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Al muro del tempo

di Manuela Alessio - 23/09/2009



Pubblicato a Stoccarda nel 1959, Al muro del tempo è un testo tra i più filosofici e quindi tra i più difficili di Ernst Jünger. Pur essendo molto importante, è stato non a caso tra quelli meno tradotti, come si evince dalla rassegna bio-bibliografica – arricchita da una ventina di bellissime fotografie – edita da Alain de Benoist presso Trédaniel, che è uno strumento indispensabile per tutti coloro che si vogliano avvicinare all’opera di Ernst Jünger. Di An der Zeitmauer, come suona il titolo originale dell’opera, si contano solamente tre traduzioni integrali in lingua straniera, di contro ad esempio alle ben diciassette di Sulle scogliere di marmo. Nel 1963 uscì presso Gallimard Le mur du temps, in seguito ristampato più volte, mentre ad appena due anni dopo risale la traduzione italiana, firmata Carlo d’Altavilla. Infine, nel 1986 apparve Jidai no kabegiwa, che è l’edizione giapponese del libro di Ernst Jünger, un autore di indubbia fama mondiale.
L’edizione Adelphi qui recensita non è però la semplice ristampa della precedente traduzione, che, anche se non risulta dalla rassegna di de Benoist, fu eseguita sotto pseudonimo da Julius Evola, che prima ancora aveva tentato di tradurre L’Operaio ma venne frustrato in questa sua lodevole ambizione dalla mancata concessione dei diritti da parte dello stesso Jünger. Fatto sta che la traduzione evoliana di An der Zeitmauer era incompleta e a tratti inattendibile, ragion per cui questa recente edizione, curata con competenza da Alvise La Rocca e Agnese Grieco, può essere effettivamente considerata come una novità.
Se ad una prima lettura Al muro del tempo può apparire filosoficamente arduo e piuttosto ostico, una più sottile interpretazione smaschera senza troppi problemi il suo spingersi a ben vedere, se non ancora oltre il muro stesso del tempo, senz’altro oltre la filosofia, penetrando in una dimensione metapolitica che complica alla radice le presunte conquiste della modernità e del suo tanto decantato "dopo" (l’inflazionata post-modernità, appunto). Con una certa dose di provocatorietà ma in modo come vedremo assolutamente fondato, si può dire che questo libro di Ernst Jünger rappresenta una critica radicale nei confronti dell’economicismo e dell’utilitarismo che hanno dominato tutto il Novecento e che continuano ad informare di sé la mentalità dominante nelle società avanzate. Certo, per poter sostenere una simile interpretazione occorre dar ragione di una serie di metafore presenti nel libro, in primis quella del gioco degli scacchi, dove una serie di mosse può essere prevista e calcolata, dopodiché "la partita entra nel campo dell’incalcolabile". Cosa succederebbe se il giocatore si trasformasse in un automa? Egli non sarebbe più un homo ludens, ma, appunto, un robot, in cui la tecnica rasenta la perfezione. "Inoltre andrebbero perduti il fascino del gioco, la peculiarità dell’incontro di due intelligenze, di due temperamenti e caratteri". A proposito di incontri tra due intelligenze, in queste pagine jüngeriane evidente anche se taciuta risulta la presenza sullo sfondo del "grande fratello", Friedrich Georg, che non è affatto vissuto all’ombra di Ernst ma è anzi stato sempre da lui considerato come un faro che gli illuminava il cammino. In questo caso specifico brillano le luci di due suoi scritti, uno noto anche perché è l’unico tradotto in italiano, l’altro ancora poco noto: La perfezione della tecnica (Settimo Sigillo) del 1946 e il volume sui giochi (Die Spiele) del 1953.
Anche se sarà solo con il celebre romanzo Eumeswil del 1977 che Jünger configurerà appieno la figura dell’anarca, già in questo libro dei tardi anni Cinquanta emerge nettamente la sua tendenza a sfuggire all’irreggimentazione nello Stato o nella società. Ed è proprio nell’aspetto ludico, ovverosia antiutilitaristico della vita che l’uomo può esperire il sapore della libertà da qualsiasi costrizione: "comincia a risvegliarsi una forza che si oppone al Leviatano e trae origine da ben altre profondità rispetto all’individualismo liberale". Jünger ci tiene infatti a precisare come la sua presa di distanza dallo Stato non sia per niente riconducibile al tentativo liberale di limitazione del potere, ma tragga origine da un impulso disinteressato completamente estraneo all’individualismo utilitaristico di impronta economicista: "dove si cominci anche solo a parlare di economia, là è già cominciato l’impoverimento, ed esso celebrerà il trionfo quando a prendere il sopravvento sarà il pensiero economico. Allora insieme ad altri segni dell’abbondanza, anche la poesia si inaridirà". Alla ricchezza economica corrisponde un drastico impoverimento dell’animo umano, che diventa incapace di slanci poetici, di quegli stessi slanci che fecero di Friedrich Georg - ancora lui, lo stimato e caro fratello - un grande poeta.
