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Circulata melodia. L'armonia delle sfere nella Commedia di Dante Alighieri

di Chiara Richelmi - 17/09/2009


 

Introduzione. Il cielo di pietra

Forse la storia universale è la storia della diversa intonazione di alcune metafore.
(Jorge Luis Borges, La sfera di Pascal in Altre Inquisizioni)

 

In un breve racconto che confluirà nelle Cosmicomiche, Italo Calvino descrive la vita di immaginari abitanti degli strati interni del pianeta terra, che si muovono tra le sfere concentriche contenute l’una dentro l’altra fino al nucleo centrale. È un testo singolare, che nella rubrica introduttiva fa riferimento alla legge fisica che postula la dipendenza della velocità di propagazione delle onde sismiche dalla profondità e dalle discontinuità tra i materiali che compongono i diversi strati del globo terrestre. Ma è anche un testo che parla di amore, e di musica. Le vibrazioni provenienti dall’atmosfera e la voce di uno sconosciuto cantore rapiranno la protagonista al mondo minerale, scatenando nel suo compagno il desiderio di «costruire sopra di lei una nuova volta, un nuovo cielo minerale, salvarla dall’inferno di quell’aria vibrante, di quel suono, di quel canto» [1] .

Il racconto non ha in realtà grande attinenza con l’argomento del presente saggio - una riflessione sull’armonia delle sfere in Dante - , ma il titolo Il cielo di pietra può diventare lo spunto iniziale per una riflessione sull’argomento.

Le sfere planetarie che compongono il paradiso dantesco sono un cielo di pietra, nonostante la loro composizione eterea. Anzi, è proprio la presenza di una materia dotata di moto circolare ed eterna, il cosiddetto quinto elemento o etere, a giustificare agli occhi degli uomini del medioevo l’esistenza di una musica celeste derivante dal perpetuo volgersi dei pianeti. Se questo legame appare nella Commedia giustificato e necessario, la teoria dell’armonia delle sfere è però caratterizzata da una persistenza che va ben oltre l’età medievale e la concezione tolemaica dell’universo, superando anche l’interpretazione geometrizzante operata da Keplero nel XVII secolo.

Alcune delle più recenti teorie fisiche che vogliono descrivere il comportamento delle particelle elementari utilizzano in effetti modellizzazioni basate su particolari simmetrie spaziali, quando non precisamente la nozione di armonia, che risalgono alle speculazioni dei pitagorici e di Platone.

Tale tesi è sostenuta da Marc Lachièze-Rey e Jean-Pierre Luminet in un affascinante articolo pubblicato nell’edizione francese di Scientific American [2].

In particolare, la teoria delle superstringhe, secondo la quale il fondamento della fisica microscopica risiederebbe nelle interazioni tra corde/stringhe di diametro infinitesimale, e non tra punti senza dimensione, nel suo riproporre la ricerca di un modello che interpreti efficacemente la natura intima del mondo passando per la conoscenza delle modalità vibratorie di corde inaccessibili ai nostri sensi, farebbe sì che «On retrouve ainsi, par un biais inattendu, la musique secrète des Pythagoriciens, qui n’est perceptible qu’aux <oreilles> adaptées à leur écoute. Dans le Songe de Scipion, Cicéron disait que la musique des astres ne pouvait s’entendre qu’en quittant la Terre pour rejoindre les orbes gigantesques du ciel. La théorie des supercordes nous suggère que la musique des particules microscopiques ne pourrait s’appréhender qu’en plongeant au coeur de l’infiniment petit».

Una simile enunciazione teorica sarebbe probabilmente piaciuta a Leo Spitzer, che sul tema dell’armonia del mondo ha scritto uno dei saggi più ricchi e interessanti [3], che è stato la mia prima guida nel labirinto della storia semantica del concetto di armonia.

La presente riflessione sulle sfere armoniche della Commedia nasce proprio dal tentativo di applicare il metodo d’indagine spitzeriano, tra lessicografia e storia delle idee, all’analisi del concetto di armonia delle sfere per come si presenta nel testo dantesco. L’ipotesi che mi propongo di dimostrare è che vi sia la possibilità di leggere la teoria dell’armonia delle sfere, oltre che come ripresa di un’immagine suggestiva, quale struttura eidetica di fondo dell’universo dantesco.

Tale convinzione verrà verificata in primo luogo con il reperimento dei passi della Commedia nei quali si allude in modo più o meno esplicito alla musica delle sfere, cercando successivamente di rileggere la mappa concettuale dantesca alla luce della nozione di armonia che ne consegue.

 

§ 1. L’Armonia delle sfere: appunti per la «storia semantica di un’ idea»

 

[I tre monaci] incontanente che furono dentro [alla porta d’esso Paradiso], udirono lo suono della rota del cielo che si volgeva; lo quale suono era di tanta dolcezza e suavitate e di tanto diletto, che quasi non sapevano lo sito dove erano, anzi si posono a sedere dentro della porta, tanto erano allegri e dilettosi di quello suono della rota del cielo!

(Leggenda del Paradiso Terrestre, ne Le sette opere di penitenza di San Bernardo)

 

L’armonia delle sfere vive una condizione curiosamente dicotomica. Nelle opere di letterati, viaggiatori, anche fisici, o nelle scritture popolari di cui abbiamo dato un esempio sopra [4], essa si presenta spesso come un immaginifico archetipo dai contorni poco definiti, quando non viene addirittura declassata ad etichetta allusiva di volta in volta della concezione pre-scientifica, del rapimento estatico cui è soggetto qualche personaggio, di un’atmosfera languida e sognante [5] .

Al contrario, in origine l’ambito teorico entro cui tale dottrina si colloca è ben diverso: la giustificazione ed esemplificazione dell’esistenza della musica data dal volgersi perenne delle sfere celesti era di pertinenza della cultura scientifica, e della scienza matematica.

Una riflessione filosofica rigorosa, quella riconducibile alla scuola pitagorica [6] , aveva fondato su precise basi matematiche la disciplina musicale e ne aveva fatto il paradigma di riferimento per il riconoscimento di un disegno d’ordine immanente il cosmo, di cui l’armonia delle sfere sarebbe la manifestazione più alta ed insieme più necessaria (nel senso matematico del termine).

