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Lo spirito dell'Europa

di Fabio Calabrese - 30/09/2009



Questo doppio articolo richiede due parole di spiegazione. Inizialmente, avevo
concepito e pubblicato sul sito dell'associazione celtica Celticworld un saggio
diviso in quattro parti: “Europa, una civiltà originale e creativa dal neolitico
all'età moderna” che aveva l'intento di controbattere le tesi di tutti coloro che
sostengono l'origine orientale di tutte le invenzioni importanti nella storia
umana, arrivando in pratica a sostenere che noi Europei senza un qualche influsso
civilizzatore da oriente non saremmo in grado nemmeno di allacciarci le scarpe.
Tutti costoro risentono, a mio parere, di un pregiudizio derivante dall'aver
interiorizzato quella raccolta di leggende e sciocchezze mediorientali chiamata
bibbia come fondamento della loro idea della storia.

E' stato poi naturale aggiungere a questo lavoro una quinta ed una sesta parte – i due
articoli che trovate qui – dedicate alle conquiste dell'Europa anche in campo
culturale e spirituale, ma a questo punto il discorso di necessità si allarga, con
implicazioni anche politiche che non possono non interessare anche coloro che non
hanno una propensione per il celtismo.

Occorre rilevare che una parte delle argomentazioni qui riportate sono già comparse
in un mio precedente scritto, “Islam, cristianesimo, Europa” che è stato fra i miei
scritti forse quello che è andato incontro ai maggiori fraintendimenti ed equivoci,
dimostrandomi con chiarezza che anche nei nostri ambienti ci sono persone
letteralmente incapaci di capire quello che leggono. Su di un forum “nostro”, un
emerito imbecille (che, come di solito si usa in questi casi, si è vilmente celato
dietro uno pseudonimo) lo ha definito “grondante di spirito anti-europeo”.
L'equivoco, probabilmente è nato dal fatto che l'articolo esprimeva una disistima
non totale nei confronti dell'islam, che ha almeno il pregio di essere “Una religione
da guerrieri e non da donnette”, e nei confronti del cristianesimo manifestava
invece un giudizio di totale negatività (che non posso altro che ribadire).

La questione è semplice: confondere le radici dell'Europa con il cristianesimo è
come confondere gli organi interni di un uomo con un cancro che li pervade. I cristiani
sono “spiritualmente semiti”, non lo dico io, l'ha detto un papa, Pio XI. Per
converso, io penso che se ci imbattiamo in qualcuno nella cui mentalità non c'è almeno
una piccola traccia di paganesimo, non ci troviamo di fronte ad un europeo.

Io non vorrei essere stato eccessivamente duro con Claudio Mutti, del cui lavoro come
storico revisionista ho il massimo rispetto, ma sinceramente non riesco a capire
quale fascino possa esercitare su uno di noi, su un europeo, la dottrina del Profeta
ma, da questo punto di vista, il fascino della dottrina del Discorso della Montagna mi
rimane ugualmente inaccessibile.

Nell'impossibilità di sapere quale destino ci attenda oltre la morte, o se vi sia un
destino oltre la morte, preferisco la fedeltà alle più antiche tradizioni della
nostra stirpe.




E' giocoforza tornare ancora sul nostro discorso riguardo all'Europa, aggiungere
ancora una “quinta parte”, perché la rivendicazione della priorità europea in
alcune scoperte materiali che hanno determinato il progresso del genere umano,
quali i metalli, (forse) l'agricoltura, la scrittura, non è sufficiente. Per
contrastare fino in fondo i pregiudizi orientalisti, occorre riscoprire la
consapevolezza della grandezza del nostro continente, della nostra cultura, delle
nostre radici anche in campo intellettuale e spirituale, riscoprire in una parola lo
spirito dell'Europa.

In via preliminare, però, perché il discorso abbia senso, occorre stabilire di cosa
stiamo parlando, a quale delle diverse, possibili idee di Europa faccio
riferimento, in quale mi riconosco; ed allora diciamolo subito: l'Europa NON E' la
UE, Maastricht, Schengen, Strasburgo, quel modello di Europa che i santoni della UE
ed i padroni della BCE cercano a tutti i costi di imporci: un'Europa sradicata,
mondialista, senza identità, sponda orientale della globalizzazione “made in
USA”.

Io non vorrei ora indulgere oltre misura al gusto dell'auto-citazione, ma in un
articolo di un paio di anni fa, comparso sia su Celticworld, sia sul sito
dell'Associazione Bibrax, “The Celts are coming” in cui ho raccontato il mio lungo,
complesso avvicinamento al mondo celtico, la mia autoiniziazione oserei dire,
avevo scritto:

“Capita che nel corso dei secoli, in un'Europa dominata dai Latini e dai Germani, cui
in un secondo momento, nel mescolamento dei rapporti determinato dalle invasioni e
dalle migrazioni che hanno aperto la porta all'Età di Mezzo si sono aggiunti gli
Slavi, quelle celtiche sono identità etniche sopravvissute, minoritarie, di
comunità che per secoli hanno dovuto difendersi dall'aggressività maggioritaria
degli stati – nazione centralizzati: Irlandesi, Scozzesi e Gallesi nelle Isole
Britanniche, Bretoni in Francia, Asturiani e Galiziani nella Penisola Iberica. Qui
scatta, per le persone dotate di sensibilità morale, l'istintiva solidarietà che ci
spinge ad essere dalla parte del dominato contro il dominatore, con l'oppresso
contro l'oppressore. Siamo tutti Celti così come all'epoca della Guerra Fredda
sull'esempio di John Kennedy eravamo tutti berlinesi. Nello stesso tempo, però, in
questo riconoscersi Celti c'è qualcosa in più. Queste testarde identità scozzese,
irlandese, gallese, bretone, asturiana, galiziana non sono solo un residuo del
passato, ma un modello per l'avvenire, poiché oggi ed ancor più in futuro rischiamo e
rischieremo di essere travolti come identità, culture, tradizioni, appartenenze,
nel mare magnum di una globalizzazione planetaria che tutto appiattisce. Il
radicamento in una cultura, in una tradizione, in un'identità forte non è una gabbia
che imprigiona l'uomo ma uno scheletro che lo sorregge, la premessa di quella libertà
che non è solo assenza di costrizioni esteriori, ma deriva dal sapere ciò che si è, cosa
si vuole e dove si sta andando.

Libertà: parola profondamente cara all'uomo celtico, condizione dell'esistenza
indispensabile come l'aria che si respira, e da difendere con le unghie e con i denti.

Nello stesso tempo, la riscoperta delle radici celtiche è anche qualcosa di più.
Poiché siamo entrati in un'epoca nella quale gli stati nazionali devono cedere
sempre più il passo, integrarsi in misura sempre maggiore in una realtà
super-statale europea, resta da vedere se questa Europa sarà semplicemente quella
della moneta unica, dei mercati, dei grandi gruppi multinazionali, un matrimonio
d'interesse fra gli stati ed i capitali delle varie parti del continente, oppure
fondarsi sul senso di appartenenza dei suoi membri, essere non la cancellazione
delle identità ma la scoperta di un'identità allargata. In questo caso, in un'ottica
dalla quale storia cultura e tradizione non possono essere lasciate fuori, è
giocoforza riscoprire la radice celtica che unifica ed incrocia trasversalmente
gran parte delle identità nazionali del Vecchio Continente”.

