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Elogio della sconfitta

di Francesco Lamendola - 29/09/2009


La vita è una lotta; a volte, una lotta molto dura.
Lo sappiamo, eppure tendiamo a dimenticarcene o a confondere i nostri desideri con la realtà; ci piacerebbe che così non fosse, e finiamo per cadere nella rete dei nostri stessi sogni e delle nostre confuse aspirazioni.
In fondo all'anima dell'uomo, vi è una profonda aspirazione alla pace: per questo vorremmo poter dimenticare, qualche volta, che la pace non è un dato acquisito e stabilito una volta per tutte, ma, semmai, un punto di arrivo e una dura conquista.
Ecco perché non dovremmo essere troppo indulgenti nell'educazione dei bambini: non facciamo il loro bene, se li portiamo a credere che la vita non sia lotta, e che la pace sia la condizione normale dell'esistenza. Li mandiamo disarmati ad affrontare un mondo difficile, che richiede occhi e orecchi sempre pronti a cogliere i segnali di pericolo, e nervi pronti e muscoli allenati per fronteggiare la lotta, quando essa risulta inevitabile.
Quello che dovremmo imparare, e insegnare a nostra volta ai nostri figli, è che, pur essendo la lotta un elemento ineliminabile della vita, è possibile e doveroso impedirle di avvincere e soggiogare i nostri pensieri e le nostre emozioni. Dobbiamo diventare dei guerrieri imperturbabili, che non temono lo scontro, ma che non lo vanno a cercare e, soprattutto, che non se ne lasciano turbare emotivamente.
Vale pur sempre l'esortazione di Krishna ad Arjuna, sul campo di battaglia di Kuruksetra, così come ci viene riferito nella «Bhagavad-gita»:«Certo che molti uomini moriranno, quest'oggi; e tu dovrai brandire la spada contro i tuoi stessi parenti ed amici; e nondimeno, combatti, o figlio di Kunti: combatti senza esitazioni e senza paura!».
Il male, dunque, non è nella lotta che siamo costretti ad affrontare; il male è nel lasciarsi turbare e sottomettere dai pensieri e dalle emozioni della lotta, perdendo il proprio equilibrio interiore e smarrendo la propria serenità d'animo.
Come insegna il Tai chi - che è pur sempre, non dimentichiamolo, un'arte marziale, anche se assolutamente non violenta -: lo scopo della lotta è quello di fortificare corpo e spirito, affinché nulla ci faccia perdere il nostro baricentro. Si tratta di imparare a controbilanciare la spinta aggressiva, che ci viene portata dal di fuori, con la spinta propositiva, che parte da noi stessi, in maniera dinamica ed elastica: chi è centrato in se stesso, vi riesce; chi non lo è, non vi riesce. In altre parole, è già predisposto alla sconfitta colui che non possiede il proprio centro interiore; mentre non potrà perdere colui che lo possiede e che, quindi, è in grado di ritrovarlo, a dispetto di ogni pressione e di ogni assalto.
Noi dobbiamo imparare a lottare, se necessario, perché la vita è lotta; ma, al tempo stesso, dobbiamo imparare a farlo senza attaccamento, senza odio, senza paura, senza esaltazione o frenesia di vittoria. L'importante è far sì che niente e nessuno possano strapparci fuori da noi stessi, dal nostro centro interiore, facendoci smarrire l'equilibrio spirituale.
Né dobbiamo immaginarci il nostro antagonista nei panni di un altro essere umano. Può essere una malattia, una partenza, una separazione, uno scacco professionale o una delusione affettiva. Dobbiamo affrontare ciascuno di tali avversari con freddezza, energia e coraggio, ma soprattutto con distacco e imperturbabilità.
Ora, è evidente che, se la vita è una lotta continua, incessante, nessuno può pensare di uscirne sempre vincitore, ogni giorno e ogni ora. Anche il miglior lottatore, prima o poi, subisce la sconfitta: è inevitabile. Ed è proprio allora, nel momento della sconfitta, che si può vedere, meglio che in qualunque altra circostanza, di che stoffa sia fatto il guerriero che è in noi.
La differenza fra un guerriero stupido, alla Rambo, ed un guerriero consapevole, non è solo che il primo ama la lotta fine a se stessa, mentre il secondo la considera come una dura necessità, un semplice strumento per difendersi; risiede anche nel fatto che il primo si sente umiliato e furioso se perde, mentre il secondo sa che la sconfitta è una occasione preziosa per migliorarsi e imparare nuove cose dalla vita.
