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… E piuttosto con te all'Inferno, che senza di te in Paradiso

di Francesco Lamendola - 04/10/2009


Cara Sabina,
mi dispiace che ti tormenti e ti arrovelli su un problema che non ha soluzione: perché, se proprio vuoi vedere l'amore come un peccato, non vi sono vie d'uscita dal vicolo cieco in cui tu stessa hai deciso di entrare.
D'altra parte, e certo senza rendertene conto, tu stai facendo un movimento dell'anima assai curioso e quasi paradossale: perché proprio la percezione della colpa potenzia enormemente il pathos del sentimento medesimo, lo cerebralizza nel momento stesso in cui si sforza di reprimerlo: col risultato di centuplicarne la forza e di trasformarlo in autentica ossessione; vale a dire, l'esatto il contrario della tua intenzione, che era quella di mettergli la sordina.
Ma tant'è: cacciate un sentimento autentico dalla porta, ed esso rientrerà, inevitabilmente, dalla finestra. Rientrerà con tutto il suo codazzo di spettri e di rimorsi; ma, appunto per questo, rientrerà con una forza tale, che nemmeno il gigante Briareo riuscirebbe a cacciarlo fuori, pur con le sue membra smisurate.
I poeti, quelli veri, lo sanno molto bene, e da sempre: solo l'amore colpevole è poeticamente vivo e interessante, perché solo esso offre la possibilità di rappresentare la lotta tra due infiniti, nessuno dei quali riuscirà mai a sopraffare l'altro: l'amore e il peccato; lotta che si svolge nelle profondità dell'anima e che, perciò, non conosce le banali avversità del mondo esterno, ma i tormenti e le gioie e ancora i tormenti del cuore stesso.
Prendiamo il caso di Francesca da Rimini: la Francesca di Dante, beninteso: una delle più perfette creazioni poetiche di tutti i tempi.
Ella è grande, grandissima, proprio perché, vinta dal sentimento d'amore, che a sua volta aveva vinto Paolo attraverso la bellezza della sua persona, è scivolata insensibilmente nella colpa: dalla quale neppure all'Inferno si pente, pur se la riconosce e ne prova rammarico. Rammarico, ma non pentimento: perché pentirsi, vorrebbe dire smettere di amare Paolo: il che le è impossibile.
In questo senso, Francesca è creatura viva, proprio perché caratteristicamente umana e squisitamente femminile: quanto può esserlo, dice De Sanctis, una qualsiasi servetta che si sia perdutamente innamorata del suo uomo, fino a pronunciare questa divina sciocchezza: «Io ti amo e ti amerò per sempre; e piuttosto con te all'Inferno, che senza di te in Paradiso!".
Misteri del cuore umano: misteri dolci, però, e profondamente commoventi; e al diavolo tutti i censori e gli spiriti freddi e invidiosi, che odiano l'amore soltanto perché non hanno il coraggio di lasciarvisi andare una sola volta nella vita.
Non sto facendo l'elogio dell'amore passionale, Sabina, se con questa espressione si intende il classico perdere la testa; questa, te l'ho già detto, è una misera invenzione della modernità, originata da quello spirito freddo e astuto, che sapeva così bene simulare la passione: quel Francesco Petrarca, che non ha avuto il pudore di risparmiarci lo spettacolo, esibito oltre ogni limite della decenza, delle sue pretese lotte interiori fra amore e peccato.
Al contrario: sto dicendo che amare davvero, significa aderire pienamente alla propria natura più profonda, riconoscendo la verità che brilla in fondo alla nostra anima, sia pure seminascosta da innumerevoli incrostazioni e torbidi depositi. Perché noi siamo fatti per amare: per questo siamo venuti al mondo, e per questo siamo chiamati a vivere fra i nostri simili.
Chi non ha mai amato, non è mai stato veramente uomo o veramente donna; tutto il resto, sono chiacchiere da eunuchi moralisti e ipocriti.
Ma torniamo a Francesca: sublime esempio di donna innamorata, non perché la sua passione sia romantica o eccezionale, ma perché è totale, come può esserlo per la più sprovveduta ragazzina che non sappia nulla del mondo e della vita.
