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Indignarsi è giusto; ma saper valorizzare la luce anche nel Male, è il senso ultimo della vita

di Francesco Lamendola - 05/10/2009


Per una persona sensibile e dotata di un normale sentimento di giustizia, lo spettacolo quotidiano del mondo non è cosa che si possa tollerare facilmente, senza provare un moto istintivo di ribellione, di sacrosanta indignazione.
Lo spettacolo della furberia che, ad ogni ora, ad ogni occasione, inganna la buona fede; della prepotenza, che prevarica sulla mitezza; dell'ottusità, che ostacolo in mille modi l'intelligenza; dell'egoismo, che infligge crudeli sofferenze a chi non sta bene in guardia; della cialtroneria, che soffoca e calunnia la limpidezza e l'abnegazione: tutto questo è veramente duro da sopportare senza reagire, senza provare un fremito di disgusto.
D'altra parte, non occorre essere degli incorreggibili cinici, basta essere soltanto dei ragionevoli realisti, per rendersi conto che tale spettacolo è praticamente la norma nelle società umane (in alcune di più, in altre un po' meno, ma fino a un certo punto) e specialmente nell'ambito dei posti di responsabilità, là dove si esercita un certo grado di potere, dove circola molto denaro, dove si può decidere o influenzare significativamente la vita delle masse.
È triste, ma è così: lo vediamo, con la massima evidenza, nell'ambito della politica, ma anche in quello della finanza, dell'impresa, delle libere professioni, della pubblica amministrazione, della sanità, della cultura, dell'informazione, e perfino dello sport (doping, partite truccate, falli e scorrettezze di ogni genere), che, in teoria, dovrebbe essere quello più pulito di tutti, ispirato solo ad un sano spirito agonistico.
Ovunque le stesse scene, le stesse situazioni: il merito misconosciuto, l'onestà derisa e vilipesa, la fiducia ingannata, la lealtà disattesa, l'amore e il perdono, ricambiati con l'odio e la sete di vendetta: in breve, una continua selezione dei peggiori, che tende a mettere fuori corso i valori etici e a far sentire quanti ancora credono in essi, come gli ultimi dei Mohicani: una nobile razza in via di estinzione, ormai matura per essere rimpiazzata da una razza più dura e volitiva, più ambiziosa e aggressiva, quasi del tutto priva di scrupoli.
Indignarsi davanti a tutto ciò, dunque, è perfettamente comprensibile, e persino moralmente doveroso: altrimenti, vorrebbe dire che, poco alla volta, ci stiamo abituando alla disonestà, alla calunnia, alla stupidità, all'invidia, al cattivo gusto e alla spietatezza; ossia, che ci stiamo abituando a disumanizzarci sempre di più.
E tuttavia…
E tuttavia, bisogna avere la forza e l'onestà intellettuale di riconoscere che, davanti al pur deplorevole spettacolo del trionfo quotidiano dei peggiori: dei politici venduti, degli amministratori disonesti, dei professionisti incompetenti, dei diplomati asini, dei contribuenti evasori, degli intellettuali ignoranti e presuntuosi, e perfino degli sportivi sleali e scorretti, sorge nell'animo una sorta di maligno compiacimento, di masochistico piacere nell'affondare sempre più il coltello nella piaga, ma limitandosi a delle critiche e a delle denunce puramente verbali e inconcludenti; come se l'anima godesse di appesantire le proprie ali e di volare sempre più in basso, quasi sopraffatta da un torbido istinto di autodistruzione, da un funesto «cupio dissolvi».
Si tratta di una forma di morboso compiacimento ad indugiare nel pessimismo, nella desolazione, nella negatività; come se l'anima, ammalata di tristezza, non potesse o non avesse più il sincero desiderio di elevarsi verso regioni ove l'aria è più respirabile.
Occorre reagire a questa tendenza, che si sviluppa quasi inavvertitamente e che trova alimento in una naturale reazione davanti alle brutture dell'esistente, facendo leva su di un opposto atteggiamento: quello della gratitudine e della meraviglia di fronte all'incanto del mondo e alla bontà e sapienza dell'Essere, che lo ha tratto all'esistenza.
Solo da questo atteggiamento di positività, di fiducia, accompagnato dalla capacità di vedere e valorizzare gli aspetti luminosi esistenti anche in un paesaggio oscuro, potrà darci la forza di porci in maniera costruttiva di fronte al compito che siamo stati chiamati a svolgere nella vita: che è quello di elevarci spiritualmente, e, così facendo, di rischiarare anche l'ambiente intorno a noi, contribuendo all'elevazione del prossimo.
