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La questione fondamentale è se sia possibile liberare l’uomo dalla paura

di Francesco Lamendola - 24/09/2009


Gli esseri umani hanno paura.
Ne hanno sempre avuta: paura delle malattie, del dolore, della morte.
C'è qualcosa di nuovo, tuttavia, e di terribile, nella paura che attanaglia l'uomo moderno, e a paragone della quale tutti i terrori del Medioevo impallidiscono e sembrano qualcosa di blando e relativamente innocuo.
L'uomo moderno sa che la sua vita è appesa ad un filo; che la sua civiltà è appesa ad un filo; che la sopravvivenza di tutte le specie, viventi sul pianeta in cui abita, è appesa ad un filo. E sa che reggere o spezzare quel filo, in massima parte, non dipende da lui, ma da forze impersonali e terribili, che egli ha evocato, ma delle quali ormai gli è sfuggito il controllo.
Specialmente dopo il 1945, dopo il fungo atomico di Hiroshima e Nagasaki, gli esseri umani sanno di aver raggiunto e superato un limite: il limite estremo in cui la hybris si trasforma in smania di autodistruzione; sa che l'intera apparato tecnoscientifico, di cui va tanto orgoglioso, gli si sta ritorcendo contro, gradualmente ma inarrestabilmente.
Per questo egli vive nell'angoscia, nella depressione e in quella condizione di vuoto esistenziale venato di nausea, così ben descritta da Sartre, in cui ogni cosa gli si presenta nella luce del disincanto; talché egli non si attende più che notizie di sciagure inaudite e irreparabili.
E che altro significa questo continuo gettarsi sulle ultime notizie dei giornali e dei telegiornali, più e più volte al giorno, se non la presenza di un cupo presentimento di morte e di annientamento, che ha spento in lui la gioia di vivere, e ha trasformato il suo peregrinare in terra in un vagare nella foresta buia dello smarrimento morale e dell'angoscia senza fine, come mirabilmente l'aveva già descritta Dante Alighieri, l'uomo vissuto alle soglie della modernità e capace, mediante il suo genio poetico, di presentirne tutti gli orrori e tutte le degenerazioni?
Eppure, noi sentiamo che lo strapotere della tecnica, l'inquinamento planetario e la stessa minaccia di distruzione atomica, non spiegano interamente la profonda angoscia dell'uomo moderno, il suo disperato senso di una immane tragedia incombente su di lui e su tutto il suo mondo; sentiamo, o intuiamo, che la causa del male è assai più profonda, e che essa ha a che fare con la perdita delle radici, ossia con la perdita del Mito e della Tradizione.
L'uomo moderno, che ha eretto il metodo scientifico a criterio unico di verifica della realtà, e l'efficienza produttiva a valore supremo, sente - o piuttosto intuisce - che, da quando egli ha reciso il proprio legame con il Mito, giungendo al punto di ridicolizzare quest'ultimo, ha perduto anche il contatto con la propria parte più vera e profonda, con la propria parte migliore: quella da cui infinite generazioni hanno attinto la forza per realizzare le opere, materiali e spirituali, la cui grandezza continua a sfidare i secoli e i millenni.
L'uomo moderno è disperato, perché la distruzione del Mito, da lui operata, si è risolta in una immedicabile auto-mutilazione, in una decapitazione delle sue energie migliori e della sua capacità di mettersi in sintonia con le forze presenti nel creato; e ciò, in cambio del proverbiale piatto di lenticchie, rappresentato da una serie complicata e costosa di gingilli tecnologici i quali, in teoria, dovrebbero rendere più forte la sua presa sulle cose e la sua capacità di manipolarle a paicere, e, al tempo stesso, più facile e comoda la sua stessa esistenza.
Scrive Ernst Jünger nel «Trattato del ribelle» (titolo originale: «Der Waldgang», Stuttgart, 1980; traduzione italiana d F. Bovoli, Milano, Adelphi, 1990, capp. 13 e 17, pp. 44-48 e  57-63):

«La paura è uno de sintomi del nostro tempo. Tanto più essa suscita costernazione in quanto è succeduta a un’epoca di grande libertà individuale, in cui la stessa miseria, per esempio quella descritta da Dickens, era ormai quassi dimenticata.