Il reperimento di corrispondenze tra scale musicali e ordine planetario si era spinto a livelli di teoresi di difficile comprensione per i non iniziati, tanto che già in età medievale non è estranea alla tradizione testuale che affronta la teoria una precisa dichiarazione di reticenza relativamente all’inserimento di troppi dettagli tecnici. Si legge infatti al termine del commentario di Macrobio al Somnium Sciponis: nec enim quia fecit in hoc loco Cicero musicae mentionem, occasione hac eundum est per universos tractatus qui possunt esse de musica, quos quantum mea fert opinio terminum habere non estimo, sed illa sunt persequenda quibus verba quae explananda receperis possint liquere, quia in re naturaliter obscura qui in exponendo plura quam necesse est superfundit addit tenebris, non adimit densitatem (Comm. II, 4, 12 ).

Nel presente studio non approfondiremo la questione della possibile sovrapposizione tra scala planetaria e sistema musicale: è un’operazione che Dante non compie nemmeno in nuce, e rischierebbe di portarci lontano. Resta da stabilire se non si possa però considerare proprio questo volubile statuto teorico come costitutivo, e in qualche maniera fondante, una teoria che vive nel continuo temperamento tra un’istanza massimamente allusiva ed evanescente, e dall’altro un così stretto legame con la lingua matematica nella quale sono scritti i misteri dell’universo.

A questo proposito, risulta utile ricordare come il termine stesso di armonia si ricolleghi al convergere di opposti, e come questa connessione si effettui all’interno di una dimensione continua che sfuma, senza soluzione di tale continuità, dall’uno all’altro estremo.

Il richiamo etimologico non è casuale, dal momento che una riflessione sui termini ci introduce già nel corpo del problema di una possibile legittimazione dell’armonia delle sfere.

Effettivamente, la definizione della musica celeste appare problematica già dalla sua formulazione terminologica: l’espressione «armonia delle sfere», si può considerare se non errata almeno anacronistica, in quanto la nozione di sfera, con riferimento al sistema di Eudosso, risulta successiva alla formulazione della teoria che attribuisce al movimento dei pianeti la produzione di una sublime musica [ 7] .

L’invenzione della teoria nota come armonia delle sfere viene comunemente ascritta alla scuola pitagorica o a Pitagora stesso, che secondo la testimonianza di Giamblico (La vita pitagorica, 65-67) [8] era in grado di udire la musica cosmica, e variamente giustificata come un portato degli studi matematici, geometrici, musicali e astronomici (che nella concezione pitagorica mantengono una stretta interdipendenza, e non a caso confluiranno poi nel quadrivio medievale).

Nel suo lavoro Lore and Science in ancient Pythagorism [9] , Walter Burkert si preoccupa di reperire le fonti di tale concezione la quale, anche in virtù della sua caratteristica di assommare in sé una «impressive image» a un «naive thought», avrà enorme diffusione nell’antichità ed oltre: ancora Keplero, che pure ha raccolto la lezione copernicana e si muove a partire da osservazioni rigorose allo scopo di dedurre precise leggi matematiche che regolino il percorso dei pianeti, recupererà il paradigma armonico, seppure riletto in chiave non più aritmetica ma geometrica.

Burkert riconduce la teoria dell’armonia delle sfere ad una concezione pre-scientifica che cerca di rendere comprensibile il mondo disponendo la molteplicità dei fenomeni entro un ristretto numero di schemi (e proprio in virtù di questa sua potenza ordinatrice sarebbe stata favorevolmente accolta dalla cultura medievale). Secondo la lettura antropologica da lui sostenuta, la giustificazione della credenza nella musica cosmica si collocherebbe sullo stesso livello della costruzione dei miti e dei riti, mentre sarebbe un errore postulare una qualche teoria matematico-astronomica da cui si potesse dedurre, o significare, l’esistenza della musica cosmica.

Mantenendosi sul livello delle fonti storiche documentarie, Curt Sachs [10] rileva l’esistenza di una correlazione tra aspetto cosmologico e concetti musicali già presso antiche civiltà indiane e cinesi, avanzando di conseguenza l’ipotesi di diffusione dall’oriente della teoria; l’armonia delle sfere, ricevuta una forma finale in Babilonia, si sarebbe diffusa poi sulle rive del Mediterraneo e avrebbe trovato la sua formulazione matematica in Grecia con il pitagorismo.

Che alla base dell’armonia delle sfere ci fosse una precisa speculazione matematica oppure la suggestione del numero quale principio ordinatore del cosmo , la considerazione dell’universo ordinato, ed ordinato come sistema musicale, è un prerequisito fondamentale per una nutrita serie di teorici riconducibili alla cosiddetta koiné platonico-stoico-aristotelica, che grande influenza eserciteranno su Dante.

È il neo-pitagorico Nicomaco di Gerasa che più di altri riporta in auge l’immaginifica teoria. Nell’ Enchiridion harmonices [11] , manualetto di armonia dedicato ad una colta lettrice, che costituisce il solo scritto di argomento musicale che di questo autore ci sia giunto, egli addirittura postula la necessità del rumore prodotto da un corpo lanciato o rotante, e specifica che la qualità di detto rumore dipende dalla dimensione del corpo, dalla sua velocità e dal mezzo di propagazione [12] .

Severino Boezio, in quel De institutione Musica [13] che proprio a Nicomaco guarda come ad un modello privilegiato, con riferimento alla musica mundana [14] , riprende questa dimostrazione naturalistica e immediatamente condivisibile sulla base di un ragionamento logico, scrivendo:

 

Qui enim fieri potest, ut tam velox caeli machina taciti silentisque cursu moveatur? ( ... ) non poterit tamen motus tam velocissimus ita magnorum corporum nullo omnino sonos ciere, cum praesertim tanta sint stellarum cursus coaptatione coniuncti, ut nihil aeque compaginatum, nihil ita commissum possit intellegit.

