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La morte della scrittura

di Stefano Di Ludovico - 21/09/2009

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Come sa soprattutto chi lavora nel mondo della scuola, i nostri ragazzi hanno sempre più difficoltà a scrivere in corsivo. Abituati, anche dalla scuola stessa, a scrivere ormai solo al computer, perfino quando devono usare le vecchie carta e penna trovano più naturale scrivere in stampatello: praticamente usano la penna come fosse la tastiera del pc. Del resto è una difficoltà che non possiamo imputare solo ai ragazzi: chi di noi adulti, che ormai la penna non la usiamo più e per cui il corsivo costituisce solo un ricordo di quando andavamo a scuola, non si è trovato più di una volta in impaccio nel dover scrivere un lungo testo in corsivo, quanto meno in una calligrafia decente? Viste tali abitudini, non pare lontano il tempo in cui la scrittura in corsivo scomparirà completamente dai nostri orizzonti di vita, e gli elaborati scritti a mano andranno a costituire quasi un oggetto d’antiquariato, un reperto di epoche passate, epoche arcaiche ed “arretrate”.
In effetti la scrittura manuale rappresenta uno degli ultimi oggetti prodotti artigianalmente della nostra società, uno dei pochi superstiti di un mondo che non esiste più, quello appunto della produzione artigiana: con l’avvento del computer, anche la scrittura si è avviata ad essere prodotta in serie, a diventare un prodotto standardizzato, realizzato da una macchina che l’uomo si limita a far funzionare. Non è un cambiamento da poco: la scrittura non è un oggetto tra i tanti, un utensile fatto per quello o quell’altro scopo specifico, dall’uso limitato appunto allo scopo particolare per cui è stato ideato, ma lo strumento principe della comunicazione umana, manifestazione stessa dei nostri pensieri, del nostro io; quel mezzo attraverso il quale tutti, e non solo quel determinato artigiano nel momento del suo lavoro, possiamo quotidianamente esprimere e rivelare noi stessi.
Attraverso la scrittura a mano, ovvero la calligrafia, è un intero mondo interiore che si manifesta, che viene alla luce; un mondo personale, unico e irripetibile, come unica e irripetibile è l’anima di cui è espressione. La calligrafia è una spia rivelatrice, è una delle porte di accesso privilegiate ai segreti dell’anima; i suoi segni simboli visibili dell’invisibile. Non a caso vi è una vera e propria disciplina, un’arte, la grafologia, che insegna a decifrare questi simboli. Tutto ciò cancellato d’un sol colpo dal computer: qui tutto è più facile, più comodo, più veloce; bisogna solo riconoscere le lettere sui dei tasti da pigiare con le dita della mano, mano che non è tenuta più a comporle e legarle l’una all’altra come in una vera composizione, una vera costruzione, come l’artigiano componeva e costruiva i suoi oggetti.
E come i prodotti artigianali, anche le nostre scritture andranno probabilmente a far bella mostra di sé in qualche museo, ammirate e gelosamente custodite; i musei, questi luoghi del nostro inconfessabile senso di colpa, di nostalgia per un mondo perduto ma che continuiamo a sentire irresistibilmente più nostro. Non restiamo ancora ammirati, ancora estasiati di fronte a certi manoscritti antichi lì conservati, che ci paiono vere e proprie opere d’arte? Sarà probabilmente così che le future generazioni vedranno i nostri elaborati, che per noi altro non rappresentavano che banali prodotti della necessità quotidiana. Magra consolazione… 