Parole delle quali non vedo alcun motivo di cambiare nemmeno una virgola, e credo
diano esattamente il senso dell'Europa che intendo, Europa delle identità, Europa
del sangue, della storia, della cultura, i cui punti di riferimento non sono
Maastricht o Schengen, ma Altamira, Stonehe
nge, il Partenone, la Domus Aurea, Chartres.

Il defunto pontefice Giovanni Paolo II e, all'inizio del suo pontificato, il suo
successore, Benedetto XVI Joseph Ratzinger, hanno insistito parecchio nella
proposta di includere nella costituzione europea un riferimento alle “radici
cristiane dell'Europa”. Avevano ragione di sostenere che un'Europa senza radici e
senza identità non può avere alcun futuro, anche se, naturalmente, avevano torto
nell'identificare le radici europee nel cristianesimo, le radici dell'Europa non
sono cristiane: sono greche, sono celtiche, sono romane, sono germaniche.

Fatica sprecata in ogni caso, il discorso è stato lasciato cadere perché non ha
trovato il benché minimo interesse a Strasburgo e nelle altre sedi dove “si fa”
l'Europa (o la si demolisce) per mezzo di imposizioni burocratiche senza il concorso
dei popoli europei, ed a loro dispetto.

Gli affaristi, i banchieri, i burocrati, i “grand comis” della politica che, novelli
Frankenstein, hanno assemblato l'Unione Europea così com'è, di radici storiche e
spirituali non ne vogliono sentir parlare, perché la loro Europa di radici non ne deve
avere, deve essere semplicemente la sponda orientale della globalizzazione e del
mondialismo “made in USA” nella quale le identità culturali e storiche dei popoli
europei devono essere annegate nel fango della globalizzazione multietnica anche
con il meticciato provocato da una massiccia immigrazione dal sud del mondo, di cui si
sono poste le premesse impoverendo deliberatamente le economie dei Paesi d'origine
dei migranti, un'Europa che è soltanto mercato, un suk multietnico al punto tale che
l'unico elemento di differenziazione nei confronti del Medio Oriente islamico è
rappresentato dalla tolleranza e – diciamolo pure, incoraggiamento –
dell'omosessualità.

Un'Europa che tutte le volte in cui agli Europei è stato graziosamente concesso di
esprimersi, hanno dimostrato di non volere, e ne fanno testo inequivocabile le
solenni bocciature riportate dalla bozza di costituzione europea prima nei
referendum francese e olandese, poi, l'anno scorso, riproposta come una minestra
riscaldata al punto di essere diventata fetida, nell'analogo referendum svoltosi
in Irlanda conclusosi con un'analoga ed ancor più clamorosa bocciatura della carta
(straccia)costituzionale (ribattezzata trattato di Lisbona) che ci vogliono
rifilare a tutti i costi.

Quanto a noi Italiani, possiamo stare tranquilli, perché i nostri politici –di
centrosinistra e di centrodestra assolutamente concordi – hanno già approvato in
via preliminare questa contestata bozza costituzionale, non ritenendoci degni di
dire la nostra sul nostro futuro, da sudditi e non cittadini, quali ci considerano.

Nei miei ormai quasi cinquantasette anni di vita (o, direbbe qualcuno, di questa
attuale incarnazione) ho imparato a conoscermi abbastanza bene, e so di essere un
terribile bastian contrario: non c'è nulla come il contraddittorio per spingermi ad
approfondire i miei punti di vista, a spronarmi all'occorrenza anche alla
riflessione ed allo studio. Sempre in “The Celts are coming” ho raccontato quanto è
stata cruciale per me una rovente discussione che ebbi con una collega, docente di
storia dell'arte, patita “orientalista”, che ebbe il potere di spingermi sulla
strada sia dell'approfondimento delle motivazioni alla base del mio “patriottismo
europeo” sia di un approccio sempre più ravvicinato alla cultura celtica, cultura
dell'Europa assolutamente autoctona se mai ve n'è stata una, indipendente da
presunti influssi civilizzatori mediorientali.

Mi spiace, ma devo togliervi l'illusione che il possesso di una laurea ed il praticare
– od il credere di praticare – l'insegnamento siano di per sé una garanzia di
un'intelligenza superiore a quella dei comuni mortali.

Non ricordo esattamente come, ma il discorso era caduto sulle staffe, la cui prima
apparizione documentata si ritrova fra i Franchi nell'alto medioevo. Arrivando al
momento giusto, fu una di quelle invenzioni che cambiano il corso della storia umana;
esse, scaricando verticalmente il peso del cavaliere, consentono di avere entrambe
le braccia libere per il combattimento; trasformarono la cavalleria franca nella
temibile macchina da guerra che a Poitiers spezzò lo slancio conquistatore
islamico, impedirono che l'Europa si trasformasse in una propaggine dell'islam. A
dire della collega, anche se non c'è nessuna prova al riguardo, anche le staffe
dovevano essere un'invenzione orientale, perché fino alla rivoluzione
industriale “Gli Europei non avevano mai inventato nulla”.

Bastò perché me la mangiassi viva (non aveva un buon sapore), credo di averle gettato
in faccia tutto, dai megaliti di Stonehenge (of course) alle pitture di Altamira, dal
sistema viario romano ai drakkar vichinghi, alle cattedrali gotiche.

Ma se anche volessimo restringerci a considerare solo le staffe e l'episodio di
Poitiers, merita di andare a leggersi le cronache di quell'incredibile battaglia: i
cavalieri franchi combatterono con una determinazione sbalorditiva in una lotta
che durò tre giorni e due notti ed arrestò lo slancio mussulmano che minacciava di
sommergere l'Europa, era come se attraverso di loro si fosse materializzata l'anima
dell'Europa che non accettava di trasformarsi in un pezzo di islam, di veder
cancellata od almeno devastata la propria identità; un eroismo che ha avuto anche
altri esempi in circostanze simili, dagli Spartani di Leonida alle Termopili ai
Serbi che si fecero fare a pezzi a Kossovo Polje per sbarrare la strada alle armate
ottomane.

Soprattutto, però, per me quell'episodio fu il punto di partenza di un
approfondimento sulle antiche culture europee native, da cui emergeva con
chiarezza l'importanza di quella celtica ed il fatto che essa è tuttora oggetto di
un'inammissibile sottovalutazione.

Le radici dell'Europa sono celtiche ed elleniche, poi romane e germaniche. In età
altomedievale un'altra componente, anch'essa importante, si è aggiunta
all'ecumene euro-occidentale-mediterraneo, quella slava, ed oggi, diciamolo
pure, senza Tolstoj, Dostojewskij,Solgenitsin, la cultura europea sarebbe mutila
come se venisse amputata di Dante, Goethe o Shakespeare.

