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Eroi con una unica ragion d'essere: vincere

di Eva Cantarella - 23/09/2009

P er quanto celebre, ricco e famoso possa essere oggi un atleta, la distanza tra lui e un suo collega dell' antica Grecia è incommensurabile. Per capirne le ragioni, bisogna pensare a quel che significava, allora, la gara e la vittoria. Fin dall' inizio della loro storia, i valori dei greci furono di carattere competitivo. L' educazione dei giovani era ispirata all' insegnamento che, già nell' Iliade, il centauro Chirone aveva impartito ad Achille: «Essere sempre il primo e il migliore». Solo chi riusciva a essere tale meritava la gloria che spettava all' eroe. Lo stesso valeva per l' atleta: se vinceva, in suo onore si erigevano statue e si scrivevano odi; in caso contrario, dava prova della sua inadeguatezza, con conseguente perdita dell' autostima e della stima altrui. Per questo, come dice un celebre verso di Pindaro, l' atleta sconfitto se ne tornava a casa «per obliqui sentieri nascosti». Sarebbe rimasto semplicemente allibito, un atleta greco, se avesse sentito De Coubertin dichiarare che «l' importante è partecipare». L' importante per lui era invece riportare quante più vittorie era possibile nel corso delle tante gare (agones) che a intervalli regolari venivano indette presso i grandi santuari, e organizzate secondo un calendario che, evitando sovrapposizioni, consentiva di cercare la gloria compiendo il cosiddetto periodos (circuito). Ma con il tempo, la pratica di gareggiare (che risaliva a un' epoca di molto antecedente al 776, data della prima Olimpiade) subì inevitabilmente dei cambiamenti. A un premio in un primo momento solo simbolico (a Olimpia, una corona di ulivo), se ne sostituì uno in danaro, secondo Plutarco offerto per la prima volta da Solone. A questo si aggiunsero vantaggi come i pasti forniti a vita dalla città e l' esenzione dalle imposte. A quel punto non erano più solo gli aristocratici a voler partecipare alle gare. E poiché la vittoria dava gloria anche alla polis del vincitore, le città presero a pagare gli atleti perché anche chi non ne aveva i mezzi potesse farlo. Del che, alcuni presero ad approfittare: nel V secolo, Astilo di Crotone partecipò, riportando la vittoria, a tre Olimpiadi consecutive: ma solo alla prima gareggiò per la sua città; alle altre due lo fece per Siracusa. Per lavare l' oltraggio, i suoi concittadini trasformarono la sua casa in prigione. Nel frattempo, si erano moltiplicate le discipline. A Olimpia, ad esempio, si svolgevano corse a piedi, a cavallo e sui carri; incontri di lotta di tre tipi diversi (la lotta propriamente detta, il pugilato e il pancrazio, un misto tra le due discipline); il pentathlon, che combinava cinque prove: il salto, la lotta, il lancio del disco, quello del giavellotto e la corsa a piedi. L' atletica ormai richiedeva un training specializzato: era nato il professionismo. L' organizzazione delle gare era minuziosa, le regole di comportamento precise: durante la lotta, ad esempio, era vietato afferrare i genitali dell' avversario, morderlo e mettergli le dita negli occhi. Ma si raccontava che un celebre lottatore di origine siciliana, Leontisco di Messina, avesse ottenuto due vittorie spezzando le dita all' avversario. Si sapeva di boxeur che avvolgevano le mani in fasce di cuoio di bue per rendere i loro colpi più micidiali. E non mancavano i casi di corruzione: il pugile Eupolo di Tessaglia, nel 388 a.C., comprò tre avversari e lo stesso fece l' ateniese Callippo alla 112a Olimpiade. Secondo Filostrato, l' agonismo era degenerato al punto che vi era chi pagava per ottenere una vittoria che la vita debosciata non gli avrebbe consentito. È possibile, però, che esagerasse: Plutarco (che scrive dopo novecento anni di storia olimpica) cita meno di una dozzina di casi di corruzione. Pochi o tanti che questi casi fossero, comunque, l' agonismo eroico se n' era andato. Ma una cosa era rimasta: per ragioni molto diverse da quelle antiche, bisognava vincere. Con qualunque mezzo e a qualunque prezzo. Come dimostra un celebre truculentissimo aneddoto: durante una gara di pancrazio, un tal Arrichion aveva afferrato un piede dell' avversario che lo stava strangolando, dislocandogli l' articolazione. In preda a un atroce dolore, questi aveva alzato l' indice in segno di sconfitta. Ma Arrichion era già morto. Che importava? Aveva vinto comunque. RIPRODUZIONE RISERVATA * * * I versi di Pindaro Gli sconfitti «s' acquattano morsi dalla sventura» D all' alto piombasti su quattro colpi meditando rovina per i quali festoso ritorno pari al tuo non decretava Pito né quando giunsero presso la madre un dolce riso suscitò letizia intorno ad essi, ma pei vicoli schivando i nemici s' acquattano morsi dalla sventura Pindaro, ottava Pitica