(S. Boezio, De Institutione Musica, I, II)

 

Se il suono ha la sua origine nel movimento non può qualificarsi come assurdo l’avere immaginato che, dal momento che tutto l’universo si muove, esso debba produrre una possente armonia. [15]

Dante accoglie l’armonia delle sfere, discostandosi dal dettato del maestro Aristotele nel De Caelo [16] , sulla base di questo ragionamento e dell’auctoritas di Boezio, ma soprattutto di quanto sull’argomento era stato detto dallo «spirito magno» Cicerone.

 

§ 2. Musica coelestis: ipotesi sul primo canto del Paradiso

 

Dopo aver visto le cose di cui sopra vien riferito, io, Maometto, e Gabriele discendemmo al settimo cielo, dove c’erano gli angeli che sono chiamati Cherubini. (...) E tutti lodavano Dio, e lodandolo alzavano a tal punto le loro voci che se la gente del mondo ne udisse anche una soltanto, morirebbe per lo spavento causato da quel suono.

(Il libro della Scala di Maometto)

 

Abbiamo detto che l’esistenza dell’armonia delle sfere era stata negata da Aristotele e dai suoi commentatori, tra cui Averroé, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Ma la fantasia creatrice di Dante doveva essere stata particolarmente toccata dal pensiero di un concerto dei cieli, cantanti la gloria di Colui che tutto move. Oltre questo motivo di carattere squisitamente estetico, non bisogna dimenticare di riconoscere la persistenza nell’opera dantesca dell’eco della corrente di pensiero pitagorico-platonica [17] , mediata principalmente dall’insegnamento di Boezio, Sant’Agostino e San Bonaventura.

A questo proposito, ci sembra particolarmente significativa un’annotazione critica di Giulio Ferroni. Egli sostiene che «la filosofia di Dante non propone novità speculative, ma contempera prospettive diverse» [18] . È proprio sull’idea del contemperarsi, così caratteristica dello spirito della Commedia, ma soprattutto così scopertamente legata all’area semantica musicale, che intendiamo soffermarci nel tentativo di riprodurre la mappa concettuale dantesca, secondo la definizione di Leo Spitzer [19] . Una tale prospettiva impone in primo luogo il reperimento di occorrenze testuali significative: nel nostro caso, si tratta di verificare la persistenza dell’idea dell’armonia delle sfere e di studiarne le modalità di manifestazione.

L’incontro di Dante personaggio con la musica delle sfere avviene entro i primi cento versi della Terza cantica, nel momento in cui egli varca assieme a Beatrice la sfera del fuoco per entrare nel primo cielo, quello della Luna:

 

Quando la rota, che tu sempiterni
Desiderato, a sé mi fece atteso,
Con l’armonia che temperi e discerni,
Parvemi tanto, allor, del cielo acceso
De la fiamma del sol, che pioggia o fiume
Lago non fece mai tanto disteso.

(Par I, 76-81)

L’armonia che temperi e discerni è espressione tecnica e musicale: temperare indica qui l’atto dell’accordatura (tipico soprattutto di uno strumento a corde come la lira, cfr. le sante corde/ che la destra del cielo allenta e tira di Par XV, 5-6, su cui avremo modo di ritornare), mentre nell’espressione discerni sarebbe secondo alcuni commentatori ravvisabile un preciso riferimento alla discretezza dei numeri per mezzo dei quali, secondo la teoria pitagorica, vengono stabiliti i rapporti matematici che organizzano lo spazio sonoro [20] .

Secondo l’Enciclopedia Dantesca, si tratterebbe di «un riferimento preciso alla musica mundana, alla vera e propria armonia delle sfere; ma la maggior parte delle citazioni alludono ad un rapporto non immediatamente evidente che lega musica e simbolismo o, per meglio dire, a fenomeni strutturali interpretati musicalmente» [21] .

Nelle glosse all’unico luogo sicuramente attestato, le edizioni italiane sono nel complesso piuttosto caute: quella a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio [22] si richiama alla dottrina pitagorico-platonica e al Somnium Scipionis, precisando però che a questa musica celeste Dante non farà più riferimento nel corso del poema. Sulla stessa linea anche la Chiavacci-Leonardi che dice esplicitamente che «è quell’armonia delle sfere», e conclude «Nel creare il suo paradiso, Dante segue la tradizione di ispirazione platonica che gli offre la possibilità di raffigurarne aspetti sensibili quali, oltre la luce, il suono» [23] . Particolarmente ricco l’apparato al testo dell’edizione a cura di Natalino Sapegno, che cita testualmente il passo del Somnium Scipionis nella glossa al termine temperi e rimanda ad una serie di altri saggi per ulteriori approfondimenti.

Sembrano adombrare un più esplicito riferimento, almeno terminologico, alla dottrina, due traduzioni della Commedia. L’edizione francese della Bibliothèque de la Pléiade [24] (tradotta e commentata da André Pézard) così riporta la terzina sopra citata:

quand l’orbe qu’eternise
désiderance de toi saisit mes sens
par l’harmonie qu’il régle entre les sphères

Viene qui esplicitamente utilizzato il termine sfere, che non è presente nel testo originale, crediamo a scopo esplicativo (anche se viene a perdersi l’idea del temperamento che è più forte di quella del régler) e con un’evidente allusione alla teoria, di cui sono testualmente citate i due referenti (armonia e sfere) nello spazio dello stesso verso.

Per quanto riguarda la traduzione inglese ad opera di Charles Singleton [25] , se la resa di Par. I non risulta particolarmente evocativa (When the revolution which Thou, by being desired, makest eternal turned my attention unto itself by the harmony which Thou dast temper and distinguish), al contrario la traduzione di un altro luogo che viene generalmente citato come esempio di musica mundana appare qui chiaramente espresso. Singleton rende infatti così fui sanza lagrime e sospiri / anzi ’l cantar di quei che notan sempre / dietro a le note de li etterni giri ; (Purg XXX, 91-93) come

 

So was I without tears or sighs
before the song of those who ever sing
in harmony with the eternal spheres

 

dove, ancora una volta, le parole harmony e spheres compaiono nello spazio del medesimo verso.