Prima di abbandonare il discorso delle “radici cristiane” caro al suo predecessore,
di fronte ad una sedicente Europa che di radici non ne vuole, e che a loro volta gli
Europei non vogliono, hanno dimostrato di non riconoscersi ogni volta che è stata
data loro l'opportunità di esprimersi, Benedetto XVI aveva toccato l'argomento
nella “lectio magistralis” di Regensburg, diventata famosa per altri motivi,
perché in quella circostanza egli usò un'espressione nei confronti dell'islam
ritenuta ingiuriosa che scatenò un putiferio e lo obbligò ad una pronta
ritrattazione assai poco conciliabile con il dogma dell'infallibilità papale.

Ciò fece passare in secondo piano altri aspetti della “lectio”, a cominciare dal
fatto che Ratzinger, con un atteggiamento più aperto del suo predecessore, avesse
nominato fra le radici dell'Europa oltre alle “fonti” ebraiche e cristiane anche il
“pensiero greco”.

Questa ammissione rende ancora più interessante un esame delle tre omissioni delle
reali radici dell’Europa: la costruzione politico - giuridico – amministrativa
romana, l’immaginario celtico, le tradizioni germaniche di fedeltà e di onore,
soprattutto considerato che Joseph Ratzinger non è un curato di campagna
casualmente diventato papa, ma un teologo ed uno dei più acuti intelletti che la
Chiesa oggi possiede.

Che proprio un papa tedesco abbia omesso qualsiasi accenno al contributo delle
radici germaniche alla civiltà europea, non è purtroppo cosa che possa stupire: dal
1945 i Tedeschi sono abituati, sono stati costretti con una sorta di schizofrenia
indotta, a definire la propria identità in termini di negazione del proprio passato e
della propria storia; nondimeno, la concezione germanica dello stato che nasce da
rapporti personali fra governanti e governati, da un patto liberamente
sottoscritto ma che una volta contratto va osservato con una fedeltà che non ammette
deroghe, è alla base non solo del forte spirito identitario che ha caratterizzato il
medioevo feudale e comunale ma, incontrandosi con la paideia greca e l’humanitas
latina, ha generato la nostra concezione che accorda alla persona, al singolo, ai
suoi diritti, una centralità assolutamente sconosciuta in altre culture.

Che anche i Celti in questo discorso rimangano fatalmente ignorati, stupisce ancora
meno: dalle radici celtiche abbiamo ereditato il folklore come forma di mitologia
popolare, con creature fantastiche come elfi e folletti, ed alcuni miti ancora vivi
nella nostra cultura apparentemente scettica e “realistica”: il Ciclo Bretone,
Artù, Merlino, Excalibur, il Santo Graal sono presenze ancora vive, simboli ancora
forti nella nostra cultura (si pensi solo al successo editoriale che è riuscito ad
avere un autore mediocre, Dan Brown, con un romanzo ancor più mediocre, “Il codice Da
Vinci”, semplicemente toccando le corde giuste, con riferimenti peraltro
pasticciati e mistificati, a questi miti e simboli ancora forti nella nostra
cultura, appena sotto lo strato di verniciatura “moderna”): è il residuo maggiore di
paganesimo che permane oggi in Europa, che urta frontalmente contro la mentalità
cristiana, e proprio per questo è per me una delle ragioni che rendono degna di amore e
d’interesse la cultura celtica.

Stupisce maggiormente la mancanza di qualsiasi riferimento alla tradizione romana
da parte del principale esponente di una Chiesa che si definisce pomposamente e
falsamente “romana”. Forse la cosa è più spiegabile alla luce di una riflessione del
filosofo Denis De Rougemont, secondo il quale il cristianesimo avrebbe portato in
Europa “un terzo mondo di valori”, quelli del profetismo ebraico “difficilmente
conciliabili con la misura greca e totalmente contrari a quelli di Roma”
(Riflessione che in edizione italiana si trova in uno scritto inserito dalla De
Agostini nella voce “Europa” dell'enciclopedia GE20).

Da Roma, la Chiesa cattolica “romana” ha ereditato parte della struttura
amministrativa e la lettera della sua cultura giuridica e letteraria, uccidendone
totalmente lo spirito.

“Et facere et pati fortiter romanum est”, è da romani agire e sopportare con fermezza.
Il romano affronta le vicende della vita con un senso di equilibrio interiore, non
perde il controllo di sé nei momenti favorevoli e non si abbatte nelle sventure;
ancora più del greco gli è proprio il senso della misura. Un mio rimpianto docente del
liceo ormai scomparso da molti anni, faceva notare come Orazio traduca il “Nun chré
methusthen” (“ora bisogna ubriacarsi” di Alceo con “Nunc est bibendum”, il romano
“beve”, non “si ubriaca”.

A differenza di quelle cristiane, le virtù romane sono virtù civiche: valore e
disciplina in battaglia, frugalità e parsimonia nell’amministrazione delle
proprie cose, obbedienza filiale, magnanimità e saggezza come pater familias,
senso di appartenenza, fierezza di appartenere alla propria civitas ed alla propria
stirpe, preoccupazione per i suoi destini, forza d’animo nelle sventure,
moderazione nei successi.

La virtus romana non è la “virtù” cristiana, viene da vir, e significa appunto in ogni
circostanza riuscire ad essere e sapersi comportare da uomini.

Del concetto antico di virtù, curiosamente rimane una traccia negli erbari, nei
bestiari, nei lapidari medievali, laddove si parla delle “virtù” delle piante,
degli animali, dei metalli: “virtù” significa portare alla massima
estrinsecazione, sviluppare ciò che è conforme alla propria natura; è un’idea
esattamente opposta a quella del cristianesimo che implica l’andare contro la
propria natura che si suppone corrotta dal peccato originale.

A questo punto proprio il fatto che Joseph Ratzinger abbia menzionato il pensiero
greco nel discorso di Regensburg diventa sospetto. Su cosa si debba intendere per
pensiero greco, infatti, esiste quanto meno una grossa ambiguità, forse una
mistificazione.

Come minimo occorre distinguere fra “la sapienza” greca e “la filosofia” greca o
presunta tale. Giorgio Colli, il nostro maggiore studioso del pensiero greco,
faceva notare che la parola “filosofia” che significa “amore per la sapienza” fu
usata per la prima volta da Platone, ma in Platone essa ha ancora il significato di una
sapienza perduta da ritrovare, mentre l’idea “moderna” della filosofia come un
sapere mai prima posseduto da inventare ex novo, nasce solo con Aristotele.

Ora, si osservino bene i rapporti temporali: con Socrate, maestro di Platone siamo
già a dopo la guerra del Peloponneso che è considerata l’evento che pone fine alla
civiltà ellenica classica, e con Aristotele che fu il precettore di Alessandro
Magno, siamo già nell’ellenismo.

In pratica, non considerando la fase sapienziale ma unicamente quella filosofica
del pensiero greco, e riducendo tutto quanto sta prima di Socrate nella categoria dei
precursori sui quali non è il caso di soffermarsi troppo, con una specie di gioco di
prestidigitazione, è proprio il pensiero della grecità classica che è stato fatto
scomparire dalla nostra vista.