Per il guerriero consapevole, distaccato ed equanime, l'importante non è vincere sempre, ma combattere con onore e spirito puro, ossia senza odio e senza cattiveria; quanto alla sconfitta, egli la vive come un momento di perfezionamento spirituale e come uno stimolo potente a ripensare se stesso, i valori che lo ispirano e le cose che lo circondano.
La stupidità, quindi, non risiede nel fatto di voler vincere sempre (chi mai si batte con il desiderio di perdere?), ma nell'assoluta incapacità di comprendere che nella sconfitta si possono imparare più cose che nella vittoria; e che, pertanto, pur essendo in se stessa un'esperienza indesiderata, nondimeno essa è la vera maestra di vita dell'uomo saggio.
Questa conclusione, dal punto di vista della società odierna, scioccamente e gratuitamente competitiva, non suonerà gradita a molti orecchi ed anzi, senza dubbio, provocherà scandalo, se non irrisione e disprezzo.
Il fatto è che, agli occhi della maggioranza, la lotta ha il solo scopo di offrire occasioni per vincere, ossia per ottenere plauso e ammirazione dagli altri, possibilmente anche invidia. Ben difficilmente la persona che non abbia intrapreso un cammino di consapevolezza, arriva a riconoscere che, se noi viviamo nel migliore dei mondi possibili e se, quindi, ogni cosa è esattamente così come dev'essere, come è giusto che sia, allora anche la sconfitta non è più un accidente deprecabile e molesto, ma parte di un disegno intelligente e benevolo, che ci offre le più ampie possibilità di comprensione e di perfezionamento.
Solo chi pensa che il mondo sia casuale, che noi siamo casuali e insignificanti, si dispera per la sconfitta e smania perché vorrebbe vincere sempre; costui parte da un grave errore di prospettiva, e finisce per fraintendere completamente il senso della lotta in cui siamo coinvolti nel corso della nostra esistenza terrena.
Quello che è in gioco, non è l'orgoglio o il nostro senso di superiorità sugli altri; la posta in gioco è la nostra capacità di aprire gli occhi sulla realtà, liberandoli dalla benda che ci rende simili a dei ciechi e ci costringere a procedere a tentoni, sbattendo qua e là senza posa. Colui che vince una battaglia, ma è inconsapevole, continuerà ad andare a sbattere dappertutto, come un cieco: ripeterà le stesse dinamiche regressive, rinnoverà sempre i medesimi errori, senza fine; mentre colui che perde una battaglia, ma è divenuto consapevole, aprirà gli occhi sulla vera natura delle cose, si libererà da pericolose illusioni e comincerà, finalmente, a muovere i propri passi nella giusta direzione: quella del ritorno all'Essere.
Nel «Diario di un curato di campagna» di Bernanos si esprime il concetto che tutto è grazia: e tale è la visione del mondo di colui che ha raggiunto la consapevolezza e che sa vedere, oltre le antinomie e le contraddizioni, anche dolorose, della vita, l'ordito mirabile sopra il quale essa viene tessendo la propria tela. Di conseguenza, anche la sconfitta è grazia: anche la malattia, l'insuccesso, la perdita di ciò che amiamo: la perdita fisica, beninteso; perché nulla e nessuno potranno mai toglierci l'oggetto del nostro amore.
Arrivare a riconoscere ovunque i segni di una perfezione che abbraccia l'intero universo, non è cosa che si possa improvvisare: presuppone un aspro e solitario cammino verso la consapevolezza, costellato di sconfitte, più che di vittorie. Ma che cos'è la vittoria, senza consapevolezza? Vanità, puerile orgoglio e ridicola esibizione di esultanza.
Si tratta di un duro cammino, perché, sul piano della coscienza ordinaria, lo spettacolo del male crea scandalo e ci porta a giudicare assai severamente l'ordine del mondo in cui viviamo. Il male, in effetti, è ovunque: non solo nell'aereo americano che, dotato di sensori, centra in piena notte un villaggio afghano seminascosto fra le montagne, distruggendolo sotto un diluvio di droni; non solo nella bambina che muore di fame tra le braccia di sua madre, in qualche plaga del Sudan sconvolta dalla siccità e dalla violenza degli uomini; ma anche nella lampreda che si attacca al pesce di cui ha deciso di cibarsi, divorandolo vivo a poco a poco, o nelle piante parassite che si abbarbicano all'albero e lo soffocano lentamente, portandolo inesorabilmente alla morte: in breve, in ogni manifestazione della vita.
