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La trappola afghana*

di Franco Cardini - 21/09/2009

 

Il dolore per i nostri caduti rimane. Ma bisogna smetterla con l’elaborazione del lutto: anche per evitare  che la politica strumentalizzi la tragedia. Facciamo dunque chiarezza, tanto per cominciare.
Troppi italiani ignorano o dimenticano i fatti, per disinformazione o per scarsa memoria;   e altri, in malafede, ci marciano. Ecco qua, allora.
L’invasione dell’Afghanistan fu voluta nell’ottobre del 2001 dal governo Bush come risposta alla tragedia dell’11 settembre, gli effettivi responsabili della quale non sono stati individuati con sicurezza né allora, né dopo. Si disse però ch’era necessario catturare il mandante, lo sceicco Usama bin Laden (le tracce del quale sono praticamente perdute), e smantellare i “santuari” terroristici dei talibani e di al-Qaeda.
Si tacque però il fatto che il controllo del territorio afghano era necessario perché da lì dovevano obbligatoriamente passare gli oleodotti che avrebbero dovuto convogliare il greggio dei grandi giacimenti centroasiatici di recente scoperti verso i porti pakistani sull’Oceano Atlantico: un colossale business nel quale, tramite la compagnia californiana Unocal, erano coinvolti molti membri dell’establishment statunitense.  Affari e geopolitica, in corsa con Russia e Cina: una riedizione dell’ottocentesco   Great Game.
Il movimento talibano, alimentato e sostenuto dai fondamentalisti wahhabiti arabo-yemeniti (un Islam fino ad allora estraneo alle tradizioni afghane) si era radicato in Afghanistan durante il jihad contro i sovietici, ed  era sostenuto dagli Stati Uniti. L’alleanza non aveva però retto, anche perché i talibani rimproveravano agli americani di aver occupato il sacro suolo arabo, la terra del Profeta e del pellegrinaggio, con l’alibi della prima guerra del Golfo. Secondo i consiglieri neoconservatori di Bush, ormai la diplomazia non bastava più: bisognava passare alla modificazione anche violenta degli equilibri geopolitici in tutto il Vicino e il Medio Oriente.
Questa la ragione effettiva dell’invasione dell’Afghanistan, che le Nazioni Unite bollarono come illegittima. Il governo Bush agì allora al di fuori dell’autorizzazione ONU, prima con una piccola coalizione di stati e di staterelli fedelissimi e quindi chiamando in campo la NATO, cioè un organo concepito per il controllo dell’Atlantico e quindi del tutto estranea al teatro territoriale afghano. Era intanto cominciata anche l’avventura irakena, e alla fine l’ONU fu costretta a legittimare la duplice aggressione, illudendo che per tale via si giungesse in qualche modo a ristabilire un qualche equilibrio politico.
I risultati, otto anni dopo l’invasione dell’Afghanistan e sei dopo quella dell’Iraq, sono sotto gli occhi di tutti. Due paesi distrutti, insicuri, martoriati (le vittime si contano ormai a decine di migliaia), dove si stenta a far decollare  una qualche forma di “democrazia” del tutto formale, cartacea e forzosa; recrudescenza delle lotte etniche e di quelle religiose; avanzata del caos e  del fondamentalismo, che stanno sommergendo lo stesso vicino Pakistan un tempo sicuro baluardo filoccidentale. Il piano strategico di Bush è fallito e il suo successore Obama lo sta smontando pezzo per pezzo. Dietro il fallimento in Vietnam gli americani si lasciarono un regime comunista; qui lasceranno il caos e il potere nelle mani dei signori della guerra e della droga. Il dilemma, oggi, è comunque fallimentare: o prolungare una guerra feroce e senza uscita, o andarsene ammettendo il pieno fallimento.
Da questa trappola, bisogna uscire; è inutile giocarsi altre vite umane. Berlusconi, il quale fino a ieri sosteneva che bisognava tener duro, ha fiutato l’impopolarità di questa guerra inutile e incomprensibile ai più e ora si nasconde dietro il legalismo internazionale: ci ritireremo, dice, ma solo con il pieno accordo degli “alleati”. Fuor di metafora, dopo averci trascinato in due guerre per far piacere a Bush, ora sta mendicando da Obama l’autorizzazione a uscirne senza troppo irritarlo. Politica da pollaio. L’importante è che faccia presto.