Scriveva Rudolf  Steiner nel primo capitolo del suo libro «L'iniziazione» (Editrice Antroposofica, 1988; cit. in: Paola Giovetti, «Rudolf Steiner. La vita e l'opera del fondatore dell'Antroposofia», Roma, Edizioni Mediterranee, 1992, pp. 95-97):

«Se non sviluppiamo in noi il sentimento profondo che esiste qualcosa di superiore a noi, non troveremo neppure in noi stessi la forza di elevarci. L'iniziato acquista la forza di elevare la testa fino alle vette della conoscenza soltanto perché ha sviluppato in cuore venerazione e devozione. Si può accedere alle vette dello spirito soltanto attraverso la porta dell'umiltà. Non si può conseguire una giusta conoscenza se prima non si è imparato a rispettarla: il diritto di fissare gli occhi nella luce va meritato.
Nella vita spirituale esistono leggi come in quella materiale. Strofinando una bacchetta di vetro con una stoffa adatta, la si fa diventare elettrica, le si conferisce cioè la forza di attirare corpuscoli che corrisponde a una legge di natura. Allo stesso modo chi ha appreso i principi fondamentali della scienza occulta, sa che ogni sentimento di autentica devozione che si sviluppa nell'anima smuove una forza che presto o tardi fa progredire la conoscenza.
Chi  non ha disponibilità alla devozione si troverà in difficoltà fin dal primo gradino del processo della conoscenza, a meno che attraverso un processo di autoeducazione non riesca a creare in sé l'atteggiamento voluto: sia ben chiaro che quando si parla di venerazione non s intende il venerare gli uomini, ma la verità e la conoscenza.
È bene rendersi subito conto che una persona completamente immersa nella civiltà tutta proiettata verso l'esteriorità come è la nostra, incontrerà gravi difficoltà per giunge alla conoscenza dei mondi superiori. Potrà riuscirvi soltanto lavorando energicamente con se stesso. Nei tempi in cui le condizioni della vita materiale erano più facili, era anche più facile conseguire una elevazione spirituale: ciò che meritava venerazione, ciò che era da considerarsi sacro, emergeva facilmente. In un'epoca portata alla critica come la nostra,  gli ideali si abbassano, e altri sentimenti subentrano al rispetto, alla venerazione, alla devozione e all'ammirazione.
Chi dunque cerca la conoscenza deve creare in sé questi sentimenti, deve infonderli da solo alla propria anima -- e questo non si ottiene con lo studio, ma soltanto con la vita. Chi vuole divenire discepolo dell'occultismo, deve perciò educarsi energicamente all'atteggiamento devozionale.  Nell'ambiente che lo circonda, nelle proprie esperienze egli deve cercare ciò che può suscitargli ammirazione, rispetto, devozione. Se incontro una persona e mi metto a biasimare le sue debolezze, mi tolgo forza; se invece cerco di rendermi conto con amore delle sue qualità, accumulo forza. Ii discepolo deve sempre ricordarsi di seguire questo consiglio; gli occultisti esperti sanno infatti che è sempre bene guardare al lato positivo delle cose, astenendosi dal giudicare.  Questa non deve rimanere una semplice norma di vita, deve penetrare nel profondo dell'anima.
L'uomo ha in mano la capacità di trasformarsi, di perfezionarsi, ma questa trasformazione deve avvenire nella sua interiorità più profonda, nel suo pensiero, nella sua mente: non basta mostrare esteriormente rispetto, il rispetto deve essere nel mio pensiero. Il discepolo dell'occultismo deve sorvegliare i pensieri di critica negativa e di irriverenza, e coltivare in sé quelli di devozione. Ogni momento in cui ci si adopera a scoprire nella propria coscienza in cui ci si adopera a scoprire ciò che essa contiene di biasimo, censura e critica del mondo e della vita, ci avvicina di un passo alla conoscenza superiore. E l'ascesa diventa rapida se in questi momenti riempiamo la coscienza soltanto di pensieri che suscitano in noi ammirazione, rispetto, venerazione per il mondo e la vita. Chi ha esperienza di queste cose, sa che in ognuno di questi momenti si destano nell'uomo forze che altrimenti resterebbero latenti e si aprono gli occhi spirituali dell'uomo. Egli inizia così a vedere  cose che prima non poteva vedere, comincia a rendersi conto che prima vedeva soltanto una parte del mondo circostante. Naturalmente per mezzo di questa sola norma di vita non sarà possibile vedere, per esempio, quella che viene chiamata aura umana, perché per arrivare a tanto è necessario seguire una disciplina ancora più elevata: ma per giungervi è necessario esercitare la disciplina della devozione.»

Ci si chiederà, a questo punto, se il percorso verso l'illuminazione interiore non renda di fatto impossibile esercitare una critica sul mondo quale esso è; il che, se fosse vero, darebbe ragione a quei filosofi materialisti, i quali sostengono da sempre che l'atteggiamento spirituale corrisponde ad una forma di acquiescenza nei confronti dell'esistente, e, dunque, ad una sorta di narcotico dell'anima, che consente agli sfruttatori di perseverare e alle ingiustizie di perpetuarsi.
