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Relitti radioattivi

di Mariavittoria Orsolato - 17/09/2009

 
 

Un vecchio detto da marinaio saggiamente recita: “Chi in questo mare naviga, questi pesci prende”. Se il mare in questione è il nostro, non meraviglia il fatto che pochi giorni fa, a largo di Cetraro, località in provincia di Cosenza, sia stato rinvenuto il relitto di una motonave colma di rifiuti tossici. Il ritrovamento è stato possibile grazie alla testimonianza di Francesco Fonti, ex trafficante di droga affiliato al clan Mutu e ora pentito di ‘ndrangheta sotto protezione. Ma le segnalazioni su qualcosa che nel Tirreno non andava sono vecchie di anni. Le dichiarazioni che il pentito Fonti ha rilasciato nell’aprile del 2006 a un magistrato antimafia, non sono infatti il primo tassello dell’ennesima indagine sulla mafia locale, ma vanno a far quadrare un cerchio a cui da decenni i nostri magistrati stanno cercando di dare paternità certa.

E il fatto che siano trascorsi ben 3 anni e mezzo prima che i sopralluoghi del caso fossero autorizzati ed effettuati, la dice lunga su quale sorta di vaso di Pandora potrebbe essere scoperto e scoperchiato tra le acque del mar Mediterraneo che lambiscono le nostre coste.

La pista percorsa dagli inquirenti è quella del traffico internazionale di rifiuti radioattivi, la stessa che a Mogadiscio nel 1993 costò la vita a Ilaria Alpi e a Miran Hrovatin e che in molti percepiscono come uno dei tanti misteri della prima repubblica, in cui sono coinvolti servizi segreti, politici e faccendieri impegnati a fare la spola tra Olanda e Somalia, Calabria ed ex Jugoslavia. Il procedimento usato dai clan e chiarito da Francesco Fonti è molto semplice: si scelgono carrette del mare già malridotte o in disuso - navi cosiddette “a perdere” - le si caricano con scorie e sostanze tossiche, poi si simula un naufragio e le si fa inabissare, pretendendo oltretutto lauti risarcimenti dalle compagnie assicurative.

“Nelle navi in quel momento c’era una certa quantità di fusti che non erano stati smaltiti all’estero – spiega il verbale di dichiarazione di Fonti –. Abbiamo preso le casse di esplosivo e le abbiamo posizionate nei punti dove doveva esplodere per far imbarcare l’acqua e mandarle a fondo”. Dal resoconto del pentito dunque, la n’drangheta è solo il semplice esecutore dei finti naufragi e, sempre secondo Fonti, chi voleva la Cunski affondata assieme a 120 bidoni di scorie risiedeva in Norvegia, non in Italia.

La matassa è decisamente intricata ma Bruno Giordano, procuratore capo di Paola, sembra averne trovato il bandolo. Sua infatti la scoperta che lungo il greto del torrente Oliva, tra Aiello Calabro e Serra d’Aiello, stazionavano metalli pesanti la cui radioattività era molto intensa, sua anche l’intuizione di verificare un documento dell’Arpa calabrese in cui si segnalava la presenza di un oggetto lungo almeno 80 metri, sul fondale a largo di Cetraro. Nonostante la Marina non disponesse dei mezzi adatti al sopralluogo, Giordano si è rivolto all’assessore all’Ambiente della regione Calabria, Silvestro Greco, il quale è riuscito a recuperare un robot in grado di scannerizzare il relitto.

Le immagini trasmesse sabato dai maggiori notiziari sono le stesse che il robot ha ripreso a 500 metri di profondità e presentano uno scheletro metallico da cui fuoriesce un fusto quasi del tutto schiacciato, a conferma delle illazioni di molti e della testimonianza del pentito Fonti. Dalla fine degli anni ’70 sono circa trenta le navi dei veleni affondate lungo le coste italiane in circostanze ancora tutte da chiarire, ma le rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia connesse alle scoperte giornalistiche di Ilaria Alpi, fanno pensare che nel quindicennio a cavallo tra il ’76 e il ’91 vi fosse un vero e proprio traffico di scorie nucleari, organizzato tra il nord Europa (dove il carico partiva) e alcune località dell’Aspromonte (dove si decideva come smaltirlo).

L’ipotesi è che determinate autorità statali europee, non sapendo dove smaltire i propri carichi di rifiuti radioattivi, si affidassero con la complicità di altre cariche ai servizi della malavita organizzata per rimuovere il problema alla radice, evitando così di scatenare battaglie con un’opinione pubblica contraria allo stoccaggio di scorie nucleari in patria propria. Ad avvallare la tesi dei magistrati sta la testimonianza di Fonti riguardo altre due navi fatte inabissare a Metaponto e Maratea, ma sta anche una relazione firmata dal dottor Giacomino Brancati - medico e consulente della Procura di Paola – nella quale si spiega come “si può confermare l’esistenza di un eccesso statisticamente significativo di mortalità nel distretto di Amantea rispetto al restante territorio regionale, dal ‘92 al 2001, in particolare nei comuni di Serra d’Aiello, Amantea, Cleto e Malito”. Il riferimento è all’impressionante escalation di tumori maligni di colon, retto, fegato e mammella, registrati nel distretto interessato dagli affondamenti dolosi e probabilmente dovuti all’eccessiva radioattività.

Interrogato ieri nello spazio del Question Time, il Governo pare non aver preso in seria considerazione gli sviluppi dell’indagine della Procura di Paola: nonostante Pisanu abbia promesso una disamina del caso in Commissione Antimafia, per ora l’unico dicastero impegnato nella risoluzione di quella che sembra sempre più una crisi sanitaria è quello guidato da Stefania Prestigiacomo. Il ministero dell’Ambiente, coadiuvato dall’Arpa calabrese e dall’Ispra, ha promesso di realizzare quella che in gergo si chiama “caratterizzazione” del suolo, per effettuare rilevamenti su ogni tipo di campione in grado di fornire informazioni sulle tipologie e la diffusione degli inquinanti contenuti nei bidoni delle navi affondate. Che ormai sia troppo tardi per sistemare le cose, pare però non averlo capito nessuno.