In che modo è avvenuto questo passaggio?  Se volessimo scegliere una data fatidica, nessuna sarebbe più appropriata del giorno n cui affondò il “Titanic”.  Qui luce e ombra entrano bruscamente in collisione: l’hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la distruzione, l’automatismo con la catastrofe che prende l'aspetto di un incidente stradale.
È un fatto che i rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà così ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi “Titanic” o anche “Leviatano”. Fintanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso d potenza dovuto alla velocità. Ma non appena si profilano all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non soltanto la tecnica abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che taluni individui, i quali hanno conservato la loro forza, esercitino un'autorità assoluta. […]
L'uomo si chiede in che modo gli sia possibile sottrarsi all'annientamento. In questi anni, in qualsiasi parete d'Europa ci si trovi a conversare, vuoi con amici vuoi con gente che non si conosce, il discorso si volge ben presto a temi generali e lascia trasparire un profondo avvilimento.  Appare subito evidente che tutti, uomini e donne, sono in preda a un panico che dalle nostre parti non si era più visto dagli inizi del Medioevo. In una sorta di cieco invasamento, li vediamo tuffarsi nel loro terrore, di cui esibiscono i sintomi senza pudore alcuno., Assistiamo a una gara di spiriti che discutono animatamente se sia più opportuno fuggire, nascondersi o ricorrere al suicidio, e che, pur godendo ancora della  completa libertà, già congetturano con quali mezzi e astuzie sarà possibile accaparrarsi il favore della plebaglia non appena questa si sarà impadronita del potere. Con raccapriccio ci accorgiamo che a nessuna bassezza costoro non darebbero il loro assenso se gli venisse richiesta. Eppure non mancano tra loro uomini sani e vigorosi, con una bella corporatura di atleti.  Viene da chiedersi a che giovi tanto sport.
Ebbene, questi uomini, oltre che pavidi, sono anche temibili.. L'umore balza in essi dalla paura all'odio dichiarato non appena si accorgono che le stesse persone che poco prima incutevano timore mostrano ora qualche segno di debolezza. Siffatte congreghe non s'incontrano soltanto in Europa.  Dove l'automatismo guadagna terreno e si avvicina alla perfezione, il panico si fa anche più tangibile: in America, ad esempio, esso trova il terreno che gli è più propizio, e si diffonde lungo reti più veloci del fulmine. Già è un indice di angoscia il bisogno di sentire le notizie più volte al giorno: la notizia si dilata e, girando sempre più vorticosamente su se stessa, finisce per paralizzarsi.  Tutte quelle antenne su città gigantesche fanno pensare a capelli che si drizzano sul capo, sembrano evocare contatti demoniaci. […]
Nell'epoca del nichilismo, la nostra epoca, si è diffusa l'illusione ottica per cui il movimento sembra acquistare importanza a spese dell'immobilità. In realtà tutto il potere tecnico dispiegato oggi altro non è che un effimero bagliore  dei tesori dell'essere. L'uomo che riesce a penetrare nelle segrete dell'essere, anche solo per un fuggevole istante, acquisterà sicurezza: l'ordine temporale  non soltanto perderà il suo aspetto minaccioso, ma gli apparirà dotato di senso.
Chiamiamo questa svolta PASSAGGIO AL BOSCO e l'uomo che la compie RIBELLE. […]
Il passaggio al bosco non va inteso come una forma di anarchismo rivolto contro il mondo delle macchine, sebbene questa tentazione sia forte, soprattutto quando si tende altresì a ritrovare il legame con il mito. […] Non si ritorna indietro verso il mito, il mito lo si incontra di nuovo  quando il tempo vacilla sin dalle fondamenta, sotto l'incubo di un pericolo estremo. […]
Sia con la sua opera sia con la sua vita, il poeta manifesta l'enorme superiorità del regno delle Muse su quello della tecnica., e aiuta l'uomo a ritrovare se stesso: il poeta È Ribelle. […]
La sovranità oggi non si riscontra più nelle grandi risoluzioni, ma esclusivamente nell'uomo singolo che ha abiurato in sé la paura.  Le incredibili procedure ideaste soltanto contro di lui  sono destinate, in ultima istanza, al suo stesso trionfo. Quando l'uomo capisce questo, è libero. E le dittature crollano miseramente.  Ritroviamo qui le riserve ancora pressoché intatte del nostro tempo, e non soltanto del nostro. Questa libertà costituisce il tema della storia in genere, nonché il suo limite: da un lato rispetto al regno dei demoni, dall'altro rispetto al puro accadere zoologico.  Era già tutto contenuto nel mito e nelle religioni, modelli che si ripetono senza osa: Giganti e Titani si ripresentano di continuo, e sempre con lo stesso immenso potere.  L'uomo libero li abbatte; non necessariamente deve essere un principe o Eracle in persona.  È già successo che bastasse la pietra scagliata dalla fionda di un pastore, il vessillo innalzato da una vergine, il lancio di una balestra.»

