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Dalla classe dominante alla classe dirigente. Oligarchie ed élite

di Gianni Petrosillo - 22/09/2009

Il discorso di Marcello Veneziani sulle oligarchie finanziarie, da non esaltare con definizioni elevate
che hanno un senso positivo, quali quelle di èlite o di classe dirigente, fila ma solo fino ad un certo
punto. Il giornalista pugliese dice, giustamente, che per la deriva e il malcostume politico è stato
coniato il termine “casta”, per cui altrettanto occorrerebbe fare al fine di meglio stigmatizzare i
poteri finanziari e industriali semi-impotenti, deboli e sfascisti i quali, tutt’al più, sono classe
dominante e non direttiva, autorità fiacche e dannose (ed, infatti, dalle pagine di questo modesto
blog abbiamo sempre parlato di GF&ID per additare tali poteri funesti). Tuttavia, a Veneziani
sfugge un particolare decisivo.
Il conglomerato bancocratico, quale insieme di drappelli finanziario-speculativi e industrial-assistiti,
gode dell’appoggio della principale potenza straniera (gli Usa) e grazie a questo ausilio raggiunge,
di riflesso, quella forza politica, economica e culturale con la quale è possibile generare scompiglio
e disordine nel paese, tramando alle sue spalle e negando ad esso il futuro che gli spetta.
Attraverso questa traslazione l’impotenza e la debolezza si tramutano in potenza e forza, esercitata
in affitto per nome e per conto di altri che ci vogliono succubi dei propri piani strategici e periferia
acquietata dell’impero.
Sin dall’inizio degli anni ’90, allorché fu organizzato il golpe “manipulitistico” che spazzò via la
precedente classe dirigente (e, questa, certamente fu tale per quanto il suo corpo decisionale fosse
estremamente eterogeneo e non sempre autonomo) questi drappelli bancocratici agiscono
indisturbati, pianificano la nostra subordinazione internazionale, sperperano risorse, si accreditano
presso una parte politica ricattandola, favoreggiandola e manovrandola avendone ottenuto l’anima e
il culo durante la stagione di tangentopoli, nel momento in cui i nipotini di Togliatti furono
risparmiati dall’accetta giudiziaria e dal repulisti parlamentare, proprio per poter fare il lavoro
sporco richiesto dai nemici esterni del nostro paese e dai loro sodali interni.
Non vedere questo fatto significa precludersi la possibilità di agire per il cambiamento che oggi
richiede, per essere realmente efficace, il taglio netto di quelle radici maligne che stanno inaridendo
il terreno del nostro paese, impedendo alle buone piante di crescere e di prosperare.
Eppure, Veneziani coglie nel segno quando descrive la genesi di dette forze populistiche che
intendono allargarsi e attecchire battendo scorciatoie autoritarie e golpiste. Questi manipoli sono
effettivamente il prodotto di un’alleanza tra caste, quella radical e di sinistra imperante nel potere
editoriale, culturale, multimediale e quella di un capitalismo assistito e parassitario che “che da
sempre privatizza i profitti e socializza le perdite, evade e taglieggia lo Stato, rileva, magari a
prezzi stracciati, imprese e gruppi editoriali, e disegna l’Italia a immagine e somiglianza dei propri
interessi. Per dirla col linguaggio del secolo scorso, l’oligarchia che oggi attacca il governo
Berlusconi nasce dall’intreccio tra destra economica e sinistra ideologica, di cui molti grandi
giornali sono garanti e punti di incontro: perché in quei giornali, ad una proprietà che risponde a
quegli assetti di potere corrisponde la guida del giornale nelle mani di un ceto professionale venuto
in gran parte da sinistra, dal Sessantotto e dal radicalismo.” E si tratta indiscutibilmente di “Quella
triplice alleanza, [di] oligarchie economico-finanziarie, intellettuali-mediatiche, politico-manovali,
più appendici sindacali e avanguardie giudiziarie, [che] fu a un passo dal conquistare il potere con
il crollo di Craxi, della Dc e della Prima Repubblica: poi arrivò un certo Berlusconi e il ’94 sfumò
la presa del potere politico ma rimase quella del potere diffuso”. Quasi tutto esatto anche qui, ma
l’ultimo riferimento al potere diffuso è ancora ambiguo e fuorviante. Il potere diffuso tira in ballo
per Veneziani quello culturale, da decenni sotto l’egida della sinistra che domina la collettività con i
suoi luoghi comuni e il suo snobbismo intellettualoide, imbrigliando il cambiamento in ogni sfera
sociale. E si “resuscita” Gramsci, ma il Gramsci neutralizzato dalle stesse barbare teoresi dei
“progressisti”, accettate acriticamente anche a destra dove si riproduce l’etichetta del pensatore
sardo quale campione del concetto di egemonia culturale.