Probabilmente meno deferenti verso certa critica dantistica di stretta osservanza filologica, gli studiosi d’oltre confine si permettono con maggiore leggerezza l’avventura entro percorsi esegetici che cercano di cogliere le eco di alcune affascinanti «eresie» presenti nell’opera dell’Alighieri. Le scelte operate in sede di traduzione diventano allora la conseguenza macroscopica di una peculiare modalità di lettura, meno compartimentata sull’aspetto retorico.

Anche in ambito italiano, la disamina sulla musica mundana dantesca percorre vie sotterranee e spesso liminari. È interessante notare come siano autori che si occupano marginalmente di esegesi dantesca, almeno quanto di teoria musicale, i più strenui difensori, almeno a livello di enunciazione teorica, della presenza della teoria dell’armonia delle sfere nella Commedia. Ovviamente viene poi a cadere, in questi contesti estranei a prospettive di analisi testuale e riflessione filosofica, qualsiasi tentativo di giustificazione teorica della presenza di una tale musica.

Nella sua storia dell’astronomia, che già presenta il significativo titolo di «Sfere Armoniche» [26] , Giovanni Godoli afferma che «Dante parla chiaramente della teoria addirittura in più luoghi del poema», doviziosamente citati seppure soltanto con un rimando numerico (Purgatorio XXX, 91-93 e XXXI, 144-145; Paradiso I, 76-84 VI,124-126 XXI, 58-60 e XXIII, 109). Ad uno spoglio attento, non tutti i passi censiti da Godoli possono però essere letti come esemplificazione dell’armonia delle sfere senza incorrere nel rischio di veder amplificare a dismisura la portata semantica del concetto, stemperandone la specificità musicale. Citeremo soltanto il caso più macroscopico: la richiesta di Dante e dì perché si tace in questa rota / la dolce sinfonia di paradiso, che giù per l’altre suona sì divota (Par XXI, 58-60) si riferisce al canto dei beati e non all’armonia delle sfere, a cui il poeta non fa più cenno dal cielo della Luna, e che comunque in nessuna tradizione presenta un punto di discontinuità così marcato al settimo grado (cielo di Saturno).

Sorprendentemente paradossale è la prospettiva teorica entro la quale si muove Luigi Papini [27] , che addirittura si vale della musica mundana quale prova decisiva, oltre all’evidenza di frequentazioni con musicisti come Casella e al presupposto studio delle discipline quadriviali, a favore della tesi di una precisa competenza musicale del poeta, con un rovesciamento di prospettiva rispetto alle argomentazioni consuete: «la prova che a me pare sicura, è la conoscenza che Dante mostra di avere della credenza degli antichi intorno all’armonia delle sfere celesti, la quale va sempre unita alla teoria musicale, anzi ne è una parte. (...) Se Dante dunque aveva questa credenza, doveva conoscere certamente anche il resto della teoria musicale.» L’armonia delle sfere come premessa di un sillogismo resta comunque un unicum documentario [28] .

Abbiamo già notato come la letteratura critica sull’argomento sia vasta e frammentaria, difficilmente collocabile in un contesto disciplinare rigoroso: dal momento che non esiste una tradizione testuale di riferimento in materia la maggior parte delle osservazioni, anche pertinenti e che spesso aprono linee interpretative di particolare interesse, sono reperibili all’interno di un corpus estremamente variegato che comprende raccolte di scritti di esegesi dantesca, lavori sulle dottrine musicali antiche e medievali, saggi di argomento astronomico e testi di più spiccato impianto teorico. La nostra indagine partirà quindi dalla lettera dantesca per poi muovere ad analizzare la complessa mappa concettuale sottostante.

 

§ 3. Nella luce della musica: appercezione sinestetica e saturazione sensoriale

 

Admirez le pouvoir insigne
Et la noblesse de la ligne:
Elle est la voix que la lumière fit entendre
Et dont parle Hermès Trismegiste en son Pimandre.

(Apollinaire, Orphée, in Le bestiaire ou le cortège d’Orphée)

 

Il Paradiso della Commedia è un universo etereo di luce, musica e movimenti armoniosi. La terza cantica si apre non casualmente su una grandiosa immagine di luce, offertaci sotto forma di perifrasi incipitaria con l’espressione la gloria di colui che tutto move. Che il termine gloria adombri quello di luce e virtù è chiarito dallo stesso autore, nell’Epistola a Cangrande della Scala: Patet ergo quomodo ratio manifestat divinum lumen, id est divinam bonitatem, sapientiam et virtutem, resplendere ubique (...) Bene ergo dictum est, cum dicit quod divinus radius, sive divina gloria, ’per universum penetrat et resplendet’ (Epistole, XIII, 21-23). È questo diffondersi della luce divina fino a saturare di sé l’intero universo a costituire l’argomento degli ultimi trentatré canti, ma non solo: vedremo subito che l’effetto di saturazione dello spazio prodotto ad opera del lumen irradians si accompagna a quello uditivo derivante dal volgersi delle sfere celesti.

«Dante ha dato al suo Paradiso una temperie di luce che mancò ai maestri senesi: dispose quella loro stupenda musica degli ori nella trasparente geometria delle sfere» è la tesi esposta da Guido di Pino nel saggio La poesia della luce nell’Inferno dantesco [29] . Anche se non riusciamo a capire cosa dovrebbero rimproverarsi Duccio da Buoninsegna e Simone Martini, questa notazione ci introduce con un’immagine immediatamente evidente nell’atmosfera della terza cantica. Ecco che «temperie», nel suo significato di «equilibrio, giusta proporzione» (basato quindi su rapporti, anche numerici, rigorosi) richiama il tecnicismo musicale «temperare», ma si presenta qui legato al campo semantico della luce; «musica degli ori» è una pretta sinestesia, una figura retorica che ritroveremo come particolarmente significativa nel dettato dantesco relativo alla musica mundana; quanto alla trasparente geometria delle sfere, si tratta della cadenza di un discorso che si muove per immagini lungo il suggestivo percorso del quadrivio medievale: dopo l’aritmetica (temperies) e la musica, la geometria come mediatore e ultimo passaggio verso l’armonia delle sfere eteree, verso la concezione astronomica.