Tra la sapienza ellenica e la “filosofia” ellenistica corre, potremmo dire, la
stessa distanza che c’è fra Leonida che si immola alle Termopili con i suoi trecento
spartiati per sbarrare la strada ai Persiani, ed Aristotele che si pone al servizio di
Filippo II di Macedonia, il re straniero che minaccia l’indipendenza delle città
greche.

L’aspetto più interessante e forse più rilevante della sapienza greca è il suo
contenuto etico, che è bene illustrato da un episodio riguardante Solone, forse il
più noto dei Sette Savi della tradizione ellenica. Solone fu invitato alla corte di
Creso, il re di Lidia il cui stesso nome è diventato sinonimo di ricchezza. Dopo
avergli mostrato i suoi tesori, Creso chiese al saggio greco se riteneva che egli
fosse un uomo felice. Solone rispose negativamente, ed allora Creso gli domandò:

“Chi conosci tu più felice di me?”

Solone rispose citando un qualsiasi cittadino ateniese che aveva onorevolmente
servito la sua città in guerra, era onesto e stimato dai suoi concittadini, aveva una
moglie fedele e dei figli devoti.

Anni più tardi, Creso mosse guerra a Ciro, il re dei Persiani e fu pesantemente
sconfitto e catturato. Mentre stava per essere messo a morte, invocò ripetutamente
il nome di Solone, avendo finalmente compreso l’insegnamento del saggio greco.
Incuriosito da quell’invocazione, Ciro chiese a Creso di che si trattasse, e questi
gli narrò dell’incontro avvenuto anni prima con il sapiente greco. Allora il re dei
Persiani graziò Creso e lo perdonò, pago di poter godere almeno del riflesso della
saggezza di Solone.

Vivere secondo virtù è per la Sapienza greca l’unico modo per essere felici, una virtù
concepita allo stesso modo della virtus romana come conformità alla propria natura,
e l’uomo non è separabile dal cittadino, né la virtù dall’esercizio dei doveri
civici. Tale separazione, ci spiegherà più tardi J. J. Rousseau, avviene con il
cristianesimo ed è caratteristica di esso.

La filosofia presocratica, come abbiamo visto, è il prolungamento della sapienza
greca (ma forse dovremmo parlare di filosofia pre-aristotelica, visto che la
rottura avviene con Aristotele, ed ancora Platone conserva un valore, uno spessore
ed un significato che dopo di lui non si riscontrano più).

Democrito sottolinea il valore della libertà per l’uomo:

“Preferisco vivere libero e povero in una democrazia, piuttosto che essere uno
schiavo ricoperto d’oro sotto una tirannide”.

Sotto una tirannide, infatti, non si può nemmeno dire di essere ricchi ma solo degli
schiavi coperti d’oro, poiché il tiranno può toglierti in qualsiasi momento quel che
ritieni tuo.

Naturalmente, fosse vissuto nella nostra epoca, avesse conosciuto le nostre
democrazie piene di limitazioni alla libertà di pensiero, nelle quali esiste il
reato d’opinione, Democrito si sarebbe reso conto che “democrazia” può ben essere il
nome di una tirannide ipocritamente mascherata.

La sapienza greca o la filosofia presocratica (la seconda è il prolungamento della
prima) sono ben consce della tragicità dell’esistenza in termini tali che il
giudizio espresso dal filosofo Denis De Rougemont che le vede “difficilmente
conciliabili” con il cristianesimo, è in effetti una sottovalutazione.

“Da dove i viventi hanno origine”, spiega un memorabile frammento di Anassimandro,
“là essi necessariamente ritornano. Essi pagano l’uno all’altro il fio
dell’ingiustizia commessa vivendo”.

L’esistenza è una catena ciclica cui i viventi, ossia tutti noi, siamo connessi,
destinati a tornare là da dove siamo venuti nell’eterno ripetersi di nascite e morti.
Vivere significa commettere ingiustizia, causare e ricevere dolore,
un’ingiustizia di cui tutti noi salderemo immancabilmente il conto con il nostro
trapasso.

Analizzando i concetti espressi, vi troviamo una grande complessità: la vita,
l’esistenza, prima di tutto è ciclica; inevitabilmente, prima o poi, ogni cosa deve
ritornare a quel nulla, a quel non essere originario dal quale è emersa.

Io direi che qui sono avvertibili anche le somiglianze con il pensiero indiano e
buddista: la vita come violenza ed il desiderio, l’istinto vitale come causa di
sofferenza, che a sua volta costituisce un karma che andrà espiato, e ci dà
l’impressione di essere molto vicini ad un originario fondo di pensiero indoeuropeo
per ignorare il quale storici della filosofia ed orientalisti hanno dovuto spingere
al massimo la settorialità delle rispettive discipline.

Questa somiglianza diventa ancor più evidente se consideriamo altri aspetti della
filosofia presocratica, ad esempio Anassimene, successore di Anassimandro alla
guida della scuola ionia: la sua concezione dell'aria come “arché”, come principio
primordiale da cui tutte le cose derivano, è –alla lettera – identica alla concezione
indiana del “prana”.

Eraclito ha scritto che “Omero ed Esiodo che supplicavano gli dei di dare pace al
mondo, non erano consapevoli di pregare per la sua morte”, poiché l’essenza stessa
della vita è il conflitto. “La guerra è madre e regina di tutte le cose”; non la guerra
che talvolta gli uomini si fanno, ma la lotta incessante tra predatori e prede, la
morte di alcuni che è la sopravvivenza per altri, ed è essa a generare le cose ed i
viventi, a costruire i tipi più elevati, e pare quasi di toccare con venticinque
secoli d’anticipo il concetto darwiniano di selezione naturale. (Non a caso, Darwin
è ancora oggi così odiato dai fondamentalisti religiosi).

E’ una visione che potremmo definire un nichilismo aristocratico, capace di
osservare con occhio lucido tutta la tragicità e la precarietà della condizione
umana senza cercare scappatoie soprannaturali, è una visione che presuppone
un’umanità sana che riesce ad apprezzare gli aspetti positivi dell’esistenza pur
essendo conscia della loro caducità, laddove il cristianesimo vuole l’uomo malato
per poterlo “redimere”.

In generale, le più antiche scuole filosofiche erano qualcosa di molto diverso da
quel che oggi riusciamo ad immaginare, erano comunità nelle quali i discepoli
facevano vita in comune sotto la guida di un maestro venerato, seguendo un
apprendistato che poteva durare decenni, erano comunità religiose che avevano una
parte di insegnamento che poteva essere pubblico, ed una parte esoterica riservata
ai discepoli che erano dei veri iniziati, dove ovviamente non esisteva una
distinzione fra “pensiero laico” lasciato agli esercizi dei filosofi e concezione
spirituale; erano, insomma, sostanzialmente identiche alle scuole vediche
dell'India ed alle scuole druidiche del mondo celtico.

