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Unità d'Italia: quei soldati italiani che preferirono l’Austria

di Fernando Riccardi - 22/09/2009

 

 



L’anno prossimo e, più ancora, nel 2011, si festeggerà in pompa magna (e con grande sperpero di denaro pubblico) il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia. Tutti gli accadimenti più importanti di quel controverso periodo storico saranno ripercorsi, analizzati, vivisezionati sulle ali di una ossessiva oleografia patriottarda che non ammetterà controdeduzioni di sorta. Niente, insomma, dovrà offuscare la solennità di una ricorrenza per la quale si lavora (e ci si accapiglia) alacremente da tempo. Pur non essendo abituati a ricorrere alle scommesse non avremmo remore nell’investire un bel gruzzoletto di lire, pardon di euro, sul fatto che nessuno, ma proprio nessuno, nei prossimi mesi, ricorderà un evento clamoroso che a suo tempo fece molto scalpore ma che oggi è finito, come tanti altri, nel più assoluto dimenticatoio. Eppure stiamo parlando di migliaia di soldati che al momento di scegliere tra l’Italia che si stava facendo e una nazione “straniera”, non ebbero remore a seguire il loro sovrano ed a prediligere l’Austria, la più strenua nemica del processo unitario. Giugno 1859: il piccolo ma ambizioso Piemonte era febbrilmente impegnato, con il beneplacito dell’amica Francia (alla quale sarà costretta a cedere, in ossequio ad un turpe baratto, Nizza e la Savoia, terre da sempre italiane), ad ingrandire il suo corpus territoriale. Un’operazione che qualche mese più tardi si trasformerà, come per incanto, in un insopprimibile anelito di unificazione politica. Ma se per il Lombardo-Veneto la cosa appariva molto ma molto complicata (ci vorrà la cosiddetta seconda guerra di indipendenza e, soprattutto, il poderoso esercito francese per piegare gli austriaci ed accaparrarsi la sola Lombardia), per ciò che concerneva l’Italia centrale tutto era molto più semplice. Lì, infatti, vi erano una serie di piccoli stati, il granducato di Toscana, i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla e il ducato di Modena, che sembravano fatti apposta per essere inghiottiti in un sol boccone. E così infatti avvenne. Grazie alla preponderanza del fattore militare (le truppe sabaude entrarono nei confini di tali stati senza preavviso né dichiarazione di guerra) e ai soliti plebisciti-farsa tanto cari alla dinastia regnante torinese (gli agenti segreti inviati dal perfido ma astuto Cavour seppero preparare alla grande le ridicole operazioni di voto in maniera tale che non vi potesse essere alcuna spiacevole sorpresa), che poi si ripeteranno con successo anche nel meridione d’Italia, i legittimi sovrani furono costretti a togliere le tende e ad abbandonare le loro terre al famelico Piemonte. E il tutto senza sparare neanche un colpo di fucile. Un dato numerico servirà a chiarire ancora di più, qualora ce ne fosse bisogno, la situazione che andò determinandosi in quel frangente. Il plebiscito che si tenne in Emilia e che comprendeva anche la Romagna ex pontificia e i ducati di Modena e Parma, dette i seguenti risultati: 426.006 favorevoli all’annessione al Piemonte, 756 contrari e 750 voti nulli. Superfluo ogni commento al riguardo. Ciò accadde, con trascurabili variazioni, in Toscana, a Parma, a Piacenza e, infine, a Modena, dove i funzionari locali dovettero lasciare l’amministrazione e il governo della cosa pubblica ai “proconsoli” di Torino i quali, come prima cosa, pensarono bene di mettere le mani sui capienti forzieri dell’erario. Cosa che, qualche tempo dopo, accadrà anche a Napoli. A Modena si insediò con tutti gli onori Luigi Carlo Farini che, tra il 1862 e il 1863, sarà presidente del Consiglio del Regno d’Italia. Per prima cosa ordinò di fondere l’argenteria e tutti gli oggetti preziosi di Francesco V per far credere che il duca avesse portato via con sé ogni cosa di valore. Oggi si parlerebbe di riciclaggio illecito. E poi non fece che badare al suo personale tornaconto. Senza addentrarci troppo nel malgoverno di Farini che finì per disgustare i suoi stessi collaboratori, sarà sufficiente ricordare che per pagare 7.000 franchi, il costo del vitto presso il San Marco di Modena, l’ineffabile dittatore pensò bene di concedere all’albergatore il brevetto di colonnello dell’esercito. Intanto, dovendo chinare la testa di