Il richiamo all’elemento geometrico potrebbe peraltro aiutarci a giustificare l’introduzione di una definizione che, se è certamente anacronistica rispetto ai tempi danteschi, lo sembra molto meno per quanto concerne la portata teorica che lascia intravedere, e che appare significativa anche per l’opera dantesca. Scrive Keplero, trecento anni dopo Dante: Duo sunt, quae nobis harmonias in rebus naturalibus patefaciunt, vel lux vel sonus (Harmonice Mundi, liber V caput IV) [30].

Luminosità e musicalità non sono semplicemente un’etichetta che qualifica il Paradiso dantesco, ma possono diventare un indice significativo della presenza di sottostanti rapporti armonici, basati su proporzioni numeriche, che con questa modalità vengono disvelati ai sensi.

Soffermiamoci adesso sull’analisi delle terzine del primo canto del Paradiso, che abbiamo detto costituire la più esplicita allusione alla musica celeste.

 

Quando la rota, che tu sempiterni
Desiderato, a sé mi fece atteso,
Con l’armonia che temperi e discerni,
Parvemi tanto, allor, del cielo acceso
De la fiamma del sol, che pioggia o fiume
Lago non fece mai tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lume
Di lor cagion m’accesero un disio
Mai non sentito di cotanto acume.

(Par I, 73-84)

 

Il passo ha evidenti riscontri nel ciceroniano Somnium Scipionis, sesto ed unico libro della Repubblica conosciuto al Medioevo [31] , narrazione di un immaginario viaggio nell’aldilà compiuto in sogno da Scipione Emiliano, che ebbe enorme influenza sulla cultura filosofica medievale grazie al commento di Macrobio (V secolo). Come il titolo De Re Publica allude all’omonima opera di Platone, così l’aver posto alla fine del dialogo la narrazione di un immaginario viaggio nell’aldilà richiama il mito di Er, con cui si conclude la Repubblica. Platone è però più fonte di ispirazione limitatamente al disegno globale dell’opera, repertorio di situazioni cui attingere, anziché autentico referente dottrinale.

Fonti diverse influenzano il dettato ciceroniano, in cui si ritrovano molti topoi tradizionali di lontana origine mistica, spesso attribuiti a Pitagora, riecheggiati in Platone come negli stoici, e che sono diventati paideia, patrimonio comune.

Come Dante, anche Scipione è stato innalzato oltre il dominio umano, come Dante osserva l’ universo dal cielo, precisamente da quella Via Lattea che, da Pitagora alla dottrina stoica del Somnium, è ritenuta la sede celeste delle anime, qui riservata agli eroi e ai benefattori dell’umanità [32]. Come Dante, Scipione vede ridimensionata l’importanza della Terra, piccolo pianeta della regione sublunare [33] dove tutto (eccetto le anime che transitoriamente vi si trovano ) è mortale e caduco, tanto piccola da provocare rammarico (Cicerone usa paenitet dove Dante dice «...io sorrisi del suo vil sembiante» ) ma, coerentemente con la dialettica alto/basso e la conseguente tensione dell’anima verso l’alto, sottostante l’intero Somnium, su invito dell’Africano leva lo sguardo e passa a considerare lo spettacolo del «templum» [34] entro cui è giunto. Soprattutto, e in questa sede è il particolare che più ci interessa, anche Scipione ascolta la musica delle sfere, e come Dante ne chiede ragione alla sua guida:

 

quid?, hic -inquam- quis est, qui complet aures meas tantus et tam dulcis sonus?". «Hic est -inquit- ille, qui intervallis coniunctus inparibus, sed tamen pro rata parte ratione distinctis, inpulsu et motu ipsorum orbium efficitur et acuta cum gravibus temperans varios aequabiliter concentus efficit; nec enim silentio tanti motus incitari possunt, et natura fert, ut extrema ex altera parte graviter, ex altera autem acute sonent.

(Somnium Scipionis, 18)

 

Bisogna ricordare che la conoscenza diretta del Somnium Scipionis da parte di Dante è ancora oggetto di dibattito: se da un lato la cosa appare altamente probabile, data la diffusione del commento di Macrobio nel corso di tutto il Medioevo, il reperimento di precise occorrenze testuali risulta più controverso.

L’Enciclopedia dantesca non inserisce il passo relativo all’armonia delle sfere tra quelli in cui sarebbe ravvisabile una rispondenza tra le due opere (che effettivamente manca, almeno a livello testuale). Più possibilista sulla conoscenza del testo, ma più recisa circa il suo utilizzo da parte del poeta, appare la posizione di Umberto Bosco che, nel momento dell’ascesa di Dante al cielo delle stelle fisse presso la costellazione dei Gemelli, individua nel Somnium Scipionis il precedente classico del riproposto topos della visione della terra dal cielo (riecheggiato, questo sì, anche nelle scelte lessicali) ma rileva altresì l’incongruenza astronomica di tale visione.

Assai interessante è la conclusione, che riportiamo: «Non è questo l’unico caso in cui in Dante la ragion poetica ha il sopravvento sulla scientifica: per esempio, in Paradiso I, afferma che le sfere celesti emanano, girando, un armonioso suono: questo contro l’opinione di Aristotele e della filosofia scolastica, ma secondo proprio un passo dello stesso Somnium Scipionis» [35] .

Parrebbe di poter cogliere, nelle parole del commentatore, la convinzione dell’esistenza d’una corrispondenza tra citazioni del Somnium e una sorta di delirio poetico dell’Alighieri, che in tali momenti abdicherebbe alle conoscenze della filosofia scolastica.

Ora, non si capisce perché il recupero di una teoria quale quella pitagorico-platonica, certamente «altra» rispetto alla tradizione aristotelico-tomista, ma pienamente legittimata e ripresa anche dai padri della chiesa (da Ambrogio a Origene ad Onorio d’Autun) debba essere tacciato di delirio: volendo rispondere con una provocazione che si connette ad un’immagine tanto abusata nei commenti danteschi come icona della perfezione, si potrebbe osservare che anche per chiudere un cerchio il delirio, almeno a livello strettamente etimologico, è condizione necessaria.