A mio parere, ciò non avalla per nulla l'idea di una derivazione della filosofia greca
“da oriente” e non contraddice minimamente la splendida analisi che di questa
questione hanno fatto Giovanni Reale e Dario Antiseri e che ho riportato in una parte
precedente di questo scritto [nota], anche perché l'antico pensiero greco mentre
presenta queste analogie con l'induismo, non ne presenta affatto con quello di
popoli ai Greci più vicini ad oriente in epoca storica: Egizi, Babilonesi, Fenici,
Ebrei e tutta la (bella?) compagnia che la storiografia convenzionale modellata
sulla concezione cristiano-biblica suppone abbia civilizzato l'Europa per
contagio. E coi druidi come la mettiamo, anche loro venivano da oriente?

No, qui semplicemente ci avviciniamo ad una concezione del mondo naturale e del
sacro, ad un'idea del divino e del posto dell' “uomo sacro” nella collettività i cui
fondamenti devono essere stati posti prima della scissione degli Indoeuropei nelle
popolazioni greche, celtiche, indiane e tutte le altre ramificazioni, un retaggio
primordiale a cui Egitto, Mesopotamia e Palestina non hanno e non possono aver
apportato un bel nulla.

A partire da Aristotele abbiamo la filosofia nel senso che ci siamo abituati a dare a
questa parola, come narcisistico esercizio intellettuale nel quale, come ebbe a
dire Cicerone, “riceve maggiore considerazione chi inventa una stranezza nuova,
che chi ripete una verità già detta da altri”, la cultura del mondo cosmopolita
“globalizzato” ante litteram creato dalle conquiste di Alessandro, dove
s’infiltrano sempre più elementi non greci e non europei, i cui fermenti di
dissoluzione si attaccheranno come un contagio al mondo romano dopo che
quest’ultimo l’avrà politicamente assoggettato, il “terreno di coltura” su cui si
svilupperà il cristianesimo. E’ senz’altro questo il “pensiero greco” cui guarda
Ratzinger, anche se qui per essere onesti occorre spezzare una lancia (assai
piccola, per la verità) in suo favore: questa concezione mistificatoria non è altro
che quella che viene comunemente insegnata nei licei.

Noi dobbiamo ribadire che le radici dell’Europa, quelle vere: il pensiero greco
(quello autentico, non la sua contraffazione ellenistica), Roma, il mondo celtico e
quello germanico, non sono cristiane, sono europee.

Questo non significa che le diverse radici, le diverse componenti dell'ecumene
europeo abbiano avuto lo stesso peso. Greci e Celti, i nostri Celti così spesso
misconosciuti, hanno probabilmente avuto un'influenza più determinante di quella
di latini e di germani.

A paragone di quella degli uomini di altre culture, l'identità europea, l'abbiamo
visto, può sembrare indefinita e sfuggente proprio per la sua capacità di rimettere
tutto e di rimettersi continuamente in discussione.

Vi ho già parlato [nota] di quella singolare testimonianza sulle nostre origini che è
il “libro sonoro”, il CD “I Celti nell'Alto Adriatico” realizzato dal Circolo
Jacques Maritain con la collaborazione del Maestro Raul Lovisoni. Da qui traiamo
un'osservazione molto importante: gli archeologi, come sapete, in assenza di
documenti scritti, sono costretti a ricostruire il passato basandosi solo sul
ritrovamento di oggetti materiali. La rapida espansione celtica, la “fiammata”
avvenuta alla metà del I millennio a. C. li ha messi in sospetto: davvero si è trattato
di una sostituzione di popolazioni, o la massiccia diffusione della cultura
materiale celtica non ci testimonia che popolazioni diverse sono state conquistate
non dalle armi ma dal gusto celtico, soprattutto dalla splendida oreficeria?

I Celti hanno dato vita ad un'estetica tendente all'universalità mentre (ed in
sorprendente coincidenza temporale) i Greci con la filosofia creavano un pensiero
tendente all'universalità.

Se noi, per fare un esempio, mettiamo a confronto la cultura dell'antico Egitto del
1500 avanti Cristo con quella dell'epoca della conquista di Alessandro, vediamo che
mille anni, dieci secoli non hanno prodotto alcun progresso tecnico, ma neppure
alcun mutamento sostanziale nello stile artistico o negli usi quotidiani.
L'avvicendarsi dei faraoni sul trono dei Due Regni non ha scandito altro che uno
scenario immobile, una civiltà di mummie in tutti i sensi, ma considerazioni dello
stesso tipo potremmo farle per la Cina, per l'India, per quasi tutte le “grandi
civiltà” extraeuropee.

E' a Greci e Celti che dobbiamo il dinamismo dell'uomo europeo, la sua capacità di non
restare prigioniero della gabbia delle abitudini e dei modi di pensare e di fare
inveterati.

Oggi l'identità europea appare minacciata come non lo è stata mai nei millenni
trascorsi, essa rischia di essere travolta dalla globalizzazione, dalla
sudditanza politica alla potenza di oltreoceano che si sta traducendo in
un'invasione “culturale” che ha già notevolmente abbassato il livello della
cultura europea avvelenandolo con rozzi schematismi mediatici, ed oggi anche dal
meticciato etnico.

Tuttavia, ancora deboli ed incerti come il primo chiarore dell'alba, cominciamo ad
avvertire anche i segni di una rinascita. Dai movimenti religiosi neopagani a quelli
politici identitari, passando per la passione “celtica” che sembra sempre più
espandersi come un contagio, per nulla dire dei movimenti ecologisti dove si è sempre
meno lontani dall'attribuire un significato sacrale alla preservazione del nostro
pianeta e della vita su di esso.

Cominciamo a scorgere la luce in fondo al lungo tunnel: il nostro continente sta
cominciando a ritrovare il contatto con le sue radici spirituali.




Nota:

Per non appesantire eccessivamente la trattazione, rimando alle precedenti
quattro parti del saggio, così come compaiono sul portale di Celticworld.




Europa, Occidente, Eurasia, islam




Bisogna riprendere in mano ancora una volta la “questione europea”, perché le
problematiche relative alla specificità storica, culturale, di civiltà del nostro
continente sono spesso viste sotto un'angolazione che finora non abbiamo
considerato.

Occorre ammettere in tutta sincerità che quest'ottica parte dalla politica, quindi
da un orizzonte di problemi attuale e contingente, ma finisce quasi subito per
trascendere la dimensione politica per trasformarsi in una valutazione
complessiva sul senso ed il significato di una civiltà. D'altra parte, è inutile
scandalizzarsene: è sempre successo così, è a partire dal loro tempo presente che gli
uomini hanno sempre interpretato e rivissuto le epoche passate.

Nello specifico, andando ad esaminare la situazione della politica internazionale
contemporanea, è facilmente visibile che oggi, ad un ventennio dalla conclusione
della Guerra Fredda e dalla caduta dei regimi comunisti nell'Europa dell'est, è
soprattutto nel mondo islamico e con motivazioni legate alla religione islamica,
che si concentra l'opposizione allo strapotere mondiale della superpotenza
americana.

E' ovvia quindi la simpatia con cui si guarda al mondo islamico da alcune parti dello
schieramento politico, così come è ovvio che queste parti siano soprattutto le
estreme (destra e sinistra), cioè in ultima analisi quelle meno condizionate dal
conformismo e dal servilismo verso un potere che – di fatto – attraverso mille fili, si
lega ai padroni di questo pianeta e della nostra povera Europa.