Se è indubbiamente l’uomo ad essere al centro dell’attenzione dell’autore (ciò non è affatto scontato, visto che ad esempio qualche anno dopo nel libro Cacce sottili oggetto del discorso saranno addirittura gli insetti), ciò non significa senza soluzione di continuità che l’uomo sia altresì al centro del mondo, vale a dire che ci troviamo qui di fronte ad una concezione antropocentrica. Al contrario, è proprio trasformandosi come essere storico e a partire dalla sua essenza storica, che l’uomo ha abbandonato progressivamente la sua troneggiante posizione centrale. "L’antico detto secondo cui l’uomo è misura di tutte le cose viene messo in dubbio. Dubbio, del resto, lo era fin dall’inizio". La prima affermazione si limita quasi a registrare un dato di fatto, la seconda invece non evidenzia tanto un dubbio originariamente insito in quel detto (appena formulato, il principio antropocentrico andava ovviamente molto orgoglioso di sé), quanto piuttosto il giudizio su quello stesso motto espresso da Ernst Jünger, che da parte sua ha sempre sottolineato la finitezza e la transitorietà dell’essere umano. "Un’immagine icastica di tale condizione la ritroviamo in Sindbad il marinaio", il quale, sbarcato su di un’isola assieme ad altri naviganti non si accorge che quello che gli sembra essere un pezzo di terra normalmente popolato da animali e piante è in realtà il dorso di un enorme pesce che sta riposando immobile. Quando però la situazione cambia e l’immobilità si converte in movimento la sicurezza dei naviganti si rivela essere autoinganno. Ma quando l’isola, che simboleggia il mondo, viene scossa, ad arrischiare la vita non sono solo i suoi occupanti umani, ma anche gli altri esseri viventi, a dimostrazione che l’uomo non è al centro del mondo né nella fase di stabilità né in quella di rovina. "Quando il pesce di Sindbad si muove, sono in pericolo non solo gli uomini, ma anche gli alberi e gli uccelli".
A questo punto del discorso Jünger inserisce alcune brevi annotazioni sul problema delle numerose specie animali che, per colpa dell’uomo o comunque per cause ambientali, sono in via di estinzione. L’autore definisce il tentativo di prolungarne l’esistenza sistemandone alcuni esemplari negli zoo una semplice "dilazione. Ritardarne la fine sarebbe possibile solo se si riuscisse a riportarli a un’epoca primordiale, trapiantandoli ad esempio in terre vergini, come quelle ancora offerte dal bacino amazzonico". Questa proposta jüngeriana potrebbe sembrare - e senz’altro lo è! - stravagante e bizzarra, in quanto ignora completamente i singoli habitat tipici delle varie specie. Tuttavia abbiamo scelto qui di riportarla, nonostante la sua marginalità rispetto all’impianto complessivo del libro, perché profondamente sentita da parte dell’autore, tanto da portare, due anni dopo, ad un seguito epistolare. Il riferimento va al breve ma denso carteggio, conservato presso l’archivio di Marbach am Neckar, nei pressi di Stoccarda, tra Ernst Jünger ed Ernst Zwilling, esperto del mondo animale africano e autore di molti libri e diari di viaggio sull’argomento. Sintetizzando: Jünger avanza a Zwilling l’ipotesi di "trapiantare" in altri continenti le specie africane minacciate. Zwilling risponde molto cortesemente dicendo che avrebbe riferito la sua proposta a Parigi ad un convegno internazionale. Poi gli riscrive scusandosi per non avere subito riconosciuto in lui il grande scrittore ed ex-combattente, gli rinnova altresì il suo interesse per la proposta ma fa rilevare che molte cerchie di esperti sono contrarie ad una simile alterazione artificiosa della fauna e dei suoi habitat. È comunque interessante notare che Jünger in questo modo fa rivivere in sé la sua giovanile passione per l’Africa (non dimentichiamoci che nella sua fuga giovanile nella Legione Straniera si imbarcò "armato" appunto di un libro sul continente nero), tant’è vero che contattò proprio Zwilling perché lo ricordava come l’autore di Unvergessenes Kamerun, un appassionato ed appassionante diario pubblicato nel 1939, cioè appena tre anni dopo i Giochi africani in cui Jünger narra, seppur in ritardo, la sua scappatella di diciottenne. Un motivo in più per capire come Ernst Jünger nel corso della sua vita non si sia mai lasciato alle spalle il passato, non abbia, cioè, mai "dimenticato".

Autore: Ernst Jünger
Titolo: Al muro del tempo
Traduzione: Alvise La Rocca e Agnese Grieco
Edizioni: Adelphi, Milano 2000
Pagine: 283 

[Tratto da Diorama letterario 243 - marzo 2001]