Ritornando al testo della Commedia, non tratteremo per ora della condizione del poeta, appena transumanato, né del movimento circolare che, pur restando sullo sfondo, informa di sé tutta la cantica, come pure la struttura dell’universo dantesco. In questo momento ci interessa puntare l’attenzione sulla compresenza di luce e suono, e sullo stretto legame che si instaura tra i due ambiti sensoriali.

Procedendo ad una sommaria parafrasi delle terzine, osserviamo un passaggio senza soluzione di continuità tra la sfera uditiva e quella visiva: nel momento in cui l’armonia delle sfere celesti attrae l’attenzione di Dante, allora gli si rivela la grande luminosità del cielo. Una appercezione sinestetica che Dante autore connette anche a livello testuale, saturando la misura del verso con i due sintagmi nominali uniti da congiunzione copulativa «la novità del suono e ’l grande lume».

Osservare che luce e suono informano di sé l’intero paradiso dantesco sarebbe poco significativo; più interessante è notare come l’utilizzo della sinestesia visiva/uditiva percorra l’intera Commedia, e si ritrovi all’inizio del viaggio dantesco, al margine della voragine infernale, regno del caos per antonomasia (anche se gioverà sottolineare che quello proposto dall’Alighieri è comunque un caos ordinato, dove la coppia non deve intendersi con valore antonimico). Quando Dante si è già disposto a lasciare la selva oscura ascendendo il dilettoso monte, l’arrivo delle tre fere e soprattutto della lupa, gli impone di retrocedere là dove ’l sol tace (Inf.I, 60) [36].

Tre versi più avanti, a conclusione della terzina che segna l’apparizione sulla scena di Virgilio, il poeta latino viene definito come Chi per lungo silenzio parea fioco (v.63), con un ritorno della coppia sensoriale udito/vista, questa volta «in absentia».

In quest’ultimo caso, ci risulta chiarificatrice una delle interpretazioni avanzate dalla critica dantesca sul significato letterale del verso, e più precisamente sull’attribuzione dello stato di silenzio: questo non andrebbe ascritto a Virgilio personaggio, né alla ragione da lui personificata, né alla memoria del poeta classico. Si tratterebbe invece del silenzio del Sole, che non penetra nelle oscure profondità del limbo dove Virgilio ha la propria sede eterna, temporaneamente diserta per accorrere in aiuto di Dante.

Se il sole tace, ne consegue che si abbia un luogo d’ogne luce muto, e che chi vi si trova a causa di questa privazione diventi fioco. Oltre l’appercezione sinestetica si pone però un’interpretazione simbolica abbastanza scoperta. Con un’immagine poeticamente molto efficace e filosoficamente impegnativa, Dante disegna un luogo ove vengono meno i caratteri positivi di esattezza, luminosità, musicalità che sono propri di Dio; caratteri che si sovrappongono agli attributi solari-apollinei, che però nella selva oscura non sono presenti, o meglio, «tacciono», sospendendo così la propria opera ordinatrice. Ed ecco che già nei primissimi canti del poema incontriamo il ruolo divino di lumen irradians e numero numerans attribuito all’astro solare, con la seconda accezione che può essere intesa come idea musicale.

Facciamo un passo indietro, e torniamo a considerare il Somnium Scipionis. Nell’opera ciceroniana viene riservato al sole un ruolo centrale, nonchè la collocazione tipica dell’ordine caldeo, di medium tra i sette pianeti conosciuti; questa posizione privilegiata giustifica il ruolo rivestito dal sole, che è dux et princeps et moderator luminum reliquorum, mens mundi et temperatio (Somnium, 17).

Cicerone qui sta mediando tra la visione della maggior parte degli stoici, che fanno dell’etere il summus deus, e quella di Cleante, che vi sovrappone l’immagine del sole-dio, avanzando quella che è stata considerata una visione eliocentrica mistico-religiosa, seppure non astronomica. Per i nostri intenti, risulta particolarmente interessante una nota riportata nell’ edizione del De Re Publica a cura di E.Bréguet [37] , che ricorda come la posizione occupata dal sole nella successione planetaria corrisponda, tra le sette corde della lira, a quella della mese, a partire dalla quale la lira viene accordata.

Il ruolo del sole quale dux et princeps et moderator, ma più ancora quale mens mundi et temperatio, viene a questo punto letto anche all’interno della concezione musicale dell’armonia delle sfere. In particolare l’epiteto temperatio, in questo contesto, viene interpretato come un’ ulteriore allusione all’accordatura delle corde a partire dalla mese [38] , con una suggestiva precisazione per quanto riguarda la scelta lessicale: Cicerone non scrive temperator, «termine parimenti ciceroniano che qui si sarebbe allineato con precisa concinnità a moderator, ma che Cicerone non usa perché non si tratta ora della divinità trascendente, che regge in equilibrio il mondo dall’esterno, ma del principio stesso, panteisticamente immanente nelle cose, del reggerle» è la puntuale osservazione di Ronconi nell’edizione del Somnium da lui curata [39] .

Un’idea certamente suggestiva e che non sembra del tutto estranea al sentire dantesco, soprattutto se si confronti quanto detto a proposito di Cicerone con la definizione del Sole che viene dal poeta proposta nel momento dell’ascensione al cielo corrispondente, in cui si dice: Lo ministro maggior de la natura, / che del valor del ciel lo mondo imprenta / e col suo lume il tempo ne misura (Par X, 28-30). In particolare, ritorna in questa terzina un altro termine chiave della lettura «musicale» del testo del Somnium: quello di valore, che compare in uno dei passi la cui interpretazione ha creato il maggior numero di perplessità tra i commentatori ciceroniani, producendo un florilegio di ipotesi tra le più fantasiose.

 

Ille autem octo cursus, in quibus eadem vis est duorum, septem efficiunt distinctos intervallis sonos, qui numerus rerum omnium fere nodus est

(Somnium, 18)

 

La mancata sovrapposizione tra gli otto giri e i sette suoni ha convogliato la riflessione esegetica sull’espressione eadem vis, a cui viene generalmente attribuito il significato di velocità di rotazione, senza però riuscire a stabilire in maniera univoca quali siano i pianeti che ruotano con la medesima velocità. Più interessante l’ipotesi proposta ancora dalla curatrice dell’edizione Les Belles Lettres, la quale riprende da Th.Reinach la traduzione di vis (gr. dynamis) come valence, nel senso di «la place et la function de chaque note dans le tétracorde auquel elle appartient», e la applica ad una struttura per tetracordi disgiunti che assicuri la copertura dell’ottava, e nella quale sono le note estreme ad avere la medesima vis: vis, dynamis, valore della nota, che a questo punto sembra quindi essere accostabile al concetto di «qualità sonora».