Scriveva Francesco De Sanctis nel suo saggio «Francesca Da Rimini», pubblicato sulla rivista «Nuova Antologia» del gennaio 1869 (in: F. De Sanctis, «Lezioni e saggi su Dante», a cura di Sergio Romagnoli, Torino, Einaudi, ,1955, 1967, pp. 641-651, passim):

«Francesca è donna e non altro che donna, ed è una compiuta persona poetica, di una chiarezza omerica. Certo, essa è ideale, ma non è l'ideale di qualcos'altro, è l'ideale di se stessa, ed è ideale compiutamente realizzato, con una ricchezza di determinazioni che gli danno tutta la simulazione di un individuo. I suoi lineamenti si trovano già in tutti i concetti della donna prevalenti nelle poesie di quel tempo: amore, gentilezza, purità, verecondia, leggiadria. Ma questi non sono qui epiteti, ma vere qualità di persona messe in azione, e perciò vive. Edipo inconsapevole, Dante ha qui ucciso la sfinge, ed è entrato nel pieno possesso della vita; quella donna che cerca in paradiso, eccola qui, egli l'ha trovata nell'inferno. Francesca non è il divino, ma l'umano e il terrestre, e perciò in tale situazione che tutte le sue facoltà sono messe in movimento, con profondi contrasti che generano irresistibili emozioni. E questo è la vita.
Non ha Francesca alcuna qualità volgare o malvagia, come odio, o rancore, o dispetto, e neppure alcuna speciale qualità buona; sembra che nel suo animo non ossa farsi adito altro sentimento che l'amore. "Amore, Amore, Amore!" Qui è la sua felicità e qui è la sua miseria. Né ella se ne scusa, adducendo l'inganno in che fu tratta o altre circostanze. La sua parola è di una sincerità formidabile. - Mi amò, ed io l'amai; - ecco tutto. Nella sua mente ci sta che è impossibile che la cosa andasse altrimenti, e che amore è una forza a cui non si può resistere. Questa onnipotenza e fatalità della passione che s'impadronisce di tutta l'anima e la tira verso l'amato nella piena consapevolezza della colpa è l'altro motivo su cui si svolge tutto il carattere. Appunto perché l'amore è rappresentato come una forza straniera all'anima e irrepugnabile, qui hai fiacchezza, non depravazione. Francesca è rimasta il tipo onde sono uscite le più care creature della fantasia moderna: esseri delicati, in cui niente è che resista e reagisca, fragili fiori a cui ogni lieve soffio è mortale, e che si rassomigliano tutte per una comune natura. Gittate in un mondo che non comprendono e da cui non sono comprese, tu le vedi, come Dante le rappresenta, "di qua, di là, di su, di giù", menate dall'onda della loro passione, né possiamo senza strazio vederle nelle tragedie, ridenti e spensierate, accostarsi più e più a quell'abisso che elleno medesime si scavano, e dove va a sprofondare, prima quasi ancora che sia gustata la vita, tanta gioventù e bellezza. […]
Il peccato è il più alto pathos della tragedia, perché questa contraddizione dell'amore non è posta fuori, ma nell'anima stessa degli amanti. L'amore senza contraddizione è prosa arcadica, poesia pastorale, è Dafni e Cloe. Quando la contraddizione esca da ostacoli accidentali, come esser plebeo o povero, divisioni di famiglie, odi politici, gli amanti hanno coscienza che la ragione è dal canto loro, e combattono contro ostacoli posti fuori della loro coscienza. Ma il peccato è un infinito al pari dell'amore, perché amendue coesistono nell'anima e non si possono distruggere l'un l'altro: distruggetemi la coscienza del peccato e mi avrete annientata Francesca da Rimini. In lei è lotta senza termine, né può dire: - Io amo -, senza che una voce non le risponda: - È peccato -; né può questa voce parlarle, senza che nel costante pensiero non le si affacci la male allontanata immagine. E che avviene allora? Innanzi agli altri si studiano le parole e gli sguardi, si vorrebbe celare non che ad altri a se stesso il mistero del cuore; ma nel silenzio della stanza, nel segreto dell'anima si accarezza quell'immagine, e si beve il dolce di quei pensieri, e si nutrono quei desideri, insino a che d'improvviso e inconsapevole non si giunga al "doloroso passo", al momento dell'oblio e della colpa. […] Che cosa è questo? È gioia, è dolore? È gioia ed è dolore, è amore ed è peccato, è terra ed è inferno, è l'amarezza dell'amore che ha per dote l'inferno, è la voluttà dell'inferno che ha per soggetto l'amore: è un sentimento complesso che non ha parola. È la contraddizione, è il cuore ne' suoi misteri, è la vita ne' suoi contrasto, è paradiso ed inferno, è angiolo e demonio: è l'uomo.»

Capisci, adesso, Sabina?
Se vuoi fustigarti con i flagelli roventi della colpa e del rimorso, sei libera di farlo; ma non rendi giustizia alla verità profonda che giace in fondo al tuo essere.
Certo, ogni epoca ed ogni società possiede un proprio atteggiamento nei confronti dell'amore giudicato colpevole. Quella odierna, così banalmente materialista ed edonista, si direbbe che abbia cancellato la nozione stessa della colpa, e a maggior ragione nell'ambito dell'amore. Per questo i tuoi tormenti mi appaiono così degni di rispetto: perché nascono da un'anima sensibile e delicata, che non si è lasciata addormentare dalla morale lassista oggi imperante.
Tuttavia, per un eccesso di zelo, mi sembra tu stia cadendo nell'esagerazione opposta: perché, se è sbagliato pensare che il peccato non esista (o la colpa, o in qualunque altro modo lo si voglia chiamare), non meno distruttivo è volerlo vedere in agguato ovunque, anche dove non c'è.
Che cosa saremmo noi, se fossimo incapaci di amare? Ebbene l'amore, quando entra nell'anima con la sua forza misteriosa e con la sua indomabile signoria, non chiede il permesso alle convenzioni sociali o alle regole stabilite: e, se è autentico, cioè grande e puro, rivendica il proprio diritto di cittadinanza entro di noi, ribellandosi a qualunque sforzo venga posto in atto per estirparvelo, in nome di leggi e di principî.
Questo, beninteso, quando non divenga causa di male o di sofferenza per qualcuno: non è ammissibile, infatti, quell'amore che viene costruito sulle rovine del cuore altrui. Ma se nessuno soffre, perché dovrebbe essere considerato una colpa imperdonabile?
Molto più grave, a mio parere, si deve  considerare la colpa di non amare: di non saper amare, di non voler amare. Una vita senza amore, è la colpa più grave di tutte.
Certo, esistono molti modi di amare; ma l'importante è riconoscere il messaggio che esso ci reca, quando batte alle porte del nostro cuore. Allorché questo accade, l'amore ci sta dicendo qualcosa, qualcosa di importante per la nostra vita, per la nostra evoluzione spirituale: da quest'ultima, infatti, dipenderà la nostra decisione, se aprirgli le porte oppure no.
In ogni caso, sia che le apriamo, sia che le teniamo ben chiuse, noi non saremo più gli stessi di prima: qualche cosa di grande è accaduto, che non ci sarà concesso ignorare, né cancellare. Potremo fingere, sforzarci di rimuoverne il ricordo; ma servirà a ben poco. Tutt'al più, a restituirci una patina di apparente «rispettabilità» sociale.
Saremo come colui che indossa il vestito buono per passeggiare in strada, mentre il suo corpo è pieno di pustole e di piaghe aperte. Perché l'amore rinnegato in noi stessi, rimarrà come un bimbo strozzato nella culla; e l'odore della sua decomposizione finirà per appestare il salotto buono della nostra rispettabilità borghese.
Queste parole non sono per te, Sabina: so che non della rispettabilità borghese ti preoccupi, ma della pace e della integrità della tua anima. Ciò è meritevole di stima, ripeto; solo, temo tu abbia individuato un falso nemico, dichiarando guerra alla tua parte più profonda, che non accetti e alla quale hai deciso di non voler bene.
Che cosa posso dirti, a questo punto?
Ciò che più m'importa, è la tua serenità: dunque, nessun rimprovero e nessuna esortazione, ma una piena accettazione delle tue scelte.
Se esse saranno tali da recarti realmente quel bene che così ardentemente insegui, ossia la pace dell'anima, lo dirà il futuro.
Noi possiamo solo dare un parere alle persone cui vogliamo bene; se cercassimo di forzarne la volontà, mostreremmo di non rispettarle, e dunque di non amarle.
Ciascuno deve fare il proprio percorso; ciascuno deve inciampare, cadere e anche farsi del male, se vuole imparare qualche cosa dalla vita, senza ripetere sempre gli stessi errori.
E questo è tutto.
Si tu vales, bene est, ego valeo.