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André Kertész (riflessioni di ordine spirituale sulla luce e sulla fotografia)

di Emilio Michele Fairendelli - 06/10/2009

André Kertész
(Budapest, 1894 – New York, 1985)
fotografo

kertesz_montmartre

Noi siamo i veri discepoli del mondo.
Non credemmo, come Tommaso, solo dopo avere visto.
Fu per avere tanto creduto che riuscimmo a vedere.
Nella realtà più semplice si aprivano luoghi che solo noi presentivamo, in cui solo noi confidavamo.
La grande fotografia è un miracolo.
Una visione superiore è chiamata ad essere, lì, e questa vocazione le dà il privilegio di poter separare, con uno scatto come di ghigliottina, un istante dal fiume del tempo a cui appartiene.
In quell’istante, in lui, da lui, pegno di un mondo che verrà, sta e tracima l’eternità, la verità indicibile dell’essere.
I minuti rovinano lontano, l’incanto è subito perduto, noi ci affanniamo a salvarlo, a renderlo ancora possibile per quanto tanto sia già andato smarrito: l’oscurità, il fissaggio della pellicola, lo specchio ingranditore, la potente azione degli acidi nelle vasche, sulla carta da stampa, infine il risorgere dell’immagine.
Di nuovo, contemplare.
Fossimo riusciti ad entrare nell’istante, in quell’ altrove dove è possibile vedere senza limiti, con occhi di zaffiro.
Ecco cosa il tempo, come il Maestro ebreo, dovrebbe dirci, ecco la vera misura della nostra arte così come del nostro fallimento: lascia che i morti seppelliscano i loro morti, tu vieni con me.
Seguire l’istante, attraverso la porta che apre.
E’ quanto non riusciamo a fare, quanto ci è ancora impossibile.
E i morti, gli istanti racchiusi nei neri archivi, nelle lastre, attendono la loro alchimia di resurrezione, ogni giorno più distante dalla vita.
Un giorno di molti anni fa Henri Michaux mi fece provare l’infuso di quell’allucinogeno messicano, il mezcal.
Andava di moda, allora, la ricerca di un’uscita dalla realtà, dei cosiddetti stati alterati di coscienza.
Come se fosse mai possibile fuggire da quello spazio in cui tutto è e sarà sempre, quelle due spanne dall’apice della testa alla punta inferiore del cuore, da quella sostanza da cui tutto sorge e in cui tutto si scioglie: la terra.
Per ore ed ore, sotto l’effetto della droga, completamente immobile come mi riferirono gli amici che dovevano vegliare sulla nostra incolumità avevo fissato la trama del tessuto rosso della poltrona su cui ero seduto.
Vidi quella logora tela da pochi franchi come qualcosa di straordinario, tutto il mio essere vibrava della sua contemplazione e della lode di un’ incredibile bellezza, distinguevo contemporaneamente il suo essere un oggetto in quella stanza della città di Parigi nell’anno 1936, la superficie di filo intrecciato come un campo di dimensione impensabile, la sua struttura interna, atomica, poi ancora più infinitesimale, punti di energia luminosa che si perdevano nel nero e si rovesciavano di nuovo come stelle nell’ infinitamente grande, vidi ciò che la legava ad ogni altro luogo dello spazio e del tempo sin dalla loro origine.
Al risveglio, la coscienza ordinaria non aveva trattenuto che poco di quell’esperienza, per l’impossibilità di contenerla.
Ma l’essenziale.
Per settimane, dentro di me, avevo poi confrontato quella notte di visione con una fotografia scattata l’anno precedente.
Poco dopo l’alba, in una grigia giornata di ottobre.
Nell’immagine il mio letto aperto, da cui ero appena sceso: l’ala marrone della coperta, il candido, celibe lenzuolo con le piccole iniziali della teleria, drappeggiato come da una mano amorevole, il cuscino segnato da pieghe, linee più scure, ad angolo e dritte come raggi, poi fosse, unghie d’ombra che il peso abbandonato del mio viso aveva lasciato nella notte, segni che mi dicevano – si fosse saputo davvero vedere – per quanto interamente ero, André Kertész, senza una sola parola.
Tutto era immerso in un caldo bagno di luce, emanata dall’immagine stessa.
Era un semplice giaciglio abbandonato ma così un luogo vero, alto e degno come se il corpo di un uomo avesse anche potuto esservi adagiato per l’ ultimo istante, dopo la morte, quando chi lo ha conosciuto ed amato si avvicina per toccarne la fronte sfiorando il segno di Dio che vi sta inciso, per pronunciare il suo nome.
Era qui, compresi allora, qui, in questo mondo e in questa coscienza, che la luce doveva venire fatta discendere, rompere ogni argine, colmare il solco stretto e abissale che divide l’alto dal basso, fecondare con il suo raggio l’uovo della terra per la nascita di un mondo nuovo, era qui che tutto doveva essere visto.
Due panchine ed un uomo legati da una relazione che stava oltre ogni geometria e a cui rispondevano costellazioni nel cielo, foglie tra luce ed ombra lungo un piccolo viale dei giardini del Lussemburgo, lo sguardo di Pierre Teilhard che attraversa il nostro e la materia come una spada, un albero in Normandia dopo la tempesta, un violinista in Ungheria sulla strada di terra per Csardy, sul cordolo di pietra di un marciapiede quel piccione morto eppure come librato in un grande volo, le mani di neve di Elisabeth, il profilo di un bambino nel cheder di Rue de Lappe disegnato da una fioca, preziosa luce che sostituiva così in quell’attimo il suo Angelo a lui, immagine rubata da una finestra sulla strada e solo per questo capace di cogliere la Presenza.
Quanto altro.
Che tu possa essere lì, quando il tempo si apre, Albert, per tanti anni ancora.
Userai la mia Leica dalla meccanica incerta, il tuo occhio limpido.
E la tua Anima.
Non chiedermi più del bianco e nero e del colore.
Mi rimproveravi di non accettare la sfida dell’immagine a colori.
Vedi, gli oggetti ricevono i loro colori dalla luce fisica, quando la loro superficie, la loro grana la riflette diversamente.
Questa luce del mondo materiale è quella che ci orienta e in cui esistiamo. Un giorno, attraversando le nubi e toccando in un raggio il velo inerte dei mari del pianeta e le sue molecole, risvegliò la stessa vita che poi avrebbe illuminato.
Immersi nella sua forza, nella meraviglia del suo iride, noi dobbiamo tuttavia accettare che questa luce non sia che un riflesso, che condivida il nostro esilio e le sue leggi e non possa non turbare la Luce vera, quella che gli oggetti emanano, quella che li precede avendo generato ogni cosa.
La Luce dell’essere.
Che sia questa sola Luce, amatissimo Albert, a poterti venire incontro come un potente accordo, come uno specchio splendente ogni volta che fronteggi un istante.