Applicare quanto detto alla Commedia dantesca può sembrare in un primo momento azzardato, ma se si consideri la sommatoria delle concordanze testuali, avvalorate dalla possibile sovrapposizione tra il ciceroniano mens mundi e il dantesco ministro maggior della natura, e rilette nel quadro dell’azione dell’anima del mondo del Timeo platonico (riferimento fondamentale per ogni dottrina che disponga l’universo entro uno schema musicale) non così ingiustificato. È altamente probabile che Dante si ponesse in posizione critica rispetto alle riletture cristiane dei classici: se da un lato la sua posizione appare coerente con l’ortodossia cristiana e quindi il ruolo del sole viene ridimensionato, dall’altro non è forse estraneo agli intenti danteschi un tentativo di riconfermarlo nel ruolo di congiunzione (synaphe) tra i due tetracordi che risuonano nella girazione dei pianeti [40] .

È proprio questa armonia ordinata dalla presenza del sole, che nel regno infernale è descritta in absentia, che si ritrova come caratteristica precipua del Paradiso, dove si moltiplicano le immagini di luce associate alla musica: gli spiriti che, nel cielo del Sole, si dispongono a formare una corona attorno al poeta, sono più dolci in voce che in vista lucenti (Par X, 66), ma la loro dolce melodia è ineffabile, come avverte Dante autore:

 

e ’l canto di quei lumi era di quelle;
chi non s’impenna sì che là su voli,
dal muto aspetti quivi le novelle

(Par X, 73-75)

Ancora un carattere dell’atto percettivo descritto in Par I deve essere indagato: la saturazione dello spazio. A differenza di quanto era stato sostenuto da Cicerone, Dante non considera in termini tecnici una saturazione dello spazio musicale (ravvisabile nella struttura tetracordale adombrata nel Somnium, che si tratti del precipitare degli estremi sul Sole-mese o più semplicemente della chiusura dell’ottava), e anche per quanto riguarda l’emergenza fisica separa le due cause dei propri dubbi: della luce lo colpisce l’aspetto quantitativo, l’estensione; per quanto riguarda la musica è affascinato piuttosto dalla sua novità, dalle caratteristiche qualitative di questo suono, e forse anche dal suo rendersi percettibile tutto d’un tratto senza alcun progressivo avvicinarsi che possa aiutare a collocare nello spazio la fonte sonora. Ancora una volta, è piuttosto la dimensione del tempo ad essere in causa per la musica, e quella dello spazio per la luminosità.

Musica eterna e luce infinita, che però non possono essere immediatamente riconosciute in tutte le loro implicazioni da Dante personaggio.

Diversamente si era interrogato Scipione nel Somnium, in un primo momento a proposito della luminosità riscontrata nella Via Lattea:

 

(...) erat autem is splendidissimo candore inter flammas circus elucens- quem vos, ut a Grais accepistis, orbem lacteum nuncupatis

(Somnium, 16)

 

e di seguito, relativamente alla musica celeste:

 

quid?, hic -inquam- quis est, qui complet aures meas tantus et tam dulcis sonus?

(Somnium, 18)

 

Oltre a qualificare il sonus sia quantitativamente (tantus) che qualitativamente (tam dulcis), Cicerone si sofferma a lungo ad indagare la teoria dell’armonia delle sfere, dimostrando di essere almeno a conoscenza della letteratura tecnica sull’argomento. Nel passo ciceroniano è poi evidente già a livello terminologico l’impressione di saturazione: Scipione afferma che il sonus compleat, «riempie» le sue orecchie. E la chiusa del capitolo del Somnium che tratta dell’armonia delle sfere non fa che puntualizzare il parallelo tra vista ed udito:

 

Hic vero tantus est totius mundi incitatissima conversione sonitus, ut eum aures hominum capere non possint, sicut intueri solem adversum nequitis eiusque radiis acies vestra sensusque vincitur

(Somnium, 19)

 

L’opzione della saturazione, se da un lato appare molto suggestiva ed è efficacemente sovrapponibile ad una lettura musicale, è però utilizzata come l’elemento «versus» la teoria dell’armonia delle sfere da Aristotele. Riprendendo la coppia di aggettivi proposta da Cicerone nel Somnium, potremmo immediatamente osservare come la confutazione del De caelo si basi più sul tantus che sul tam dulcis, come qualità del sonus celeste.

In un primo momento, Aristotele illustra la teoria pitagorica qualificandola come gradevole ed interessante, anche se falsa. È egli stesso a riportare la giustificazione attribuita ai pitagorici del perché non udiamo la celeste armonia: perché un suono o un rumore non vengono percepiti se non in contrasto con il proprio opposto, il silenzio o meglio l’assenza del suono medesimo; dal momento che quello prodotto dalla rotazione delle sfere planetarie è un suono che ci è presente sin dalla nascita, non è possibile riconoscerlo, in quanto ci manca la percezione del suo contrario. Una saturazione per assuefazione, simile a quella provata dai fabbri che appaiono indifferenti al rumore provocato dalla propria quotidiana attività lavorativa.

Basata su una diversa sfumatura semantica del concetto di saturazione è la posizione propria di Aristotele, decisamente più recisa nel negare l’armonia delle sfere: alla domanda perché non udiamo la musica delle sfere risponde perché non c’è nessuna musica, di più non c’è nemmeno nessun rumore. Non si sofferma qui su tecnicismi musicali, non gli interessa avanzare ipotesi su presunte qualità celestiali o cacofoniche del suono: non esiste nessuna musica, ed è facilmente dimostrabile, per assurdo. Se esistesse un suono prodotto dalla rotazione degli astri, sarebbe talmente forte ed intenso da distruggere la vita sulla terra, cosa che non è. Quindi, non esiste alcuna musica delle sfere. Ma perché non esiste? Perché gli astri si muovono nel medium della propria sfera, e quindi non c’è attrito [41] .

