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La crescita illimitata

di Riccardo Ianniciello - 24/09/2009

 


   Sarà perché credo che il nostro modello economico sia profondamente sbagliato e iniquo, benché io stesso paradossalmente ne sia un fruitore (attento), cogliendone i vantaggi apparenti: ma non gongolo ad assaporarne i suoi frutti (avvelenati), ben sapendo che per la loro produzione qualcuno, che potrà essere identificato con un numero, ha pagato in termini di dignità e diritti calpestati.
   Nonostante sappiamo da tempo che il modello di sviluppo capitalista si è rivelato fallimentare, poiché ha prodotto vergognose disparità sociali ed economiche (acuendo squilibri e ingiustizie), e immani disastri ambientali (il pianeta agonizza), adottando una crescita all’infinito, con un consumo d’energia e di risorse non rinnovabili, per il profitto di una minoranza della popolazione, vi è ancora diffusamente chi, per esempio, i nostri economisti, crede ciecamente in esso (come l’unico modello possibile), alla favola del progresso apportatore di benessere per tutta l’umanità, panacea per ogni male.  Occorre sfatare questo pericoloso mito, la fede nella società dell’abbondanza, dove l’unico riferimento è il denaro, occorre rivedere il concetto di ricchezza e povertà e i parametri per misurare l’indice di sviluppo umano.  Non è possibile credere che lo standard di vita dell’uomo sia sempre quello in salita dei ricchi; così  i poveri credono di essere in difetto, pur senza esserlo. È un continuo alzare il tiro e l’umanità si affanna stoltamente a raggiungere quel nuovo traguardo: una folle corsa in un consumo senza fine.
   Non si può pensare stupidamente di accelerare ancora, quando si è già arrivati ad un punto di non ritorno, quando abbiamo mandato il pianeta in malora. Dovremmo renderci conto di aver dato vita a un’Idra dalle cento teste, un mostro che non siamo più in grado di fermare, eppure le nostre economie competono ferocemente per alimentare e far crescere questa creatura aliena.
   La preoccupazione maggiore dei governi è data infatti, quasi unicamente dal PIL, ovvero dalla crescita economica e in questa forma di ansia cronica non vi è qualcosa di inquietante, di profondamente malato? Cosa accadrà quando miliardi di persone povere (in realtà con uno stile di vita più sobrio, se pensiamo ai bisogni indotti e ai nostri consumi inutili), raggiungeranno gli standard di consumo occidentali, come sta accadendo a 300-400 milioni di persone nella sola Cina? La strada della decrescita e dello sviluppo responsabile è non solo più giusta per l’uomo, ma obbligata.
   Mi colpisce sempre, quando si parla dell’economia mondiale e dei vari rapporti Onu sullo “stato di salute dei paesi”, il concetto che si vuole attribuire alla parola povertà, spesso caricata di significati che non le appartengono. La povertà non è altro che la condizione naturale dell’uomo, ovvero la semplicità di vita. Il modello di sviluppo occidentale è una colossale truffa e illusione, verso noi stessi e i popoli che nella storia abbiamo depredato e sfruttato, trasformando una dignitosa povertà in un’umiliante miseria, popoli che paradossalmente abbiamo condannato per avere uno stile diverso dal nostro, ma invero etologicamente sano. La povertà delle bidonville non è la dignitosa condizione dell’uomo in natura, quella semplicità che ha accompagnato il nostro cammino evolutivo per milioni di anni, ma l’anomalo prodotto di scarto di un sistema economico insensato che ci sta conducendo velocemente alla distruzione.
   L’analisi annuale dell’Undp, che misura l’indice di sviluppo umano sulla base di tre parametri – la speranza di vita alla nascita, il tasso d’alfabetizzazione adulta e il potere d’acquisto pro capite – è figlia diretta di quel folle modello di crescita che il rapporto indica quale causa prima dei mali che affiggono il mondo.
   La denuncia dell’Onu in questo senso è una presa in giro: da una parte punta l’indice verso quei Paesi che hanno adottato economicamente comportamenti spregiudicati e irrispettosi dell’ambiente e dall’altra indica, in quelle medesime caratteristiche che condanna – penso in particolare ai fattori che determinano il potere d’acquisto – i parametri per misurare la qualità della vita di un Paese. 
   La crisi globale che il mondo sta vivendo non è altro che l’implosione del modello imperiale occidentale proprio perché fondato sulla crescita illimitata e sullo sfruttamento delle risorse non solo naturali ma umane, con le speculazioni delle potenti lobby finanziarie e l’insensata politica economica dei governi. Dobbiamo abituarci a simili crisi che saranno sempre più frequenti, acute e poco distanziate nel tempo.  «L’atteggiamento espansivo, ovvero l’eliminazione del limite – scrive Franco Meli – porta con sé conseguenze particolarmente nefaste: aumento esponenziale dell’aggressività e della competizione, accaparramento con ogni mezzo possibile di qualunque risorsa possa portare vantaggi immediati». 
   Di fronte a questi scenari inquietanti potremmo certo seguire il consiglio di un grande sociologo, Zygmunt Bauman che in Paura liquida scrive:« Il futuro è nebuloso? Un’altra buona ragione per non farsene ossessionare. I pericoli sono indecifrabili? Un’altra buona ragione per dimenticarsene […] Andiamo avanti così. Non preoccupiamoci prima del tempo se dobbiamo attraversare un ponte. Forse non ci arriveremo mai, oppure crollerà prima, o sarà spostato altrove. Perché preoccuparsi ora? Meglio seguire l’antica ricetta carpe diem. O, più semplicemente: divertitevi ora, pagate dopo. O ancora, come vuole la versione aggiornata…di quella collaudata saggezza: meglio un uovo oggi che una gallina domani».
   E’ un intero passo che ho voluto riportare per la profondità di pensiero sottesa. Interessante è constatare quanto quello di Bauman sia un modo di pensare piuttosto diffuso: anche il mio barbiere la pensa alla stessa identica maniera.
   Mi auguro di imbattermi in ben altri contenuti quando ci affidiamo, per un’analisi della realtà contemporanea, alla lettura di un esperto. Le strade da percorrere sono evidentemente altre, dove l’imperativo categorico dovrebbe essere: sobrietà di vita, semplificare e ridurre i consumi, partendo dal basso, come ha scritto Eduardo Zarelli: “fuori dalle istituzioni del potere e del sapere, dato il disagio profondo di un vivere mercificato, la prossimità comunitaria che restituisca al vivere una dimensione relazionale di reciprocità e di sussidiarietà”.