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Il tracollo dell’urbanistica

di Pier Luigi Cervellati* - 17/09/2009

Fonte: utopieconcrete

 

Iniziato da oltre un quarto di secolo, segue la “grande mutazione” che ha caratterizzato, nello stesso periodo la società (e dunque, la città) italiana. All’insegna dello sviluppo, in questi ultimi anni definito “crescita” - (mentre all’inizio, nel secondo dopoguerra, era valutato “progresso”) - l’assetto urbano e territoriale si è frantumato, sparpagliato, sbriciolato. La campagna, erosa giorno dopo giorno dalle nuove costruzioni e dalle infrastrutture non sempre indispensabili, è ridotta in brandelli avvelenati dalle culture “industrializzate”.
Adesso c’è la crisi. Tutti sperano nella ripresa. Il piano casa delineato dal governo è applaudito da tutte le Regioni con l’auspicio che la produzione edilizia si riprenda.

Di crisi in crisi la ricetta rimane immutata:
continuare a costruire
La prima espansione postbellica dell’urbanizzato,
quella degli anni Cinquanta e Sessanta,
gli anni della “ricostruzione postbellica”, era
in funzione della crescita demografica e delle
nuove attività produttive. Si bloccò anch’essa
nei primi anni Settanta (guerra del Kippur)
e si risolse incrementando con risorse pubbliche
la produzione di alloggi “economici
e popolari” spacciati come edilizia pubblica
anche se di edilizia sovvenzionata (pubblica)
c’era poco e nulla. Sarà questa tipologia edile,
nel decennio successivo, a incrementare la
richiesta di un nuovo modo di abitare.
Il passaggio dall’alloggio in affitto al condominio
(economico e popolare/cooperativo)
in proprietà, rappresentò un profondo miglioramento
sociale e culturale. Il transitare
dal condominio alla villetta, a schiera, isolata
o accorpata, mono o bi-familiare, alla palazzina
nei rilievi o in campagna e soprattutto
al mare (seconda casa) fu facilitato dalla presenza
dell’alloggio in condominio.
La seconda ripresa espansiva dell’urbanizzato
si arena nei primi anni Novanta, con la crisi
della prima Repubblica. Si accorciano gli intervalli
fra una crisi e l’altra. Il ciclo edilizio
si riprende nell’ultimo decennio, avvio del
3° millennio; quando trionfa quella che sarà
definita la “bolla edilizia americana”. L’ultima
ripresa però è diversa. Anche qui ci sono
state villotte e villette, case a schiere e alloggi
in villaggi e villaggetti, acquisiti anche con
mutuo, ma l’ultimo “ciclo” espansivo ha avuto
sostegni più forti.
Il modello dell’ultima ripresa
Si ha con la svendita del Demanio Pubblico
e con la fine della pianificazione urbanistica.
Lo Stato per aumentare le entrate, per denunciare
minore indebitamento, “cartolarizza”.
Non poche aziende fanno altrettanto. Si
vendono anche le proprie sedi come lo Stato
vende i propri Ministeri. L’acquirente, in
genere un’immobiliare, una “estate” come si
usa inglesizzare, le affitta al venditore. Con
l’affitto paga la rata del mutuo pattuito con
una banca per l’acquisto. La banca ha tutto
l’interesse a gestire, a far proprio, il capitale
delle stesse immobiliari, specie se quotate in
Borsa. L’aumento di valore delle azioni (della
banca o dell’immobiliare o del faccendiere)
permette di acquisire nuovo capitale da investire,
ancora in edilizia, per ottenere - in una
specie di catena di Sant’Antonio - altro capitale,
ulteriore rialzo del valore delle azioni,
altri mutui… in un crescendo in cui anche
le Amministrazioni comunali credono di arricchirsi
o, quanto meno, di mantenere il bilancio
in pareggio. Concessioni edilizie, perequazioni
urbanistiche, ICI seconde case e
oneri monetizzati, alimentano le casse comunali
e il libero mercato. Non è necessario che
i fabbricati siano occupati o venduti o che
il costo di gestione dell’urbanizzato diventi
insostenibile, l’importante è aver trasformato
il piano da strumento regolatore dell’assetto
urbano e territoriale a promotore di uno sviluppo
economico basato sull’edilizia.
L’orgia pantagruelica di occupare/cementificare
il territorio
Mentre si proclama lo sviluppo sostenibile e la