Oggi, dunque, i Giganti e i Titani, questi mostri e questi demoni, che troviamo in tutti i racconti mitici d'Oriente e d'Occidente, lanciati all'assalto del Kosmos, ossia del mondo ordinato secondo legge e secondo giustizia, non sono tanto le macchine, quanto lo spirito luciferino di cui la tecnologia, così come si è configurata nella modernità, è l'ultima manifestazione.
Per «spirito luciferino» intendiamo l'esplicita volontà, da parte dell'uomo moderno, di sostituirsi a Dio e di insignorirsi del creato, facendosi valore assoluto e negando valore e autonoma dignità a tutti gli altri esseri viventi, visti unicamente come strumenti da sfruttare senza limite e, poi, da gettare via, quando non ne abbia più bisogno.
Per «spirito luciferino» intendiamo, inoltre, lo spirito di negazione e di contraddizione, che spinge l'uomo moderno a porre se stesso come il deliberato avversario dei disegni della Provvidenza, in nome della propria folle pretesa di farsi lui stesso supremo architetto, giudice e giustiziere del creato, negando protervamente ogni legame di dipendenza con l'Essere da cui proviene.
L'odierna tecnica onnipervasiva è, in ordine di tempo, solo l'ultima manifestazione di tale spirito di ribellione de di autodivinizzazione, e, fino a questo momento, la più spettacolare, almeno sul piano materiale.
Ma la degenerazione parte da molto più lontano: ne troviamo traccia in tutti i Miti dell'umanità, da quello della Torre di Babele, a quello del Diluvio universale, a quello platonico della fine di Atlantide: e sempre, press'a poco, secondo il medesimo schema concettuale.
Giungiamo, così, alla conclusione che l'unico mezzo per sconfiggere la paura gelida, angosciosa, paralizzante, che attanaglia la mente ed il cuore dell'uomo moderno, è quello di ripristinare il nostro rapporto con il Mito e con la Tradizione, riportando la tecnica nell'ambito che le compete, e non oltre; e riappropriandoci della nostra parte essenziale: vale a dire, riscoprendo il nostro legame originario, ontologico con l'Essere.
Quando noi saremo in grado di riconoscere il transitorio come transitorio, il contingente come contingente, l'effimero come effimero; quando capiremo che nessuna quantità può sostituire la qualità, che nessun avere può surrogare l'essere, che nessuna velocità può considerarsi preferibile al radicamento: allora ritroveremo la via che conduce all'Essere.
Tale è la strada maestra da seguire: non esistono scorciatoie, né astuzie o furberie, che ci possano avvicinare alla meta senza fatica e senza un serio esame di coscienza. Infatti, per incamminarci con il piede giusto, dobbiamo riconoscere francamente di esserci attardati su strade sbagliate, che non conducono da nessuna parte.
Solo fondandosi nell'Essere, l'uomo ritrova la propria essenza, e ciò fa sì che le sue forze vengano centuplicate. L'uomo che fonda le proprie certezze nell'Essere, se ne sta saldo, come una torre capace di sfidare anche i venti più impetuosi; l'uomo che si fonda sul transitorio, sul contingente, sull'effimero (tecnica compresa), verrà spazzato via anche da una debole brezza, come una logora ragnatela che non resiste alla minima sollecitazione dell'aria.
Ce ne sono, di venti impetuosi, che ci attendono e che soffieranno possenti, nella nostra vita e in quella delle prossime generazioni!
Dobbiamo stare pronti: le membra gigantesche dei Titani già si stagliano all'orizzonte, pronte ormai a dare la scalata all'Olimpo del nostro mondo bene ordinato.
Per resistere loro e ricacciarne l'assalto, non abbiamo bisogno di altre macchine, ma di un cuore saldo e puro e di una piena, incondizionata fiducia nell'Essere che ci sostiene, ci giustifica, ci ama di un amore infinito e incondizionato.