Ed invece, se i destri smettessero di coltivare il loro senso di inferiorità intellettuale capirebbero
meglio che quando Gramsci scevera questa nozione intende riferirsi precipuamente agli apparati “di
forza” che stanno dietro a quelli ideologici, senza i quali i secondi si sfaldano e smettono di
funzionare. Questo è il problema principale per Berlusconi. Egli non controlla tali dispositivi ed i
corpi speciali dello Stato, tant’è che si trova sempre invischiato nelle trame oscure ordite dai
sunnominati “poteri impotenti” i quali così tentano costantemente di liberarsi di lui.

Le oligarchie che hanno potere ma non consenso
di Marcello Veneziani
È vero, la lotta politica in Italia non è tra governo e opposizione, o addirittura tra destra e sinistra:
ma è tra oligarchie e consenso popolare. Non chiamatele élite, per favore, e nemmeno poteri forti. I
poteri impotenti, i poteri deboli non sono poteri, e le élite sono il fior fiore di un Paese, sono la
classe dirigente, non la classe dominante. Perché quando parlate del ceto politico usate l’espressione
negativa di Casta, non senza ragione, per alludere ai suoi privilegi e ai suoi favori, e quando parlate
di un’altra oligarchia, quella degli affari più contorno di stampa e propaganda, la definite addirittura
aristocrazia? È un’altra casta, con i suoi privilegi, i suoi interessi che divergono da quelli del Paese,
i suoi valori che sono dissonanti dal sentire comune, le sue pretese di egemonia che non passano dal
vaglio del popolo sovrano. Capisco l’irritazione dei grandi giornali, altoparlanti della casta suddetta,
per le parole dure di Brunetta. Capisco pure l’accusa di demagogia e di populismo. Non sbagliano
del tutto, mi rendo conto. Ma ci sono due tipi di populismi: uno vuole fuoruscire dalla democrazia,
dal voto e dalla libertà, sognando scorciatoie autoritarie e un altro, al contrario, si attacca al voto
popolare, alla democrazia e alla libertà per reagire al potere delle oligarchie. In Italia il populismo è
nato in reazione all’alleanza tra le caste: quella derivata dal comunismo e dalla sinistra radical,
quella imperante nel potere editoriale, culturale e multimediale, e quella di un capitalismo assistito e
furbo che da sempre privatizza i profitti e socializza le perdite, evade e taglieggia lo Stato, rileva,
magari a prezzi stracciati, imprese e gruppi editoriali, e disegna l’Italia a immagine e somiglianza
dei propri interessi. Per dirla col linguaggio del secolo scorso, l’oligarchia che oggi attacca il
governo Berlusconi nasce dall’intreccio tra destra economica e sinistra ideologica, di cui molti
grandi giornali sono garanti e punti di incontro: perché in quei giornali, ad una proprietà che
risponde a quegli assetti di potere corrisponde la guida del giornale nelle mani di un ceto
professionale venuto in gran parte da sinistra, dal Sessantotto e dal radicalismo. Quella triplice
alleanza, oligarchie economico-finanziarie, intellettuali-mediatiche, politico-manovali, più
appendici sindacali e avanguardie giudiziarie, fu a un passo dal conquistare il potere con il crollo di
Craxi, della Dc e della Prima Repubblica: poi arrivò un certo Berlusconi e il ’94 sfumò la presa del
potere politico ma rimase quella del potere diffuso. Al punto che Berlusconi andò al governo,
mandato dal popolo, ma non andò al potere. Che pochi mesi dopo, grazie anche ad alcuni errori del
centrodestra, lo sfrattò da Palazzo Chigi con tanto di avviso giudiziario. Quella guerra è proseguita
sottotraccia lungo tutto questo tempo, con periodiche emersioni allo scoperto di questa ostilità. Che