La soluzione, o meglio lo spostamento di prospettiva che permette di aggirare l’ostacolo della confutazione di Aristotele arriva proprio da un aristotelico, Simplicio, il cui commento greco al De Caelo viene tradotto in latino da Guglielmo di Moerbeke nella seconda metà del XIII secolo.

Simplicio sposta l’attenzione dall’udibilità della musica in sé, attorno alla quale ci si interrogava con gli strumenti della scienza acustica del tempo, allo stato ricettivo in cui è richiesto di porsi all’ascoltatore.

 

Forte igitur, secundum virorum philosophiam, solvendam instantiam, dicendo quod non omnia sunt invicem commensurata, neque omne omni est sensibile neque apud nos. Insinuant autem canes odorantes animalia de longe, quod homines non odorant. Quanto itaque magis, intantum natura distantibua, quantum incorruptibilia a corruptibilibus et caelestia a terrenis, verum est dicere quod divinorum corporum sonus terrenis auribus non est audibilis! Si autem aliquis et hoc corpus terrenum separatum et autoideale ipsius et caeleste sedile et eos quam in ipso sensus purificatos habeat, aut per bonam sortem, aut per vitae bonitatem, aut adhuc propter sacerdotalem perfectionem, iste utique videbit quae aliis invisibilia sunt et audiet quae ab aliis non audiuntur, sicut narratur Pythagoras extitisse. Divinorum autem et immaterialium corporum, si utique fiat aliquis sonus, neque percussivus neque perimens fit, sed generativorum sonorum excitat virtutes et operationes et cognatum sensum perficit. Et proportionem quidem habet quandam ad sonum concurrentem cum motu terrenorum corporum. Operatio autem quaedam est motus illorum impassibilis soni, qui apud nos fit propter sonativam aeris naturam. Si igitur ibi aer passivus non est, constat quod neque sonus utique erit. Sed videtur Pythagoras sic dicere harmoniam illam audivisse tamquam et in numeris harmonicas proportiones intelligens, et quod in ipsis audibile, audire dicebat harmoniam. -Dubitaret autem utique quis merito, propter quid ipsa quidem astra visivis nostris sensibus videntur, sonus autem ipsorum auribus nostris non auditur. Et dicendum quod neque astra ipsa videmus. Neque enim magnitudinem ipsorum aut figuras neque excellentes pulchritudines, sed neque motum per quem sonus fit, sed velut illustrationem quandam ipsorum videmus talem, velut et solis circa terram lumen et non ipse sol videtur. Forsitan autem neque utique erit mirum, visivum quidem sensum veluti immaterialiorem et secundum actum magis axistentem quam secundum passionem, et mulutm aliis supereminentem, claritate et fulgore caelestium honorari. Alios autem sensus neque alias alteras assignet causas probabiliores, amicus sit sed non inimicus habeatur [42] .

 

È interessante notare come il commentatore faccia esplicito riferimento a Pitagora e alle credenze che volevano che il filosofo udisse l’armonia celeste essendo in condizione di trance; egli però non si limita a questa notazione aneddotica, ma cita esplicitamente la riconoscibilità di proporzioni e numeri al suo interno.

Bruno Nardi, che ha il merito di essere uno dei pochi ad affrontare nello specifico il problema dell’armonia celeste nel poema dantesco [43] , dopo aver riportato la tesi di Simplicio conclude sostenendo che la musica mundana «diletta gli orecchi degli uomini divini che hanno purificato i loro sensi nel quotidiano sforzo di elevazione verso il mondo superiore; e risuona alla fantasia del Poeta che ha compiuto la sua purificazione sulla cima della montagna santa, dopo avere attraversato il duplice regno del peccato. Non l’udirono, quel divino concento delle sfere, Aristotele e Tommaso, perché troppo la loro mente giudicò "ex apparentibus secundum sensum» ; l’udirono invece Pitagora e Dante, che seppero innalzarsi sopra il mondo terrestre dei sensi. (...)" [44].

Per Simplicio la musica delle sfere non va dunque intesa come una vibrazione propagantesi nell’aria che colpisce l’udito umano, ma come un atto intellettivo, attraverso il quale l’uomo accede alla comprensione dei rapporti armonici che regolano la struttura ordinata dell’universo [45] . Ed è proprio questa sfumatura che verrà ripresa da Dante che, nonostante le confutazioni mosse da Tommaso, non rinuncerà ad inserire nel suo paradiso un tale concento dei cieli: l’armonia delle sfere non va tanto ascoltata a seguito di una percussione dell’onda sonora, va riconosciuta con un atto intellettivo.

 

§ 4. Intendere l’armonia

 

Mais tu sais bien que tous les gens dont tu me parles, tous tes «musiciens», comme on les appelait autrefois, n’ont été que d’assez agréables jongleurs: ils ont gambadé sur les octaves ainsi que sur des échasses, du haut desquelles ils culbutaient leurs accord...Mais ils n’ont jamais soupçonné cette essence qui nous pénètre, nous anime, nous fait exister, «ce chant énorme des planètes» que Pythagore a préconnu, et sur lequel on s’est si bien mépris!

(Segalen, Dans un monde sonore)

 

Un discorso che puntasse a sviscerare il concetto di «intendere» nel dettato dantesco ci porterebbe molto lontano e soprattutto, su un terreno teorico distante da quello che abbiamo deciso di percorrere nel corso di questa analisi. Moltissime le occorrenze del verbo intendere nella produzione dantesca, ricollegabili principalmente a tre diverse aree semantiche, di cui le prime sono tra loro speculari: si tratta di quella relativa all’attribuzione di un significato (e quando dico terra intendo...) e dell’altra che si concentra invece sul momento in cui tale significato viene correttamente capito, come sinonimo quindi di «comprendere» (con una significativa apertura dei sinonimi fino a riconoscere e percepire).

Oltre questi significati e, potremmo dire, in un’accezione assoluta del termine, si pone il senso di intendere come appare nella terzina seguente: