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È impossibile cercare la verità solo nei fatti: occorre un criterio per saperli interpretare

di Francesco Lamendola - 28/09/2009


Una delle grandi illusioni del Pensiero Unico scientista, tipico della modernità, è che nei fatti risieda la veridicità o la validità di cui siamo alla ricerca; che in essi si trovi la verità già bella e pronta, liberata da ogni sovrastruttura soggettiva.
Un fatto del genere, bisogna dirlo con molta chiarezza, non esiste e non è mai esistito, né mai esisterà:  il fatto in se stesso non è più eloquente, o più veritiero, o più garante di una determinata validità conoscitiva, di quanto non lo sia la semplice opinione.
«I fatti, dateci soltanto e unicamente i fatti!», tuonavano i sacerdoti del Positivismo, tutti presi nella loro folle ubriacatura razionalista. Perfino gli scrittori naturalisti avevano fatto proprio un tale punto di vista, e andavano delirando di un romanzo che si potesse costruire come un esperimento di liberatorio, con rigoroso metodo scientifico; anzi, di un romanzo che sembrasse essersi fatto da sé,  oggettivo e impersonale quanto potrebbe esserlo una fotografia. Ahimé: nessuna fotografia è oggettiva e impersonale: ogni sguardo sul reale, sia esso quello dello scienziato, dell'artista, del filosofo o del teologo, è sempre e inevitabilmente soggettivo, parziale, limitato.
Hanno dunque ragione i corifei del cosiddetto «pensiero debole», da noi tante volte criticati, sul fatto che non esistono alcuna verità, alcun valore, alcuna certezza assoluti, e che dovremmo abituarci a farcene una ragione?
Niente affatto: una cosa è negare che la verità esista; un'altra, e ben diversa, è affermare che essa ci sia accessibile solo mediante il metodo scientifico. Dire che la verità non sta unicamente nei fatti, non equivale a sostenere che essa non stia da alcuna parte: sono due cose profondamente diverse. Si tratta di riconoscere che i fatti, di per sé, non parlano un linguaggio obiettivo, perché qualunque cosa abbiano da dirci, non possono dircela che attraverso le nostre categorie conoscitive.
In questo senso, bisogna avere il coraggio di riconoscere che, negli ultimi tre secoli, abbiamo seguito una strada sbagliata: convinti, come eravamo, che la via verso la verità conducesse direttamente al fatto puro e semplice, possibilmente osservabile e misurabile sperimentalmente e magari, meglio di tutto, riproducibile in laboratorio.
Questa strada si è rivelata sbagliata, perché tutta una serie di smentite ci hanno indotti a ridimensionare saggiamente le pretese di veridicità e validità assoluta della nostra conoscenza, quando essa si basa unicamente sull'osservazione dei fatti. Cosa c'è di più veritiero, di più oggettivo, del levarsi del sole ogni mattino, e del suo tramontare ogni sera? Eppure, ormai sappiamo che non si tratta di un movimento reale, ma apparente; e che esso è dovuto a un movimento completamente diverso da quello osservato: ossia il movimento di rotazione della Terra su se medesima, che, invece, non è percepibile con i sensi fisici.
In altre parole, il fatto ci dà il fenomeno, non la cosa in sé: la cosa in sé  è oggettiva, ma giace al di là della nostra portata; il fenomeno è il fatto, così come noi lo possiamo osservare: ma è, inevitabilmente, soggettivo. Infatti, quando avessimo la pretesa di affermare che un determinato fatto è veritiero, subito qualcuno ci potrebbe obiettare: «Veritiero, per chi? E, inoltre: veritiero, che cosa?».
D'altra parte, noi non abbiamo a disposizione soltanto i sensi fisici, per gettare uno sguardo su mondo; e non disponiamo della sola ragione, per organizzare i dati dell'esperienza sotto forma di ipotesi, teorie e leggi.
Il giudizio sulla veridicità e sulla validità dei fatti dipende, in larga misura, dall'intuizione del soggetto e, comunque, da un insieme di elementi che i sostenitori della validità universale del metodo scientifico amano descrivere come irrazionali, mentre sono piuttosto extrarazionali e, forse, sovrarazionali.
Immaginiamo che un uomo ci dica di aver visto atterrare un disco volante nel campo dietro casa sua; e immaginiamo che, recatici sul luogo, non riusciamo a trovare alcun elemento oggettivo che ci permetta di convalidare tale affermazione (bruciature sul terreno, schiacciamento delle coltivazioni e simili). La nostra conclusione sulla veridicità di quel fatto, o di quel presunto fatto, ricadrà sul grado di attendibilità che vorremo dare alla testimonianza di quell'uomo.