Il fatto è che la vita quotidiana giace su di un piano di realtà diverso da quello della vita dello spirito. L'uomo spirituale, ossia l'uomo che ha saputo - come direbbe Steiner - risvegliare in se stesso il proprio Uomo Superiore, si è distaccato dalle passioni e da tutto ciò che lo lega in modo interessato al mondo materiale; pertanto, posto che voglia esercitare una critica nei confronti di taluni aspetti di quest'ultimo, ciò non turberà il suo equilibrio interiore, poiché egli saprà farlo in maniera equanime e spassionata.
Invece l'uomo materiale, ancora avvolto nell'aura grossolana dei desideri e delle paure irragionevoli, ancora accecato dalle illusioni dei sensi fisici, non sarà capace di un tale distacco: per lui, ogni critica al mondo si trasformerà in amarezza e cupo pessimismo. È questo che Steiner intendeva, allorché affermava che la critica distruttiva ai propri simili ci toglie forza, mentre la capacità di valorizzare i loro aspetti positivi ce ne conferisce. Ed è logico che sia così: perché, se andiamo ad analizzare bene i meccanismi della nostra mente, non tarderemo a scoprire che molte persone le quali si abbandonano alla critica sistematica di tutto e di tutti, cercano in tal modo di dare sfogo a una propria insoddisfazione intima, che è, in ultima analisi, insoddisfazione, scarsa stima e pochissimo amore per se stesse.
Solo chi abbia raggiunto un proprio equilibrio interiore, è capace di esercitare la critica sulle cose e sugli esseri umani, senza scendere verso il basso e senza sprofondare nella palude del pessimismo e del cinismo.  In pratica, una cosa è la critica distruttiva e fine a se stessa; un'altra, e ben diversa, è la critica costruttiva, animata dal sincero desiderio di migliorare l'esistente, ma senza odio e senza mescolarvi le proprie personali frustrazioni e insoddisfazioni. La storia è piena di esempi che dimostrano questa verità: basata guardare, ad esempio, alle rivoluzioni politiche e sociali, e confrontare la figura del rivoluzionario fanatico con quella dell'idealista puro, intransigente, ma anche capace di profonda umanità.
Di fatto, però, allorché ci si impegna anima e corpo in una rivoluzione politica, le ragioni dello spirito tendono a scomparire e subentrano le passioni inferiori, ossia quelle che mascherano l'amarezza e la voluttà del potere, dietro nobili parole d'ordine. E anche questa è una cosa naturale: di regola, infatti, sono le anime che si muovono sul piano materiale dell'esistenza, a coltivare l'illusione che basti un mutamento politico e sociale, per rendere migliore e più felice la società; mentre quelle che hanno compiuto un percorso di elevazione spirituale, sanno che questa è la più pericolosa delle illusioni, se prima non si è capaci di compiere quella fondamentale rivoluzione che consiste nel cambiare se stessi.
Tornando al nostro assunto iniziale, dobbiamo osservare che quello che Steiner chiama l'atteggiamento devozionale, è lo stesso che noi, in molti precedenti lavori, abbiamo chiamato preghiera di lode e di ringraziamento. La preghiera, infatti, non consiste tanto nel rivolgere pensieri a ciò che sta sopra di noi, magari per ottenere qualcosa, ma in tutto un atteggiamento di vita: un modo di essere, che consiste nel dirigere costantemente la nostra anima verso la lode e la gratitudine per la meraviglia del mondo cui siamo stati chiamati a partecipare.
Di fatto, come afferma il nostro amico Antonio Marcianò, quello che conta è essere sempre in grado di cogliere quel raggio di luce che può brillare anche nelle tenebre del Male; perché, come moderni alchimisti, noi dovremmo metterci in grado di trasformare anche il male in bene, distillando da esso e separando ciò che è irrimediabilmente oscuro e negativo, da ciò che è suscettibile di tornare verso la luce.
Non è possibile prefiggersi l'obiettivo di migliorare il mondo, semplicemente distruggendo coloro i quali, a nostro giudizio, lo deturpano con le loro cattive azioni. Allo stesso modo, non è un esercizio salutare, per l'anima, quello di concentrarsi sulla critica spietata di tutto e di tutti; mentre lo è quello di cercare gli elementi positivi, sulla base dei quali si possa trovare un terreno di intesa e di collaborazione, il più ampio possibile, fra tutti gli uomini di buona volontà. I quali, forse, non sono poi così pochi, come comunemente si pensa, allorché ci si lascia andare al pessimismo e alla tristezza.
E poi, non si dimentichi la cosa più importante di tutte: gli uomini e le donne di buona volontà non sono mai soli. Accanto ad essi e sopra di essi, veglia una Forza potente, amorevole, misericordiosa, che infonde loro coraggio nei momenti difficili, e rischiara i loro pensieri con una dolce luce di speranza.