in tempi di bonaccia sono a livello culturale o civile, e non mancano ambasciatori di frontiera che
tentano di stabilire concordati; in tempi di bufera si palesano a livello politico e persino elettorale,
con plateali pronunciamenti, come quello celebre di Mieli sul Corriere della sera. A volte trovano
autorevoli complicità nei vertici della Confindustria, della Banca d’Italia e di molte banche ora
irritate dalle posizioni di Tremonti dalla parte degli italiani contro le speculazioni dei medesimi
istituti. Certo, non è una storia solo italiana se già un sociologo americano venuto da sinistra e poi
approdato a posizioni populiste, Cristopher Lasch, scrisse nei primi anni Novanta La ribellione delle
élite.Ma da noi la guerra c’è, si combatte ogni giorno, il terreno più vistoso è la stampa e, in
generale, la cultura del Paese. Si è acutizzata quest’estate, e non a caso parlammo proprio sul
Giornale della caduta degli dei, riferendoci alle suddette oligarchie. A voler individuare il blocco
sociale di riferimento delle oligarchie dovremmo dire che non sono più i mitici proletari e gli
operai, ma, per esempio, gli insegnanti, più sparsi borghesi, residui sindacali e superstiti dinosauri
militanti. Unico intoppo, quella che Flaiano chiamava la trascurabile maggioranza degli italiani, il
consenso popolare a questo governo.
Il fine è trasparente: modificare, correggere, fino a sovvertire, l’esito di libere elezioni e del
consenso popolare. Si lanciano campagne mediatiche con studiata puntualità e, nei momenti di
vuoto, si recitano dei mantra: l’ultimo è Il Declino, un rosario che oligarchie, politici di sinistra e
stampa recitano ogni giorno fino a farlo diventare luogo comune, convinzione diffusa. È cominciato
il declino di Berlusconi e della sua band, ripetono tutti con tono oracolare. Ci sono segni elettorali,
popolari, parlamentari, governativi di questo declino? No, vaghi segni climatici, presagi e
maledizioni, passaparola e riti parapsicologici, un po’ come facevano gli aruspici nell’antica Roma
e gli jettatori nella vecchia Napoli.
Al governo in carica, tuttavia, non tocca solo denunciare la manovra e non è il caso di abbassare il
tono della denuncia in modo greve. Bisogna porsi il problema in chiave politica e culturale.
Traduco: bisogna rendere trasparente il conflitto, visibile a occhio nudo e circoscritto ad una sfera
politica; non escludendo, laddove è possibile, raggiungere tregue e punti di intesa nell’interesse
reciproco e generale. Il problema culturale è invece: si può governare un Paese contro le oligarchie
dominanti, o piuttosto non è necessario tentare una strategia di conquista civile e culturale delle
posizioni chiave, o quantomeno una presenza bilanciata, che apra alle plurali culture del Paese? Un
leader e un popolo non bastano, ci vuole anche una classe dirigente adeguata, ci vogliono élite.
Cosa distingue un’élite da un’oligarchia, ovvero una classe dirigente da una classe dominante, come
diceva Gramsci? Le classi dirigenti e le élite sono il potere di pochi nell’interesse di molti, le classi
dominanti e le oligarchie sono il potere di pochi nell’interesse di pochi. In termini culturali si tratta
di compiere il salto di qualità dal populismo al comunitarismo, ovvero da una politica istintiva ed
emozionale ad una sensibilità consapevole e una cultura del legame sociale e popolare. Ma
torniamo alla realtà fresca di giornata: nel presente si tratta di scegliere tra un leader arcitaliano nei
vizi e nelle virtù, che rappresenta il popolo, e le oligarchie, che rappresentano se stesse.
Liberamente e criticamente preferiamo la prima soluzione.