crescita qualificata, l’etica del mercato e l’estetica
del paesaggio, si privatizza il territorio e si
fa dimenticare il reale significato delle parole.
Si impedisce di affrontare le conseguenze e le
incidenze negative (anche e soprattutto economiche)
di questo furor costruttivo. È forse
opportuno ricordare i fondamenti disciplinari,
la ricerca dell’ormai dimenticato biologo
e pianificatore Patrick Geddes che dimostrò
come “progresso/sviluppo/crescita” non sono
il sinonimo di “evoluzione”. Anzi. Questi termini
si contrappongono. “Sviluppo” equivale
“all’incremento nella quantità della ricchezza
e nell’aumento della popolazione” mentre
“evoluzione” è da intendere il “miglioramento
della qualità media individuale”.
La moltiplicazione dei mezzi materiali “tende
solo a una maggiore produzione di una
crescita di povertà”.
Con la perequazione, cioè la vendita da parte
delle Amministrazioni comunali di metri
cubi edificabili nei terreni ancora liberi, i
profitti non pareggiano le spese di gestione
che aumentano con l’espandersi dell’urbanizzato,
fino a diventare insostenibili. Non si
fa più manutenzione e il degrado aumenta.
La continua urbanizzazione non può essere
un ciclo perpetuo.
La città e il suo territorio negli ultimi decenni
sono diventati la scena di una dissipazione
collettiva di risorse pubbliche e private.
L’idea dello sviluppo rimane così tenacemente
perseguito perché è spacciato, al pari delle
auto e delle relative infrastrutture viarie,
come pilastro della modernità e non come
produzione di entropia.
Partecipare per conoscere.
Conoscere per pianificare il territorio
come bene comune
Conoscenza e partecipazione richiedono
non solo trasparenza e capacità di ascolto
(per dialogare, per poter partecipare) impongono
di considerare l’urbano, la ex città,
quale “bene pubblico”, appartenente alla
collettività. Come dovrebbero essere l’acqua,
l’aria e la terra (e in particolare l’energia).
Bene, in quanto pubblico, non monetizzabile.
Non appartenente all’economia del libero
mercato.
La ricerca di soluzioni concrete, realizzabili
se e in quanto partecipate, diventa occasione
per tentare di limitare il disastro territoriale
traducibile in un’accentuata disgregazione
sociale e in un totale annullamento dei rapporti
di convivenza civile. Crescente processo
di atomizzazione della società, sviluppo
dell’urbanizzato e del motorizzato individuale,
mono cultura del mattone e del cemento,
mentre la popolazione invecchia e diminuisce,
possono coincidere con la fine della polis
e della civitas.
Il governo del territorio
Per governare il territorio la questione del
rinnovamento istituzionale va rimessa al centro
di ogni progetto. Vanno ri-configurate le
fisionomie - politiche e funzionali – degli
enti territoriali per definire una nuova tipologia
urbana: la città metropolitana.
Attenzione. Metropoli non significa città,
megacittà, sempre più grande. Non si fa riferimento
al metro. E neppure al metrò. Metropoli
significa “madre di città”. Significa
che la città per rigenerarsi deve rapportarsi
alla periferia, all’hinterland; in un rapporto
opposto a quello che si é manifestato nell’ultimo
quarto di secolo. Si deve ricercare e
sperimentare l’alternativa a uno sviluppo insostenibile.
Eliminando la Provincia con la città metropolitana,
non solo diminuisce l’apparato
istituzionale: si pongono responsabilità nuove
alle altre amministrazioni in particolare a
quelle regionali e comunali che nel rapportarsi
quali nuove municipalità non potranno
ripetere l’attuale conformazione che impedisce
la partecipazione e svuota di significato
(rende del tutto inutili) consigli comunali e
i tanti quanto inefficaci consigli di circoscrizione
anche là dove esistono.
La “polarità” dello spazio umano e rapportarlo
al concetto di “città di città”; il
coinvolgimento, responsabilizzato, degli
abitanti di ciascuna città
La “polarità” dello spazio umano è fatto di
un “dentro” e di un “fuori”. (Jean-Pierre
Vernant, 07). Questo dentro è rassicurante,
