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Brevi note su Ungaretti e Montale

di Riccardo Ianniciello - 30/09/2009

   Quando leggo un libro che tratti di questioni morali, corro istantaneamente alla biografia dell’autore: è un’operazione talvolta dolorosa ma necessaria.
   Nel 1923 l’Italia entra in guerra. Ungaretti che si era battuto per l’interventismo viene mandato sul Carso come soldato semplice. La guerra, rivelando tutti i suoi orrori, annulla e fa cadere di colpo l’impianto retorico della sua celebrazione – pensiamo al d’Annunzio – muovendo Ungaretti a dare voce, con  voluta e ricercata adesione della parola alla realtà, a quell’esperienza dolorosa: «Ma fu durante la guerra , fu la vita mescolata all’enorme sofferenza della guerra, fu quel primitivismo:…fu quanto, d’ogni soldato alle prese con la cecità delle cose, con il caos e con la morte, faceva un essere che in un lampo si ricapitolava dalle origini, stretto a risollevarsi nella solitudine e nella fragilità della sorte umana; faceva un essere sconvolto a provare per i suoi simili uno sgomento e un’ansia smisurati e una solidarietà paterna, – fu quello stato di estrema lucidità e d’estrema passione a precisare nel mio animo la bontà della missione già intravista, se una missione avessi dovuto attribuirmi e fossi stato atto a compiere, nelle nostre lettere».
   E’ evidente il nascere nel poeta, di fronte alla infinita tragedia della guerra, di un sentimento umanissimo di solidarietà nell’avverso destino, di coscienza del dolore comune  e di consapevolezza chiara della missione da compiere. Compito che include la condanna e la denuncia della guerra, quale male supremo.
   Ne Il porto sepolto (1916) e in Allegria di naufragi (1919) i versi sono carichi del dramma immenso della guerra che procura dolore, smarrimento, frantumazione di ogni certezza ( “Come questa pietra / del San Michele/ così fredda / così dura /…così totalmente disanimata /…Come questa pietra / è il mio pianto / che non si vede /…”), ma genera anche  sentimenti primordiali di solidarietà e di fratellanza, di anelito alla pace, a una vita normale che comprende l’amore. Significativa e memorabile è la poesia Fratelli.
   E’ un Ungaretti poeta del dolore, malinconicamente  consapevole della voragine scavata dalla guerra, dell’abisso in cui sono naufragati gli umani valori ed egli, facendoci partecipi di tutto ciò, sembra indicarci e indicare a se stesso, la possibilità del riscatto, di ritrovare la ragione, pur attraverso l’illusione.
   Perché tu uomo di pena, che hai reso con grande poesia la follia umana e hai dichiarato quale fosse la missione intravista nel tuo animo, perché hai abbracciato la dottrina della morte?
   In un articolo apparso nella Fiera Letteraria nel 1963 Ungaretti scrive:  «Il carattere, il primo carattere di tutta la mia attività è autobiografico. Io credo che non vi possa essere né sincerità né verità in un’opera d’arte se in primo luogo tale opera d’arte non sia una confessione». 
   Un pregevole intendimento che investe la sfera morale o per meglio dire la coscienza di uno scrittore, peccato che viene solo in parte mantenuto dall’Ungaretti: il poeta che aveva conosciuto Mussolini (è a firma di Mussolini  la prefazione a una edizione del Porto Sepolto)  subito dopo la guerra, nella sua qualità di corrispondente da Parigi del Popolo d’Italia, quotidiano fondato nel 1914 dal dittatore, non  lascerà trapelare nei suoi versi la prolungata adesione al regime. Ungaretti è sottoposto, subito dopo la seconda guerra mondiale, a un procedimento di epurazione presso l’Associazione degli Scrittori. Viene sospeso dall’insegnamento all’Università degli Studi di Roma. Ma la cosa rientra dopo l’intervento del governo che delega alle singole facoltà ogni decisione sui loro docenti – molto probabilmente a seguito di forti pressioni.  
    Nel 1939 Eugenio Montale, che per una decina di anni fa il direttore del “Gabinetto scientifico letterario G.P.Vieusseux” a Firenze, ne viene allontanato per il suo rifiuto di iscriversi al partito fascista. Nei suoi versi compaiono tracce evidenti di quel doloroso travaglio umano e professionale derivante dalle sue radicali e coraggiose scelte politiche. La vita di un poeta è indissolubilmente legata alle opere. E in esse deve trasparire necessariamente l’onestà intellettuale, la propria coscienza di uomo e di scrittore.
  In Piccolo testamento, l’ultima lirica della raccolta La bufera (1956) si coglie in tutta la sua profondità e umana tensione l’ideale di vita del poeta: il non accettare facili certezze e dottrine (lume di chiesa o d’officina); il perseguire, con terribile coerenza, i principi di verità e di giustizia. Il Montale è però amaramente consapevole che nulla può la luce della coerenza (quest’iride), il coraggio morale, di fronte alla follia degli uomini, ma « giusto era il segno: chi l’ha ravvisato non può fallire nel ritrovarti. Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio non era fuga, l’umiltà non era vile, il tenue bagliore strofinato laggiù non era quello di un fiammifero».
   E’ il testamento di vita di un uomo e di un poeta che assume un significato immenso, universale, proprio perché trascende i limiti del comune sentire e agire.