Gli esseri umani, la cui visuale è irrimediabilmente viziata dal loro antropocentrismo, si preoccupano principalmente del male morale; ma siamo proprio sicuri che il male che distrugge la vita di un passero, ghermito da un rapace, sia soltanto di tipo fisico? Siamo sicuri che il male fisico non implichi un male morale, anche nel mondo degli esseri non umani? Forse che solo gli uomini amano la vita, e soffrono quando la malattia e la morte bussano alla loro porta o a quella dei loro simili, cui si sentono maggiormente legati?
Eppure, abbiamo detto che tutto è grazia; che tutto è così, come dev'essere. Come è possibile fare delle affermazioni simili, in presenza di un male così universalmente diffuso, così ontologicamente inseparabile dalla condizione dell'esistente?
Lo è, nella misura in cui riusciamo ad abbandonare la visuale ristretta, propria del piano della contingenza, per innalzarci gradualmente alla visuale a trecentosessanta gradi, propria del piano della necessità. Nel piano della contingenza, le cose si presentano in opposizione polare: caldo e freddo, luminoso e oscuro, salute e malattia, vita e morte; e, di conseguenza, come lotta continua e incessante. Ma nel piano della necessità, che è il piano dell'Essere, gli opposti si abbracciano e si fondono; scompaiono per lasciare il posto ad una armonia assoluta, dove tutto è grazia sovrabbondante e splendore infinito.
Agli umani non è dato portarsi sul piano dell'Essere, se non per pochi istanti, sicché ne possono cogliere solamente qualche fugace visione, qualche isolata scintilla: almeno nella presente condizione, appesantita dall'illusione. Nel nostro stato ordinario, infatti, non riusciamo a cogliere l'armonia dell'insieme, ma rimaniamo continuamente turbati, nel bene e nel male, dalle singole cose, le quali ci appaiono - erroneamente - slegate le une dalle altre.
Innalzarsi verso il piano dell'Essere, significa incominciare col fare silenzio entro noi stessi, mettendo a tacere le mille voci chiassose e insulse che ci distraggono dall'unica voce che realmente conti: la voce della chiamata; poi, imparare gradualmente a liberarsi dalla smania giudicante, per assumere il punto di vista di una spassionata, equanime e benevola accettazione dell'esistente, pur nella consapevolezza delle molte cose che - sul piano del relativo - dovrebbero essere cambiate. Ma nessuno è mai riuscito a cambiare in meglio neppure un filo d'erba, se prima non ha posto mano al proprio io; se prima non si è impegnato per migliorare se stesso.
La storia è piena di esempi di individui i quali credevano che bastasse rovesciare governi, mandare a morte avversari e stabilire nuove leggi, per rinnovare e purificare il mondo; e che, invece, hanno aggiunto alle brutture che già esistevano, anche le proprie, non di rado assai peggiori di quelle. Ribadiamo il concetto: nessuno può presumere di cambiare il mondo in meglio, se prima non è capace di cambiare in meglio, almeno in parte, se stesso.
Credere che basti agire sulle cose esterne per stabilire verità e giustizia nel mondo, è una illusione funesta: una delle tante di cui è vittima l'individuo inconsapevole, che avanza a tentoni come un cieco, ossia come il guerriero sciocco.
Noi non siamo stati chiamati alla vita per giudicarla, ma per accettarla ed amarla; non possiamo sostituirci a Dio, e, del resto, non abbiamo alcun titolo per improvvisarci giudici del bene e del male. È chiaro che, in presenza di un'azione che riteniamo malvagia, abbiamo il dovere morale di intervenire: ma dovremmo farlo senza l'illusione, e la presunzione, di essere i guerrieri del bene in lotta contro il male. Il nostro occhio non è limpido; il giudizio che emettiamo sulle cose non può che essere limitato e imperfetto, come lo è il nostro punto di osservazione - almeno finché ci manteniamo sul piano della contingenza.
No; non siamo stati chiamati per questo: ma per dire «sì» alla vita, anche là dove essa appare sotto scacco: come avviene, appunto, nel caso della sconfitta.
Per usare il linguaggio di san Francesco, la sconfitta è nostra sorella e noi dobbiamo amarla, perché è solo grazie ad essa che ci ricordiamo della nostra piccolezza e ci sentiamo spronati a volare alto.
È la sconfitta che ci rende veramente umani e che, talvolta, ci fa degni di essere amati a nostra volta.