turrito, stabile. Il “fuori” è aperto, mobile,
inquietante. Viene subito in mente la città
storica, chiusa da mura, circondata dalla
campagna, dall’ambiente naturale che spesso
coincideva con l’infinito, con lo sconosciuto.
“Perché ci sia veramente un “dentro” bisogna
che possa aprirsi su un “fuori” per accoglierlo in
sé. Se ogni gruppo umano, ogni società o comunità,
ogni cultura si pensasse e si vivesse come
la civiltà di cui si deve mantenere l’identità e
assicurarne la permanenza contro le irruzioni
dall’esterno e le pressioni interne, nondimeno
ciascuna sarebbe confrontata al problema
dell’alterità nella varietà delle sue forme”. Per
mantenere l’identità occorre aprirsi all’altro
fino a ottenere quelle alterazioni che continuamente
si producono nel corpo sociale attraverso
il flusso delle generazioni che fanno
posto ai necessari contatti, agli scambi, con
“lo straniero” del quale nessuna città può fare
a meno.
La propria identità (spiega ancora Vernant)
non può né concepirsi né definirsi se non in
rapporto all’altro. Alla molteplicità degli altri.
Se l’identico resta chiuso in se stesso non
c’è pensiero possibile. E quindi neppure civiltà
possibile.
Metropoli come sistema di differenti municipalità
Gli enti territoriali interessati all’assetto
del territorio – non solo dello spazio fisico
- sono (dovrebbero essere) la Regione e la
“città metropolitana” intesa nel senso prima
descritto. Programmazione regionale e pianificazione
metropolitana. I singoli Comuni
appartenenti alla città metropolitana sono
da considerare nel loro insieme alla stregua
di una “città di città”. La città metropolitana,
organizza e equipara il territorio, evita il
formarsi, al suo interno, di grandi e piccole
municipalità. Ciò comporta una ripartizione
delle “città” che compongono la grande (o
media) città.
Le singole municipalità - coordinandosi e
collaborando, creando relazioni di complementarità
formano il governo metropolitano
- in particolare formano una struttura in cui
il miglioramento della qualità media individuale,
l’evoluzione della comunità, si ottiene
coordinando lavoro e cultura, tempo libero
e risparmio energetico, rifiutando l’omologazione
e lo spreco. Cercando di innescare
una politica di rigenerazione urbana e territoriale.
Rigenerare la città in senso biologico
(il richiamo a Geddes non è casuale) rappresenta
una sfida in una società in cui non si
sa rinunciare allo sviluppo pur sapendo che
l’intervallo fra una crisi e l’altra è sempre più
breve, fino a che la crisi non risulterà permanente
(se non lo è già).
Senza dimenticare la bellezza
I marciapiedi ingombri di automobili, le aiuole
inselvatichite, i cumuli di immondizia,
l’asfaltatura dei lastricati di pietra, lo squallore
dell’arredo standardizzato, soprattutto la
privatizzazione dei luoghi pubblici, accentuano
ostilità e senso di estraneità, ispirano comportamenti
violenti. Nel corso degli ultimi
diecimila anni l’eredità biologica dell’uomo
non è sostanzialmente cambiata. Però, attraverso
l’evoluzione culturale, è radicalmente
mutato l’ambiente sociale e naturale. Si è
prodotto, così, un mondo in cui chi lo abita
non è (o lo è sempre meno) predisposto biologicamente.
Le “staminali” della rigenerazione urbana
Studiando con attenzione lo sviluppo urbano
degli ultimi decenni, sarà possibile individuare
un certo numero di città/comunità
non sempre coincidenti con l’attuale suddivisione
dei comuni e dei “quartieri”, ma
sempre riferite ad una “storia” o a una “struttura”,
a un “impianto” - (come appunto le
parrocchie, o brandelli di agricolo, dimesso
o meno, verde esistente; in particolare le
aree demaniali non ancora svendute a speculazioni)
luoghi tutti in grado di facilitare
l’aggregazione degli abitanti e il loro senso
di appartenenza a una comunità, appunto, a
un luogo. Una piazza, un giardino, una villa
storica o un panorama, un ex fabbrica o un
ex caserma, costituirà il “monumento” delle
nuove municipalità.


* Docente Progettazione e riqualificazione urbana
e territoriale, IUAV, Venezia