Fino a qui, le cose rimangono in un orizzonte prettamente politico, ma esso viene
presto trasceso (e le cose si complicano) quando alcuni si spingono ad ipotizzare
l'Europa come parte di una super-civiltà “eurasiatica” od “euromediterranea” che
comunque includerebbe l'islam allo stesso titolo, in opposizione
all'occidentalismo filo-americano di cui (la francamente non rimpianta) Oriana
Fallaci ne “La rabbia e l'orgoglio” ha dato un esempio da manuale; il che a me ha sempre
ricordato il vecchio detto che “due errori non fanno una cosa giusta”.

Diciamo subito che la pars destruens degli “eurasiatici” od “euromediterranei” mi
sembra – a mio modesto parere – assolutamente accettabile. Contrariamente
all'opinione oggi più diffusa che in realtà riflette semplicemente quello che “i
padroni del vapore” ci propinano da sessant’anni, ossia – per usare un termine
tecnico – quello che la propaganda di regime vuol farci credere, non esiste e non è mai
esistita una “civiltà occidentale” comune alle due sponde dell'Atlantico.

In altre epoche, fino al 1945 o meglio ancora fino al 1918, fino a quando l'Europa
conservava a livello planetario quella preminenza di cui le due guerre mondiali
l'hanno privata, “Occidente” conservava un significato geopolitico oltre a quello
puramente geografico di punto dell'orizzonte dove tramonta il sole. Con questo
termine si poteva intendere l'insieme dell'Europa e delle sue propaggini formatesi
in seguito al grande movimento di esplorazioni e colonizzazioni iniziate alla fine
del XV secolo: le Americhe e l'Oceania, ma è del pari evidente che nel momento in cui la
centralità dell'Europa è venuta meno, questo concetto di “Occidente” (con la “O”
maiuscola) ha cambiato completamente di segno, diventando semplicemente l'alibi,
la foglia di fico dell'egemonia statunitense.

La domanda che allora va fatta, è: sulle due sponde dell'Atlantico esiste la stessa
civiltà? La risposta che si può dare, chiara, semplice, “senza se e senza ma” è questa:
No!

L'aspetto esteriore, il fatto che negli Stati Uniti vediamo gente che veste in jeans
od in tailleur, non burqa o barracani, che abita in grattacieli piuttosto che in tucul
od in igloo, che va piuttosto allo stadio la domenica che alla preghiera del venerdì,
può confonderci le idee, ma appena scaviamo un po' sotto la superficie scopriamo
abissi di differenza di mentalità difficilmente immaginabili ed assolutamente
incolmabili.

A guidarci nei meandri della mentalità americana, la cui lontananza dalla nostra
spesso non sospettiamo, è uno che essendo di origine messicana, gli Yankee li conosce
bene: Miguel Martinez detto Kelebek, con una serie di articoli e contributi sul suo
sito www.kelebekler.com , cui collabora tra gli altri il filosofo Costanzo Preve.

Ecco cosa scrive Martinez in uno degli articoli presenti sul sito, “L’anticristo
circasso”:

Gli USA hanno avuto molto a che fare con la Bibbia, ma poco con Platone, Tommaso
d'Aquino, al-Ghazali o Voltaire. (…).

In altri paesi, è un luogo comune dire che gli Stati Uniti sono un "paese nuovo privo di
storia." In realtà la storia c'è, solo che è largamente biblica. Se altrove si guarda
indietro verso i Celti e gli Etruschi, gli statunitensi guardano indietro verso gli
antichi Israeliti; le guerre di Davide sono anche le loro guerre” (1).

E viceversa, si potrebbe dire, le loro guerre sono anche quelle di Davide; quanto meno
nel senso che costoro pretendono di applicare agli Stati Uniti stessi in quanto
“nuovo Israele” le stesse giustificazioni pseudo -religiose che si applicano o si
pretendono di applicare per le atrocità compiute dagli antichi Ebrei che la Bibbia ci
ha puntualmente documentato. Un altro articolo presente sul sito è dedicato alla
strage di Mankato, un episodio delle “guerre indiane” non molto diverso dal celebre
massacro del fiume Sand Creek (2). In quanto “nuovo Israele”, gli yankee
fondamentalisti ritengono che Dio avrebbe “dato in pasto” gli Americani nativi agli
Stati Uniti così come gli antichi Cananei all’Israele dell’età biblica. Stiamo
parlando, per essere chiari, di un genocidio che né per ampiezza né per atrocità ha
nulla da invidiare a quello attribuito ai nazisti.

Se vogliamo ampliare questa esplorazione, ci sarà senz'altro utile un articolo
pubblicato parecchio tempo addietro (ma sempre valido), “L'incolmabile fossato”
di Sergio Gozzoli, pubblicato sul n. 19, 1-10-1984 de “L'uomo libero” (3).

L'incolmabile fossato è ovviamente quello che divide la civiltà europea dalla
barbarie d'oltreatlantico, e la prima, totale differenza fra le due culture è data
dalla percezione della storia.

“Un Europeo, in qualunque città o borgata venga alla luce, apre gli occhi su di una
realtà in cui presente e passato sono inestricabilmente frammisti. Gran parte di
quel che lo circonda è antico. Talora, antichissimo. Da Altamira a Kiev, da Cnosso a
Stonehenge, l'ambiente nel quale egli si muove ha il respiro lungo dei secoli, quando
non dei millenni. Può anche nascere e crescere nel quartiere più moderno della più
moderna delle città, e tuttavia prima o poi - spesso ancora ragazzo - egli incontrerà
fatalmente le testimonianze del «suo» passato.

Testimonianze non fossili, ma vive, componenti sostanziali del mondo nel quale è
immerso e nel quale si forma.

Non è necessario che egli vada a cercare le stupende pitture rupestri del
Paleolitico, né le misteriose costruzioni megalitiche dei templi maltesi o dei
menhir di Corsica o Cornovaglia, e neppure il raffinato splendore dei monili
scitici, etruschi o celtici: basta che egli si guardi attorno nel suo mondo di tutti i
giorni. Il selciato dei vicoli, le statue del parco che circonda la villa
rinascimentale, le torri rivestite d'edera, la facciata e le guglie della
cattedrale, il castello diroccato, i fossati, i canali, i cippi confinari fra podere
e podere, i ruderi delle mura cintoie della città, le fontane della piazza lastricata
in pietra, le inferriate e i portoni dei palazzi patrizi, gli affreschi e gli intonaci
nell'ombra perenne dei chiostri, il ponte medioevale, la colonna e l'arco romano,
sono per lui presenze naturali, come il cielo, gli alberi, o i corsi d'acqua. I colori
del mattone, della pietra, del marmo, sbrecciati o levigati dalle intemperie dei
secoli, gli sono familiari quanto i colori dei boschi nel variare delle stagioni.

Qualunque sia il suo tipo di sensibilità, il suo grado di intelligenza, il suo livello
di cultura, egli viene comunque - in qualche misura - penetrato e influenzato da tutto
questo.

Che egli ne sia consapevole o meno, quella patina di nobiltà che il tempo ha deposto
sulle cose che lo circondano plasma e segna i suoi modelli mentali, il suo carattere,
il suo senso estetico.