Se, per esempio, si trattasse di un uomo in evidente stato di alterazione alcolica, il suo grado di attendibilità ci apparirebbe minimo o nullo; ma se, per caso, si trattasse di persona estremamente seria e degna di fiducia, poniamo di un nostro caro amico, del quale sappiamo che non è uso fare scherzi o dire la più piccola bugia, allora il grado di attendibilità delle sue parole acquisterà un peso notevole. Se poi vi fossero altri elementi concomitanti a suffragarle, per esempio segni inconfondibili di autentica paura o di profondo turbamento nel suo aspetto e nella sua voce, le probabilità a favore della sua sincerità saliranno ulteriormente.
Sorgerà, a questo punto, un ulteriore problema. Non si tratterà di credere o non credere al suo racconto, essendo evidente che quell'uomo ci ha riferito un fatto della cui realtà egli non dubita minimamente; ma, piuttosto, di stabilire in quale misura ciò che egli ha visto possa considerarsi reale: in quale misura, cioè, egli abbia saputo interpretare correttamente l'esperienza di cui è stato protagonista. Il problema ermeneutico, insomma, si pone inevitabilmente. Non potrebbe darsi che quell'uomo, in perfetta buona fede, si sia ingannato, scambiando un fenomeno atmosferico per un disco volante?
Valutazioni di questo genere hanno sempre a che fare con ciò che, entro un determinato contesto culturale, una società è abituata a ritenere possibile, e con ciò che, viceversa, essa, in linea generale, è propensa a ritenere impossibile; fra i due giudizi estremi, si colloca poi una sorta di zona grigia, ove i confini tra l'una e l'altra cosa tendono a farsi più incerti e sfumati, e ammettono una serie più o meno numerosa di eccezioni.
Oppure facciamo un altro esempio: le «voci» che udiva Giovanna d'Arco, e che molte altre persone - alcune sante, altre pazze e criminali - sostengono di udire, e dalle quali si sentono spinte ad agire in un determinato modo. Recentemente, questa fenomenologia ha fatto la sua comparsa nelle aule di un tribunale, allorché l'avvocato difensore di un individuo, accusato di aver partecipato a un efferato omicidio, ha invocato la possessione demoniaca quale circostanza invalidante la volontà del proprio assistito.
Se le «voci», o una forza ancora più cogente, possono operare all'interno dell'anima umana, che cosa rimane della nostra libertà di scelta fra bene e male? E che cosa rimane della nostra presunzione di poter giudicare i fatti in modo spassionato e oggettivo?
Ma torniamo a Giovanna d'Arco. Come è noto, anch'ella venne sottoposta a processo: e il tribunale che la giudicava arrivò alla conclusione ch'ella era colpevole di stregoneria, e la condannò al rogo. Si trattò di un giudizio essenzialmente politico, come oggi riconoscono onestamente tutti gli storici, compresi quelli inglesi: l'impressione, del resto, fu quasi subito quella. «Siamo perduti! - esclamarono  i soldati inglesi presenti all'esecuzione - Abbiamo bruciato una santa». Santa o strega? Voci autentiche o voci ingannevoli?
Peraltro, vale la pena di ricordare che i giudici che condannarono Giovanna, non la accusarono di essere una bugiarda; non sostennero che si fosse inventata le voci: negarono che fossero voci provenienti dall'alto, e si convinsero che doveva trattarsi di voci di origine diabolica. Ancora una volta, il problema ermeneutico: posto che un determinato fatto sia vero, come lo si deve interpretare? Come si vede, un medesimo fatto può essere soggetto a due interpretazioni perfino opposte; con tutti i possibili gradi intermedi di giudizio, tanto sulla sua autenticità, quanto sulla sua effettiva natura. Il fatto in se stesso, non è mai autoevidente: tutto dipende dal giudizio che ne vogliamo dare.
Perciò, cari signori scientisti, smettetela con questa storia che bisogna darvi i fatti e soltanto i fatti: la verità è che voi, imbevuti di pregiudizi, avete già deciso in anticipo quali fatti ritenete possibili, e quali no; e, sulla base dei vostri pregiudizi, andrete poi a cercare le ragioni per motivare il vostro assenso o il vostro rifiuto nei confronti della loro veridicità e della loro validità.
Ciò non significa che bisogna rinunciare, sempre e comunque, ad esprimere un giudizio sulla veridicità e sulla validità delle cose; significa che bisogna procedere con molta cautela, e riconoscere la precarietà delle nostre categorie interpretative.
Ma esistono altre forme di conoscenza, come abbiamo detto, oltre a quella puramente razionale, che possono permetterci di percepire la verità di un fatto: ciò è particolarmente evidente allorché ci si trova in presenza di un evento legato alla fede religiosa. Un uomo può trasformare l'acqua in vino? Può camminare sulle acque? Può resuscitare dal sepolcro un altro essere umano, e ritornare dalla morte egli stesso?
