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Quando giunge il momento, dobbiamo lasciarli andare serenamente

di Francesco Lamendola - 04/10/2009

 

Le statistiche dicono che le cause di morte, in Italia, sono per il 41,5% le malattie del sistema circolatorio (infarto, ictus), per il 28,5% i tumori, per il 6,3% le malattie respiratorie, e solo per il 4,7% gli incidenti (e gli avvelenamenti; anche se quest'ultima percentuale sale di molto, se si considera soltanto la popolazione giovanile).
Questo significa che, in linea di massima, molte persone non vengono ghermite dalla morte all'improvviso, ma si avviano verso di essa consapevolmente. Certo, non possono sapere con assoluta sicurezza il momento preciso in cui dovranno affrontare il grande passo; però hanno la possibilità di prepararvisi con un certo margine di tempo.
Sono ben note le fasi psicologiche attraversate da colui cui viene diagnosticato un male incurabile, da quando, nel 1969, è stato pubblicato il libro di Elisabeth Kübler-Ross «La morte e il morire»: negazione (magari rivolgendosi ad altri medici, nella speranza che si tratti di una diagnosi erronea); rabbia; negoziazione (per cercare di guadagnare un po' di tempo e potersi preparare al congedo); depressione; accettazione (non sempre in quest'ordine esatto).
Ora,  la domanda che si fanno i parenti e gli amici di chi si accinge a lasciare questo mondo, è sempre la stessa: qual è il modo migliore, qual è il modo giusto di essergli vicini, in una fase così delicata della sua vita?
Infatti, e specialmente se esiste un legame affettivo molto forte, il nostro istinto sarebbe quello di voler trattenere la persona amata; ma questo, ovviamente, non l'aiuta affatto a predisporsi per l'esperienza suprema. La dinamica è simile a quella di colui che si accinge a partire per un viaggio lungo ed incerto: gli amici che lo vanno a salutare alla partenza, dovrebbero astenersi da pianti e scene strazianti, che aggraverebbero ulteriormente la sua tensione. Egli sta già pensando a quello che troverà al termine del proprio viaggio; non può concedersi il lusso di rivolgere la propria attenzione all'indietro, preoccupandosi per quelli che restano.
In realtà, l'angoscia dei parenti e degli amici di un malato in fase terminale è di duplice natura: da una parte è rivolta alla persona cara, dall'altra a se stessi. Si soffre al pensiero di lui che se ne va, e si soffre al pensiero di rimanere soli. Occorre avere ben chiara questa duplice natura dell'angoscia che accompagna il distacco, altrimenti si finisce per confondere le motivazioni altruistiche, ossia la preoccupazione per l'altro, con quelle egoistiche - e sia pure comprensibilmente egoistiche -, legate alla preoccupazione per se stessi.
Dunque, impariamo a tenerle ben distinte.
Per quello che riguarda l'altro, ossia la persona cara che ci sta lasciando, bisogna distinguere fra una malattia accompagnata da forti sofferenze fisiche, ed una che si svolge relativamente senza dolori e disturbi debilitanti.
Nel primo caso, è logico che si provi pena ed angoscia impotente davanti allo spettacolo della sofferenza di una persona amata: si vorrebbe annullare la sua sofferenza, ma non è possibile; si vorrebbe anche trattenere in vita quella persona, ma anche questo non è possibile. Ad un certo punto, ci si sente terribilmente in colpa: sia che si desideri che la persona amata viva ad ogni costo, perché ciò equivarrebbe a un prolungamento delle sue sofferenze, sia che le si auguri di poter morire in fretta, perché, anche se motivato dalla pietà, un tale augurio sembra avere in sé qualche cosa di atroce e quasi di disumano.
Quello che bisognerebbe sempre tenere per fermo, è il bene dell'altro: la domanda: «Che cosa è meglio per lui?», dovrebbe sempre precedere ogni altra considerazione. Certo, è traumatico arrivare a comprendere che il bene dell'altro, quando la malattia è irreversibile e, magari, anche dolorosa, è di potersene andare al più presto: ma è necessario. (Diverso è il caso di una persona in coma o in stato vegetativo ma le cui funzioni vitali siano ancora integre: se non è stata diagnosticata la morte cerebrale, quella persona potrebbe ancora riprendersi, anche se la probabilità è molto bassa.)