Che egli lo voglia o no, l'antico vive in lui, ed indelebilmente gli sedimenta dentro,
nei sensi e nello spirito, una qualche sorta di amore e di rispetto per il passato.

Diversamente dall'Europeo, un americano cresce in un ambiente del tutto «moderno».
Quel che immediatamente si offre ai suoi occhi e al suo cervello sono la geometrica
ripetitività di edifici informi, il brulicare di autoveicoli per strade che
sembrano tutte uguali, lo squallore monotono del cemento e della plastica, la
petulante volgarità policroma delle insegne pubblicitarie.

Anche l'Europeo, certo, riceve oggi fra le prime impressioni ed esperienze di vita la
luce fredda del neon, i colori chiassosi della plastica e delle vernici, l'insensata
violenza di musiche sincopate a tutto volume.

Ma la differenza sta nel fatto che il giovane americano, crescendo, non conosce altro
che questo. L'asfalto e il cemento, il vetro e l'alluminio, la plastica e il neon gli
appaiono realtà del tutto «naturali».

Non a caso, nella scuola americana la storia antica non viene praticamente studiata.
La verità è che, ad un Americano, tutto ciò che è antico appare estraneo,
incomprensibile e, in qualche modo, ostile.

Questo non significa che un Americano non possa sentire il fascino del passato, fino a
soffrirne la mancanza in una sorta di provincialistico complesso. Ma si tratta in
quel caso di un capriccio intellettuale, di un «prodotto» culturale consentito
soltanto a chi abbia ricevuto una educazione di tipo umanistico e di livello
superiore; e il «passato» che egli può amare è allora quello dei musei, dei trattati di
storia, dei testi di letteratura. Fatte salve le eccezioni di alcuni grandi spiriti,
nessun americano - anche se colto - potrà mai comprendere e amare il passato nella
vita, il passato come persistente presenza, come memoria propria, come radice e
linfa viventi nel suo presente.

In fondo, l'Americano è inconsapevolmente portato a nutrire diffidenza e disprezzo
per il passato, per la semplicissima ragione che egli non possiede un passato”.

Non soltanto la “cultura” americana è estranea alla civiltà europea, ma in un certo
senso possiamo dire che l'America è precisamente l'anti – Europa.

“ E' proprio ciò che apparentemente unisce i due mondi, quel che in realtà più a fondo li
divide: é ciò che l'America ricevette dall'Europa negli ultimi tre secoli,
facendolo proprio e fondandovi sopra la sua filosofia di vita, è esattamente tutto
quello che, pur nato in Europa, l'Europa rifiutava e rigettava. Quello che doveva
costituire l'anima stessa del «mondo americano», era proprio tutto ciò che la
vecchia Europa «scartava», per una radicale inconciliabilità con la essenza
profonda della sua anima civile e storica.

Dal settarismo puritano e quacchero allo spirito capitalistico e mercantilistico,
dal «mondo dei Lumi» alla massoneria, dall'ottimismo razionalistico all'odio per
il Trono e per l'Altare, dall'individualismo al cosmopolitismo, dalle prime banche
internazionali ai fermenti rivoluzionari borghesi, si trattava di idee, tensioni e
movimenti che erano sì nati in Europa, ma ai quali l'Europa poteva opporre - allora e
ancora per secoli - forze ben più consistenti: i valori di una civiltà legata al sangue
e alla terra, il vigore delle varie culture popolari, l'autorità morale delle
Chiese, il tradizionalismo gerarchico, lo spirito ghibellino e la residua vitalità
della nobiltà militare, l'istinto di conservazione del mondo contadino, il senso
nazionale, gli antichi miti eroici, l'epopea cavalleresca, i monumenti letterari e
artistici della Classicità, del Medioevo, del Rinascimento.

Non si può comprendere appieno la storia europea e mondiale del nostro secolo - con la
apparizione dei movimenti fascisti e con gli interventi americani nei due grandi
conflitti - se non ci si rende ben conto di questo: calvinismo, capitalismo bancario e
industriale, razionalismo filosofico e illuminismo politico, Massoneria,
Rivoluzione borghese, pur dopo grossi successi iniziali, furono sostanzialmente
sconfitti - nel loro sogno di conquista totale dell'Europa - nel corso dei secoli
XVII, XVIII e XIX. E se poterono continuare a coltivare questo loro sogno di vittoria
finale, fu soltanto trasmigrando oltre Oceano”.

Le argomentazioni di Miguel Martinez e quelle di Sergio Gozzoli, come si vede, si
completano perfettamente. Martinez appartiene ad un certo schieramento politico,
Gozzoli a quello che tradizionalmente è considerato l'estremo opposto. Se “dalle
due estremità” emerge la stessa verità con altrettanta chiarezza, allora forse
almeno in questo caso, “nel mezzo” non c'è nessuna virtù tranne quella di lasciarsi
plagiare dal potere.

Constatato dunque che non esiste alcunché che possa essere sensatamente definito
“civiltà Occidentale”, bisogna andare a vedere cosa c'è sull'altro piatto della
bilancia, se sia in qualche modo credibile, al di là del dato politico immediato,
l'idea di una koiné eurasiatica od euromediterranea, e per prima cosa vedremo a
questo riguardo l'opinione di uno storico di rango, il medievalista Franco Cardini.
Franco Cardini non è solo uno studioso con una conoscenza storica a tutta prova, è un
intellettuale che non ha nessun timore ad assumere posizioni controcorrente; è tra
le altre cose l'autore di un pamphlet, “La paura e la vergogna”, che è la risposta a “La
rabbia e l'orgoglio” della Fallaci ed alle sue tesi ultra-occidentaliste, è dunque
forse la persona più indicata per rappresentare quel punto di vista che possiamo
chiamare “eurasiatico” od “euromediterraneo”.

Vediamo come lo esprime in un articolo del 2002, “Oriente e Occidente”, pubblicato
sul n. 15 aprile-giugno 2002 di “Iter”, rivista dell'Istituto per l'Enciclopedia
Italiana Treccani, un fascicolo non a caso intitolato “Identità mediterranea”:

“ Se la koine dialektos dell'Occidente è l'American way of life, è pensabile che
l'Europa accetti totalmente questa realtà, collaborando a un processo di
omologazione che in passato l'ha vista protagonista ma che oggi assiste ad una sua
ampia ricettività passiva? Oppure è possibile che essa si ponga il problema di una
specificità da recuperare e da riaffermare, quindi un'identità da ridefinire,
forse da ricreare?

Questi possono essere i limiti della “sfida europea” del XXI secolo, quello
succeduto al “secolo americano”, il XX. Una sfida suscettibile di rimettere in
discussione le stesse radici storiche dell'Europa: rileggendone la storia in una
chiave che riproponga come centrale la sua origine mediterranea, vale a dire la
grande cultura ellenistica nata dalla rivoluzione politico-culturale di
Alessandro e ripresa in termini specifici dalla tradizione di pensiero romana
avviata all'interno del Circolo degli Scipioni, maturata con l'esperienza
democratica e imperiale di Cesare e culminata in due grandi eventi epocali: la
Constitutio Antoniniana del 212 e la cristianizzazione dell'impero” (4).

Si vede bene quali sono le contraddizioni e le debolezze di questa posizione, pur
riconoscendo che muove da una pars destruens assolutamente accettabile e
condivisibile. Su questo non c'è dubbio alcuno, è inaccettabile che l'Europa
subisca passivamente o collabori ad un processo di omologazione all'interno di una
cultura “occidentale” che un tempo l'ha vista egemone, ma che oggi significa
soltanto la sudditanza agli Stati Uniti e – peggio – lo svuotamento della propria
identità storica e culturale nella servilistica imitazione dei rozzi modelli che ci
vengono dall'altra parte dell'Atlantico, ma andiamo ad esaminare più da vicino la
pars construens di questo discorso, gli elementi che Cardini ritiene di poter
individuare come punti di partenza di una – ridefinita o ricostruita – identità
eurasiatica od euromediterranea.

E' piuttosto evidente che in realtà si tratta di altrettanti elementi di crisi, di
sconfitte o regressioni dell'identità europea. Quello che alla fine ne esce, poiché
la conquista islamica ha di fatto spezzato in maniera irreversibile quella koiné
mediterranea che l'impero romano aveva provvisoriamente creato e sulla sponda
orientale e meridionale dell'antico Mare Nostrum è insediata una cultura estranea
ed ostile all'Europa, è il concetto di una capitolazione verso la non-Europa
dell'est assolutamente uguale e simmetrica alla capitolazione alla non-Europa
dell'ovest implicita nell'occidentalismo alla Fallaci.

Io ritengo che l'identità europea non abbia bisogno tanto di essere ridefinita o
ricostruita quanto piuttosto riscoperta e difesa, con intransigenza, se occorre
essere intransigenti.

Esaminiamoli uno per uno questi eventi epocali attraverso i quali Cardini vede il
realizzarsi storico della sua idea euromediterranea, e nei quali mi pare non si possa
vedere altro che momenti di crisi, temporanea o permanente dell'essere europei.

Per una corretta valutazione del fonomeno storico dell'ellenismo, io consiglierei
di tenere presente ciò che ho scritto nel mio precedente articolo “Lo spirito
dell'Europa”: esso fu un progressivo offuscamento della grecità classica iniziato
con la sottomissione delle città greche ad un regno fin allora periferico,
semi-barbaro, proseguito in seguito alle conquiste di Alessandro con la creazione
di una cultura multietnica, una globalizzazione ante litteram nella quale poco per
volta elementi non greci e non europei s'infiltrano verso l'alto, guadagnano spazio
fino all'emersione, dopo l'assimilazione politica da parte dello stato romano,
della scoria più velenosa di tutte, la diffusione in tutto il Mediterraneo, più tardi
in tutta Europa ed a livello planetario di una religione, un'eresia ebraica
indelebilmente intrisa di spirito mediorientale, non europeo, che doveva
dissolvere i culti autoctoni e presentarsi come malattia cronica dello spirito
dell'Europa.

Quella avviata dal Circolo degli Scipioni non fu la creazione di una tradizione di
pensiero “romana”, ma al contrario, l'assimilazione dell'ellenismo senza
discernimento per gli elementi negativi in esso contenuti, profondamente
avversata, ad esempio, da Catone il Censore in nome del mos maiorum e delle tradizioni
italiche. Il cesarismo, definito ambiguamente da Cardini come “democratico ed
imperiale” segnò la crisi definitiva delle istituzioni della Roma repubblicana ed
insieme il tentativo di farvi fronte con quella che in termini moderni definiremmo
una leadership carismatica, crisi alla quale, come gli eventi successivi
s'incaricarono ampiamente di dimostrare, la riforma augustea e l'introduzione del
principato posero solo parzialmente rimedio.

La Constitutio Antoniniana introdotta dall'imperatore Caracalla, era la
concessione della cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell'impero, ed era
quanto meno una confessione indiretta della crisi demografica in cui versava
l'impero romano nel III secolo ed anche la rinuncia a qualsiasi specificità che
distinguesse il “civis romanus” da chiunque vivesse entro i confini imperiali, ad
eccezione degli schiavi.

Il punto sul quale il discorso rischia di diventare più spinoso, di portare ai più
forti coinvolgimenti emotivi e dove non sembra possibile una mediazione, è la
cristianizzazione dell'impero romano e poi dell'Europa. Cardini non ha mai fatto
mistero di partire da un approccio rigorosamente cattolico, ed è chiaro che ciò rende
indisponibili ad una riflessione sui danni provocati al mondo romano, all'ecumene
europeo e mediterraneo dalla diffusione della fede del Discorso della Montagna;
danni che certamente ci furono, e furono incalcolabili: dalla cristianizzazione
operata con la forza soprattutto da Teodosio a partire dal 380 in un clima di
persecuzione degli aderenti alle fedi dei padri e della distruzione dei templi dei
culti tradizionali, alla delegittimazione che la nuova fede comportava delle
istituzioni tradizionali proprio in un momento in cui l'impero faticava sempre di
più a difendersi dalle aggressioni esterne, alla “fuga dal mondo” di tanti, che in un
momento così critico sottraeva energie preziose per la conservazione dell'impero.
Per chi non ha gli occhi appannati dalla fede, è chiaro che il cristianesimo è stato la
causa diretta della crisi delle istituzioni romane e del caos che prevalse in Europa
nel millennio successivo.

Un pensatore che, al pari di Franco Cardini si proclama cattolico, il filosofo e
sindaco di Venezia Massimo Cacciari, in un'intervista concessa al giornalista
Maurizio Blondet e da quest'ultimo riportata nel suo libro “Gli “Adelphi” della
dissoluzione”, ha fatto quest'interessante ammissione:

“ Tutta la cultura cristiana è un correre ai ripari contro la tragedia che ha
provocato, una tensione disperata a riparare il pericolo che viene frattura tra la
Città di Dio e la città dell'Uomo” (5).

Perché non vi è dubbio che al di là delle distruzioni teodosiane, il danno più grave che
la cristianizzazione ha provocato, è stata la destabilizzazione dei valori, la
ferita profonda e forse insanabile inferta all'identità europea.

Né “Occidente” né Eurasia, né America né islam, né yankee né talebani. Noi siamo
Celti, ma anche latini, ellenici, germani, soprattutto irrinunciabilmente
europei.

Prendere atto del fatto che ci troviamo presi tra due fuochi è certamente sgradevole,
ma ad ogni modo la constatazione di una verità sgradevole offre per il futuro
prospettive migliori di quelle che derivano dall'alimentare un'illusione
“occidentalista” od “eurasiatica” che sia.

Claudio Mutti è un intellettuale appartenente al filone di quella che (senza
sottilizzare troppo) possiamo definire la “destra radicale”, ed è anche uno di
coloro che hanno spinto la simpatia per il mondo islamico generata dal fatto che in
esso si trovano oggi le maggiori resistenze al tentativo egemonico planetario
americano, al punto da convertirsi alla religione del Profeta, ed in questo