Certi teologi moderni hanno fatto i salti mortali per tentare di conciliare ragione e fede, esaminando minuziosamente i miracoli del Vangelo ad uno ad uno, nel vano tentativo di trovare una spiegazione che non scontentasse né l'una, né l'altra. Ma il fatto è che la verità scientifica giace su un piano - quello materiale - che è diverso dal piano della fede religiosa, o della creazione artistica, o del sentimento intimo dell'io (a proposito di quest'ultimo: l'amore è un fatto o una opinione? Ecco una domanda alla quale lo scientismo non saprebbe rispondere).
Il giudizio sulla veridicità o sulla validità di un fatto, quindi, dipende anche dal contesto culturale entro il quale ci collochiamo: ciò che appare come incredibile dal di fuori, diventa assolutamente indubitabile all'interno; e viceversa.
Ma allora dobbiamo rinunciare ad ogni criterio di veridicità e adattarci alla radicale, irriducibile soggettività di ogni giudizio circa la verità delle cose?
Noi non lo crediamo. Al contrario, possiamo e dobbiamo esprimere dei giudizi sulla verità delle cose; del resto, lo fanno anche coloro i quali, a parole, negano la legittimità di qualsiasi criterio oggettivo. Però, al tempo stesso, dobbiamo essere consapevoli che esistono anche dei sensi interni, di natura spirituale, che ci aiutano a formulare tali giudizi.
Noi possiamo «sentire» che una cosa è vera, anche se non siamo in grado di spiegarlo razionalmente. La verità del filosofo, del mistico, del poeta, non è di grado inferiore a quella dello scienziato, tutt'altro; ma si colloca su un piano diverso e presuppone una differente prospettiva, entro la quale sono valide categorie che non coincidono con il Logos razionale.
Una persona cara muore a molti chilometri di distanza: eppure accade che l'amico, il congiunto, ne abbiamo la certezza immediata, prima di ricevere qualunque comunicazione al riguardo, con lo stesso grado di certezza che se fossero stati presenti al momento del fatto. Questo è solo un esempio; potremmo farne moltissimi altri dello stesso genere, molti dei quali documentati in maniera incontrovertibile.
La stesso tipo di ragionamento si può fare riguardo alla consapevolezza e alle esperienze superiori della coscienza, ossia quelle relative alla sua apertura e alla sua capacità di abbracciare, in un solo istante fuori del tempo, tutta la ricchezza, la bellezza e la verità dell'esistenza. Lo scienziato di formazione positivista e materialista alzerà le spalle al riguardo: lui, esperienze del genere non ne avrà mai fatte: di conseguenza, le riterrà impossibili, o puramente illusorie.
Chi le ha fatte, o chi vi si è anche soltanto avvicinato, sa, invece, che esse sono vere, più vere di qualunque dimostrazione matematica; e sa anche che la loro veridicità e validità non sono verificabili mediante le categorie del Logos strumentale e calcolante, ma appartengono ad un altro ordine di realtà: un ordine che comprende le verità della pura ragione, ma che le oltrepassa di gran lunga, attingendo alla dimensione dell'Assoluto.
La verità, dunque, esiste: perché l'Essere, dal quale derivano tutte le cose, ne è il supremo garante, già per il solo fatto di averle tratte dal non essere.
Se il mondo in cui viviamo fosse causale, potrebbe anche non esservi una Verità, né un criterio per attingerla: nel senso che le cose potrebbero essere o non essere, indifferentemente.
Ma, se il mondo si dà la pena di esistere, significa che è stato tratto dal non essere all'essere; e che tale operazione non è stata causale, ma intenzionale, sapiente e benevola.
Dunque, la Verità esiste, perché essa non è e non può essere la figlia del caso, ma di un piano intelligente e armonioso.
E non è vero che noi siamo esclusi da essa, anche se è vero che non possiamo attingerla interamente.
Possiamo, però, avvicinarci ad essa: e lo facciamo ogni qualvolta riusciamo a sollevarci, anche solo di poco, dal piano puramente materiale dell'esistenza, per tentare di intravedere ciò che sta oltre, e che ci attira come il mormorio delle acque attira la cerva assetata.
Il sapere della scienza è puramente quantitativo e, in genere, rivolto alla manipolazione utilitaristica delle cose; quello della coscienza è, invece, qualitativo e contemplativo, cioè assolutamente disinteressato.
La Verità è una: ma quei frammenti di essa che a noi mortali è dato cogliere, sono quelli che ci si presentano alla coscienza allorché, mediante la contemplazione, ci poniamo di fronte alla realtà in maniera del tutto equanime, distaccata e amorevole, piuttosto che quelli di cui è capace un Logos vorace e assetato di possesso e di dominio.