A quel punto, tutte le energie spirituali di chi gli sta accanto dovrebbero essere rivolte allo scopo di facilitargli il distacco, di rasserenarne la partenza. Chi sta per morire ha bisogno di avere intorno a sé persone serene, o almeno persone forti, le quali sappiano tenere a freno le manifestazioni esteriori del proprio dolore e lo sostengano in quel difficile passaggio.
Un ulteriore problema è legato ai tempi, e di conseguenza ai modi, che accompagnano il distacco. Se la fine è imminente, l'atteggiamento giusto da tenere verso il morente è quello sopra descritto. Ma se la fine, pur essendo certa, non è imminente, e se non è accompagnata da intensi dolori fisici, ci si trova in un terreno strano ed insolito, ove non si sa bene come procedere. Se ci si concentra sulla separazione imminente, il malato potrebbe sentirsi sopraffatto dalla tristezza, quasi lo si volesse sospingere fuori della vita prima del tempo; se, viceversa, ci si sforza di avere un comportamento normale, egli potrebbe avere l'impressione che il suo dramma venga sottovalutato, che gli altri non si rendano conto veramente di quello che sta provando.
Non esistono regole di valore universale: ogni persona e ogni legame affettivo costituiscono un caso a sé stante, determinato da una quantità di fattori unici e irripetibili, dei quali perfino le persone interessate non è detto che siano pienamente consapevoli. Ma, allora, qual è l'atteggiamento giusto da tenere?
In linea di massima - e ci rendiamo conto di dire una cosa ovvia - si muore come si è vissuti: vale a dire che il coraggioso si prepara a morire con forza d'animo, il debole con paura, il dubbioso con ansia; colui che ha molto amato, sarà confortato dal ricordo di tutto quell'amore, mentre colui che ha odiato o colui che non ha voluto bene a nessuno, si sentirà mancare il terreno sotto i piedi, e potrebbe essere preso dalla disperazione.
Le persone che accompagnano ed assistono il morente verso la sua meta finale, conoscono il suo carattere, le sue inclinazioni, il suo passato; devono anche tenere conto, però, che, in quella circostanza, possono emergere lati nascosti del carattere, paure improvvise o anche, all'opposto, improvvise illuminazioni. Chi mai potrà dire con precisione che cosa avvenga nel mistero dell'anima umana, allorché essa viene a trovarsi a faccia a faccia con il mistero più grande della vita?
Comunque, possiamo almeno dire questo: che quando una persona dalla mente lucida e dalla discreta consapevolezza spirituale, senza essere afflitta da molti dolori fisici, si avvicina alla fine, più che paura, prova un gran desiderio di pace ed anche una forte punta di curiosità: esattamente come un viaggiatore che stia per arrivare in una terra lontana, della quale abbia tanto sentito parlare e intorno alla quale abbia molto fantasticato.
A questo punto - e ciò riguarda l'altro corno del problema, ossia quello dell'angoscia che noi proviamo non per il morente, ma per noi stessi - tutto dipende dall'idea della morte che abbiamo elaborato nel corso della nostra vita e della nostra riflessione. Se non abbiano le idee chiare, o se propendiamo a credere che la morte sia la fine di tutto, essa potrebbe farci molta paura: ma questo è un problema nostro; non è veramente paura per l'altro, ma paura per noi stessi, per quando verrà la nostra ora di andarcene.
È chiaro che si tratta di una paura irrazionale: perché se la morte è la fine, allora non c'è nulla da temere, in essa. Come diceva Epicuro  - che era un materialista - nella sua «Lettera sulla felicità», non dobbiamo tenere la morte, per il semplice fatto che quando c'è lei, non ci siamo noi, e quando ci siamo noi, lei non c'è. D'altra parte, l'essere umano non vive di sola razionalità, e sarebbe veramente eccessivo pretendere che essa predomini in lui, proprio davanti al mistero più grande di tutti, che ci tocca personalmente in modo così radicale.
Sia come sia, questa è una difficoltà che riguarda il materialista convinto o l'agnostico: ed è la difficoltà che separa la teoria della pratica, la cosa pensata dalla realtà vissuta. Non c'è modo di uscirne, date le premesse: non c'è alcuna forza superiore alla quale fare appello, nessun aiuto all'infuori di quello che ci si può dare da soli.
Per la persona animata da una forte componente spirituale - e potrebbe essere una persona che, a parole, è seguace di un credo materialista, ma che, nel profondo, possiede sia il senso del limite, sia il senso del mistero - le cose stanno altrimenti. La morte, giungendo al termine di un percorso consapevole, non dovrebbe fare troppa paura, per quanto l'emozione per ciò che si troverà oltre la soglia possa manifestarsi anche in forme assai vive.