                                          Franco Cardini 


Intanto, il 18 settembre, era uscito sul quotidiano “Il Manifesto”, p. 6,  a firma Franco Cardini, un “articolo-lettera aperta” dal titolo Lettera a un amico di sinistra, nella quale si chiedeva perché le forze di politica di sinistra, con pochissime voci di dissenso, esitassero a riconoscere – al di là del dolore per i nostri caduti e la solidarietà con essi – il carattere di Resistenza alla guerriglia afghana in corso contro le truppe straniere che dall’ottobre 2001 hanno invaso un paese già da decenni duramente provato. L’articolo è stato  corredato, epr scelta della redazione,  da un “riquadro” dal titolo Il mercenario, che dopo una breve nota introduttiva fornisce il testo d’una canzone composta nel 1967  da Pino Caruso  e Pierfrancesco Pingitore  e dedicata ai mercenari dell’Union Minière che caddero nel corso della crisi congo-katanghese del 1960-1965, tra i quali v’erano anche italiani, molti ex-parà della Folgore. Franco Cardini ritiene che ciò sia meritevole di un breve commento: 

 


 Nel ringraziare gli amici de “Il Manifesto”  per aver ospitato ieri 17 settembre la mia “Lettera a un amico di sinistra”, debbo confessare di essere rimasto colpito e quasi commosso per la contestuale pubblicazione del testo della canzone di Caruso e Pingitore, Il mercenario.  Era un testo bècero, disperato, nihilista, tuttavia non privo di una sua forza. Noialtri ragazzacci eversivi di “Giovane Europa”, fra ’67 e ’69 (quell’associazione si sciolse in tale anno)  lo cantavamo, magari nelle bettole, perché eravamo convinti che i mercenari dell’Union Minière stessero  difendendo la civiltà occidentale. Sapevamo ben poco, allora, di storia africana; e soprattutto di storia del capitalismo e del colonialismo. Ma c’era la guerra fredda, e tutto sembrava diverso.
 Ci vediamo ancora spesso, invecchiati d’una quarantina d’anni, noi ex-ragazzacci di allora: e abbiamo cambiato idea, sul Katanga, su Lumumba, su Ciombè e su tante altre cose: anche sulla guerra di liberazione dell’Algeria, anche sulla Grecia dei colonnelli e sul Cile di Pinochet. A suo tempo, sua pure con molte critiche e un certo disagio, difendevamo tali esperienze: oggi ne sappiamo di più, ci siamo rimessi in discussione, ci siamo ricreduti.  E’ anche alla luce del rigoroso esame di coscienza che abbiamo dovuto fare a proposito di quei lontani episodi, che il disegno di soggezione e di sfruttamento del mondo intero messo a punto cerentemente da oltre mezzo secolo da alcuni apparati industriali-militari, da alcune lobbies finanziarie e industriali nonché da governi che se ne sono fatti “comitati d’affari” ci è apparso chiaro. E ormai gli aggressori dell’Afghanistan e dell’Iraq tra 2001 e 2003 e i loro complici e gregari  non ci  fregano più.
 Eppure quel vecchio testo cabarettistico, a suo tempo cult di pochi ragazzacci d’una destra radicale e forse utopistica, “fascisti immaginari” che oggi  i sostenitori della dittatura del Berluskariato definirebbero senza dubbio “filomusulmani e criptocomunisti”, continua a parlare ai nostri vecchi cuori eversivi e a intenerirli.
Permettetemi dunque,  tanto tempo dopo, di spezzare una lancia a favore dei disperati avventurieri del Katanga, quelli del “basco rosso”. Fra loro c’erano dei matti, dei disperati,  magari anche dei criminali, ma  essi rappresentavano a modo loro l’ultimo spezzone del “tramonto dell’Occidente”, quel che restava della cultura dei Freiekorps e dei Proscritti di Von Salomon. Non erano degli idealisti, non avevano alcun progetto politico e forse alcuna morale. Erano uomini soli, quelli del Non, je ne regrette rien, che lavoravano esplicitamente per soldi e magari per il gusto dell’avventura: erano appunto mercenari, novios de la Muerte che affrontavano spavaldamente il disprezzo e la condanna almeno teoricamente unanime di quasi tutta l’opinione pubblica del tempo. Cascami della “Folgore”, della “Legione Straniera”, dell’ OAS, del Tercio, dell’ IRA, delle Waffen SS, che amavano identificarsi nell’acquaforte di Altrecht Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo. La schiuma e la limatura d’Europa, i Fratelli della Costa della Modernità che li aveva passati al tritacarne e quindi versati con disprezzo nella poubelle della storia, là dove stanno tutte le Cause Perse e Innominabili e Indifendibili. Non è certo un caso se i ragazzacci che li ammiravano restassero al tempo stesso affascinati dalla figura del comandante “Che” Guevara. Pícaros, bandoleros, corsari: pochi li avrebbero capiti, forse giusto Senofonte o Balzac o Grimmelshausen o Dostoewskji o Hemingway, o magari Artaud (e, perché no?, Quentin Tarantino).  E non venite a confonder le acque e a romper le scatole con le contraddizioni politiche, la confusione ideologica e via dicendo: qui si parla d’altro, si parla di carne e di sangue, di cose che forse s’intendono usando categorie antropologiche o mistiche o etiche o estetiche, magari perfino psicanalitiche, non storiche o politiche.
Ma il testo proposto da “Il Manifesto” è un po’ diverso da quello che ricordo io, e che qui trascrivo con le sue inevitabili lacune:

“Son morto nel Katanga, venivo da Lucera,
avevo quarant’anni e la fedina nera
(variante: “e la camicia nera”).
Di me la gente dice ch’ero tra i mercenari
Solo per il bottino, soltanto per denari.
Ma ora che sono steso, guardate nel mio sacco:
c’è solo una bottiglia e un’oncia di tabacco;
soldi non troverete, no, nel mio tascapane:
li ho spesi proprio tutti, insieme alle puttane.
Amavo un’entreneuse di razza congolese,
ma poi l’ho persa ai dadi con Jimmy l’irlandese.
Se rimanevo a casa, là nella mia Lucera,
0ra sarei in pensione, coi soldi e la pancera:
avrei la moglie grassa, le rate e la Seicento,
mutua, televisore, salotto e doppio mento.
Invece sono andato in giro per il mondo,
ed ora qua, disteso, crepo nel Basso Congo.
Salvai monache e frati dall’unghia del ribelle,
ma l’ONU se ne frega, sputa sulla mia pelle.
I fuochi sono spenti, ormai scende la notte,
addio verdi colline, addio dolci mignatte.
Di questo basco rosso ho fatto una bandiera:
portatelo agli amici, che invecchiano a Lucera”.


     Ma di questo spirito nichilista e picaresco oggi non c’è traccia. Quei “proscritti”, combattessero per denaro nelle savane d’Africa o per un sogno di redenzione dei poveri nelle sierras sudamericane, venivano isolati e segnati dall’orrore benpensante e conformistico: erano comunque degli isolati. Oggi assistiamo a un mercenariato che si ammanta dei colori ipocriti e improbabili d’un riesumato patriottardismo: il mercenariato di vigilantes fieri di porsi al servizio delle Buone e Rispettabili Cause,  quelle degli interessi del turbocapitalismo e delle sue lobbies.  Oggi, assistiamo all’osceno spettacolo dei contractors  che mass media e buona parte del mondo politico vorrebbero far passare per eroi disinteressati e per paladini della democrazia.  Non facciamo paragoni aberranti

                                                                                  

*Il 17 settembre 2009 un’azione di guerriglia rivendicata dai talibani, in Afghanistan, ha causato la morte di sei paracadutisti italiani e il ferimento di altri. Richiesto dal quotidiano “L’eco di Bergamo”  di un commento all’episodio che ne richiamasse il contesto storico, Franco Cardini ha inviato in data 18.9.2009 il seguente contributo: