il vetro, in un gesto che era un sospiro.

Qualcosa si era formato sul piano del tavolo, lungo il lato corto lontano da me.

Nella poca luce che restava riconobbi una rosa.

Accesi una lampada e la esaminai: il lungo gambo pieno di spine, i petali di un rosso intenso, freschi e perfetti, umidi di rugiada, il profumo pieno.

L’avevo materializzata, carezza per l’oggi, pegno per il domani.

Chi aveva datto il suo assenso, chi mi aveva aiutato?

Da quale potere, da quale giardino segreto proveniva?

La misi in un vaso, durò come qualsiasi altro fiore, conservo i petali ancora oggi, a casa, in una piccola busta di plastica.”

Quella sera l’uomo lasciò la Caru cu Bere alla solita ora.

Separandoci, lo ringraziai abbracciandolo.

Nel periodo che seguì conversammo tante altre volte a quel tavolo.

L’essenziale, ciò che davvero importava era già stato detto ed era irripetibile, non ne parlammo mai più.

Ogni tanto, quando giungevamo a una conclusione condivisa, quando apprezzava una mia analisi diceva: “Il tuo lavoro, Ion, il tuo lavoro.”

Pensavo a lui come un Maestro, un Maestro incompiuto, che non avesse dispiegato completamente le sue ali, eppure giusto, comunque il solo per questi nostri anni e per me.

Il Maestro della rosa.

Il dicembre di quell’anno ebbi l’opportunità di partecipare, ancor prima di essermi laureato, a una selezione per un posto di ricercatore in una università americana.

Fui prescelto, con altri.

L’incarico era triennale, il non ritorno una possibilità concreta: incontrare una donna, una proposta di studio e di lavoro.

Da allora sono trascorsi quasi due anni e ancora non ho fatto ritorno a Bucarest.

Scrivo ai miei genitori, agli amici.

Stefan mi dice che l’uomo viene ancora, ogni pomeriggio o quasi, alla Caru cu Bere.

Nulla è cambiato.

Questo mi conforta, come se aspettasse che io lo raggiunga a quel tavolo per brindare a Ion, al vero Ion, come se questo momento fosse ancora possibile, vicino.

Non so quanto tempo resta a lui, al Maestro della rosa, su questa terra né quanto ne resta a me per avanzare nel cammino.

So che prima o poi, tra un anno, cent’anni o mille vite, dovrò tornare.

E rendere conto.