fronte all’ineluttabile, l’11 giugno del 1859 il duca Francesco V fu costretto a lasciare Modena. La sua consorte, la contessa Adelgonda, lo aveva preceduto di qualche mese trovando rifugio a Vienna. Sulla piazza del palazzo ducale lo aspettavano i suoi soldati, la Brigata Estense, schierata come se avesse dovuto prendere parte ad una parata. Quattromila splendidi militari che niente avevano potuto fare per salvare il regno e che scelsero di seguire il loro duca nell’esilio. Non volendo finire nellesercito piemontese partirono tutti con lui. E non cedettero alle minacce dei Savoia neanche quando, qualche mese dopo, venne intimato loro di rientrare a Modena. Anzi furono molti i giovani modenesi che lasciarono la città ed andarono ad unirsi a quella brigata di stanza a Bassano del Grappa (allora territorio austriaco) che in breve tempo raggiunse i 5 mila effettivi. E lì rimasero, in dignitoso esilio, per 52 lunghi mesi. Raggiunta l’unità il nuovo governo italiano iniziò a fare pressioni sull’Austria affinché quella scabrosa situazione fosse appianata. Nel settembre del 1862 Vittorio Emanuele II di Savoia firmò un decreto di amnistia politica. Ai soldati della Brigata Estense si concedevano sei mesi di tempo per tornare in Italia. In caso contrario avrebbero perso i loro diritti politici e civili e i loro beni sarebbero stati sequestrati. Nel febbraio del 1863 l’ex duca di Modena, per favorire una soluzione positiva della vicenda, decise di mettere in congedo i suoi soldati e di scioglierli dal giuramento di fedeltà. Ma furono in pochi ad andarsene: poco più di un centinaio di soldati e una dozzina di ufficiali. Il triste epilogo, però, era soltanto rinviato. Nel settembre dello stesso anno, a Cartigliano Veneto, vi fu la mesta cerimonia di congedo del duca Francesco V con le sue fedeli truppe. Agli ordini del generale Saccozzi vi erano ancora 2.564 soldati e 158 ufficiali. Tutti vennero premiati con una medaglia d’argento contenente la scritta “Fidelitate et constantia in adversis”. Dopo di che ci fu lo sciogliete le righe. Pochissimi ufficiali e un migliaio di soldati decise di tornare a Modena. La qualcosa non si rivelò una brillante idea: ad onta delle blandizie promesse e dell’amnistia regia, furono quasi tutti arrestati e processati come disertori e renitenti alla leva. Tutti gli altri, invece, in particolar modo gli ufficiali, preferirono restare in esilio e si arruolarono nell’esercito austriaco. “Il 5 ottobre 1863 Pokorny diede loro il benvenuto nell’esercito austriaco con un discorso. Parlò di esempio raro di forza d’animo, fedeltà e attaccamento al Duca. Poi consegnò loro la bandiera del reggimento. Al centro risplendeva lo stemma estense. Una piccola parte del ducato di Modena sopravvisse così nelle divise di quegli uomini che conservarono, come era regola nell’esercito austriaco, la loro identità di provenienza. Il simbolo del ducato di Modena, così, comparve anche sui campi di battaglia della Terza guerra d’indipendenza”. Così Gigi Di Fiore, in un suo bel libro edito da Rizzoli sui “fatti e misfatti del Risorgimento”, descrive la strada che vollero seguire i valorosi soldati della Brigata Estense. Una scelta difficile, coraggiosa e leale in un momento nel quale era facile cambiare bandiera e salire trionfanti sul carro del vincitore. Anche questo, a ben vedere, fu il Risorgimento. Il processo lungo e tormentato che condusse all’unità d’Italia conobbe anche queste pagine che se non fossero di segno opposto potrebbero a buon diritto trovare posto nei racconti così ricchi di pathos di Edmondo De Amicis. E invece la storia scritta dai vincitori ha operato una selezione netta e immutabile tra le vicende buone e quelle cattive, tra gli eventi da magnificare e quelli da cancellare. Le celebrazioni per il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia potrebbero rappresentare un’occasione unica, preziosa, decisiva, irripetibile per superare definitivamente questo stantio ed assurdo stereotipo che vede i virtuosi schierati tutti da un lato e i gaglioffi dall’altro. Sarà il caso, forse, come ha scritto di recente Giordano Bruno Guerri, che gli storici inizino finalmente a vedere con occhi diversi il Risorgimento e lo riscrivano cercando di eliminare la sua evidente zoppia. Una nobile e sacrosanta operazione che, proprio per questo, finirà per rimanere soltanto una pia illusione.