Così pure, la persona che ha vissuto in modo spirituale, preoccupandosi di seguire con fedeltà la propria chiamata e sforzandosi di elevarsi a un alto grado di consapevolezza, non proverà eccessivo rammarico a dover lasciare incompiute alcune cose della propria esistenza: perché l'atteggiamento verso il proprio passato e il giudizio che se ne vuole dare, come pure la disponibilità ad affrontare serenamente la crisi della morte, sono un fatto qualitativo e non quantitativo.
Prendiamo il caso di uno scrittore o di un artista, che non sia riuscito a completare la propria opera; oppure di uno scienziato, che non sia riuscito a terminare la propria ricerca; o anche, semplicemente, di un padre di famiglia, che non abbia avuto la gioia di vedere cresciuti e sistemati i propri figli: ebbene, costoro proveranno sgomento e rammarico all'idea di dover morire, solo se la loro evoluzione spirituale sarà ancora molto imperfetta. Infatti, l'uomo spiritualmente evoluto è sempre pronto all'eventualità della partenza; non chiede proroghe al destino, perché sa che le cose sono come devono essere, e nessun lavoro è da considerarsi interrotto e incompleto, se è stato fatto con amore e disinteresse autentici.
E adesso, torniamo al discorso degli amici e dei parenti del morente.
Se essi si trovano in presenza di una persona che abbia le caratteristiche sopra delineate, dovrebbero onestamente riconoscete che tutta la loro angoscia non è dovuta che alla paura di rimanere soli, e non allo stato d'animo di colui che sta per andarsene. Egli è in pace con se stesso, e non desidera altro che di non veder soffrire troppo quelli che restano. Non c'è motivo, dunque, di essere in pena per lui: come disse Socrate agli amici nell'imminenza della propria morte, lui sta per andare in un luogo migliore, per cui bisognerebbe invidiarlo, piuttosto che compiangerlo.
C'è poi un'altra considerazione, che dovrebbe aiutare a rasserenarsi coloro che restano, in presenza del mistero della morte di una persona cara.
Tutto ciò che cade sotto i nostri sensi si prepara continuamente alla partenza, al distacco. La foglia dell'albero, che in estate è carica di forza vitale, in autunno diverrà debole e secca, fino a quando un soffio di vento non se la porterà via: a quel punto, il ramo che l'aveva sino ad allora sostenuta, la lascerà andare dolcemente.
Allo stesso modo, il giovane torrente che scende dalle montagne, tumultuando come un ragazzo pieno di esuberanza, scenderà calmo in pianura e finirà per riversarsi nel mare. Le nubi non potranno trattenere per sempre la pioggia; il fuoco non potrà trattenere per sempre in se stesso il calore, ma finirà per spegnersi, quando gli mancherà l'alimento; la forza di gravità non impedirà per sempre alle stelle «vecchie» di collassare su se stesse e di spegnersi nel firmamento.
Soltanto l'uomo vorrebbe vivere per sempre. Si tratta di un istinto insopprimibile, di un'esigenza originaria: l'aspetto infantile di questo desiderio consiste nel fatto di proiettarsi unicamente sul piano materiale. È certo che noi non possiamo vivere per sempre con questo nostro corpo, in questa dimensione pesante dell'esistenza; ma non è affatto da escludere che la nostra vita possa assumere altre forme, su di un altro e più sottile piano della realtà.
Ora, per poter facilitare questo passaggio, questa crisi, non vi è altra strategia che quella di abituarsi al non attaccamento. Dobbiamo imparare a lasciarci andare, come il ramo che lascia andare le foglie al vento dell'autunno; dobbiamo imparare ad assecondare il movimento della partenza, del distacco. E lo possiamo fare se, nel corso della nostra vita, avremo saputo godere delle cose, senza attaccarci avidamente ad esse; se avremo saputo gioire di tutte le cose belle, senza diventarne schiavi, ma, al contrario, utilizzandole come un ponte che si protenda verso le regioni superiori dello spirito.
Se impareremo a vedere le cose in questo modo, la morte delle persone care cesserà di terrorizzarci, e vedremo in essa una preziosa occasione per manifestare ad esse tutto il nostro amore, puro e disinteressato.
Perché mai dovremmo essere disperati all'idea che una persona cara ci preceda in un mondo di pace di armonia, che egli si è meritato con la sua onesta ricerca, e con le stesse sofferenze che accompagnano inevitabilmente la condizione umana?