Ma la denuncia della scomparsa della scrittura manuale non è solo il lamento dei soliti inguaribili nostalgici dei bei tempi andati. Una recente ricerca effettuata tra studenti tra i 14 e i 19 anni ha fatto registrare risultati a dir poco sconcertanti, di cui hanno parlato anche i giornali: preso atto che il 50% degli studenti testati non sa di fatto più scrivere in corsivo, è risultato altresì che più o meno la stessa percentuale ha un’ortografia disastrosa, usa un italiano sempre più povero - lacunoso soprattutto nell’uso dei connettivi logici -, nei temi non sa esprimersi se non attraverso pensieri brevi e ridotti all’osso. Che vi sia un nesso tra l’uso del corsivo e la capacità stessa di formulazione di un pensiero e quindi di una scrittura ricca, articolata e grammaticalmente corretta? Che la scomparsa del corsivo non sia solo la rimpianta perdita di quel valore aggiunto che solo il prodotto artigianale può rappresentare? Diamo la parola agli “esperti”. Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva, di fronte ai dati della ricerca afferma: “E’ incredibile quanto l’uso del corsivo al posto dello stampatello, e ancor più del computer, possa influenzare la mente di un bimbo. […] La perdita del corsivo è alla base di molti disturbi dell’apprendimento […]. Scrivere in corsivo vuol dire tradurre il pensiero in parole, in unità semantiche, scrivere in stampatello vuol dire invece selezionarlo in lettere, spezzettarlo, negare il tempo e il respiro della frase. […] Il corsivo così come lega le lettere lega i pensieri”. Altro che nostalgia per i bei tempi andati… L’abbandono della scrittura a mano compromette le capacità di apprendimento! Del resto ci vuol poco a capire che le abilità cognitive che deve possedere un artigiano sono ben altre rispetto a quelle di cui necessita un operaio di una catena di montaggio che deve solo schiacciare qualche bottone! Il computer non è il solo responsabile di tale situazione: ad ottundere il cervello dei nostri ragazzi ci si mettono ovviamente anche i telefonini e i loro sms: che razza di pensiero, di capacità concettuali ed elaborative si possono sviluppare se la comunicazione quotidiana si è ridotta ad una serie standardizzata di abbreviazioni, segni convenzionali, acronimi e sigle varie di cui si compongono gli sms? E’ chiaro che per ragazzi così abituati un testo, uno scritto, un tema di italiano altro non sono che un assemblaggio, un’accozzaglia di sms messi insieme alla meno peggio. Franco Frabboni, ordinario di Pedagogia all’università di Bologna e presidente della Società italiana di scrittura, da parte sua afferma: “La grafia, il corsivo sono veicoli e fonti di emozioni. Tradiscono la personalità, lo stato d’animo. L’abbandono della scrittura a mano porta ad una  scarnificazione del messaggio; lo vedo spesso nelle tesi dei miei studenti, povere, troppo brevi, dove la sintesi non è un pregio ma un’incapacità di sviluppare un pensiero”. E chi non sa più scrivere, formulare un pensiero, non sa nemmeno più leggere. Aggiunge il professore: “L’altra faccia di questa metamorfosi è la perdita della lettura. Sono due vasi comunicanti. Se non si impara il corsivo, i suoi tempi, la sua musicalità, come si farà a concentrarsi sulle parole di un libro? E’ chiaro che il computer è oggi una nostra appendice, un pezzo del nostro pensiero. Ma è un pensiero binario, mentre la scrittura a mano è ricca, diversa, individuale, ci rende uno differente dall’altro”. Parole, queste, che costituiscono da sole la più netta demistificazione del mito del linguaggio del computer quale semplice specchio - e quindi semplice potenziamento quantitativo - del linguaggio della mente umana, mito propagandato a piene mani all’inizio dell’era informatica: al contrario, secondo i meccanismi perversi della Tecnica, sono la nostra mente, la nostra vita, il nostro mondo, che vengono riplasmati sulla logica, innaturale ed artificiale, della macchina e dei suoi surrogati.
E la logica della macchina è la logica dell’omologazione e della massificazione esanime. Se la calligrafia è il linguaggio dell’anima, linguaggio che diversifica e rende unici, pare che proprio di questo i nostri ragazzi abbiano ormai quasi paura, ossessionati dal mito dell’uniformizzazione a tutti i costi imposto loro dalla pubblicità e dalle leggi della società dei consumi. “Preferiscono nascondersi dietro l’omologazione dello stampatello”, afferma la pedagogista clinica Giuliana Ammanati, che ha partecipato alla ricerca di cui sopra, e che rivela di aver riscontrato “grandissime resistenze a far uscire i ragazzi dal loro reiterato uso dello stampatello. Spesso, dopo aver scritto in corsivo, non riescono a rileggere le proprie parole. Così per evitare la confusione utilizzano lo stampatello”.
Ci troviamo dunque di fronte a ragazzi che vedono nell’originalità, nella diversità e nella pluralità del reale dei disvalori, da nascondere e di cui vergognarsi. O forse hanno paura di rivelare il vuoto che si cela dentro di loro e che la calligrafia potrebbe disvelare? Dopo tutto, che bisogno c’è di scrivere in corsivo, di usare uno strumento atto a disvelare un qualcosa che non c’è più? Se siamo ormai divenuti tutti “uguali”, automi standardizzati e interscambiabili della “megamacchina” tecnocratica, cosa abbiamo da rivelare, da comunicare, se non il nulla che siamo diventati? E allora ben venga la scrittura al computer, anonima ed uniforme come i nostri io. E così, anche in tale campo, vediamo realizzarsi quella “nemesi” che sempre e ovunque sembra accompagnare, inquietante, le “conquiste” della Tecnica: ciò che doveva essere d’aiuto all’umanità ha finito per uccidere quel poco di umanità che ancora sopravviveva nell’uso della scrittura manuale, e i computer e i telefonini che dovevano migliorare la comunicazione hanno finito per uccidere la comunicazione.