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Che opinione aveva, Gesù, di se stesso? Chi credeva, lui, di essere?

di Francesco Lamendola - 07/10/2009


Quando si fa un qualsiasi discorso sulla figura di Gesù e sulla sua opera, quasi inevitabilmente esso scivola su ciò che è stato detto di lui, a cominciare dai Vangeli - tanto quelli canonici, quanto gli apocrifi: in questo, non c'è differenza - e su come il suo messaggio è stato interpretato, sia a breve che a lungo termine.
Un punto di vista molto più interessante, a nostro giudizio, in una prospettiva storica, è quello che privilegia ciò che Gesù stesso pensava di essere: cosa che, in mancanza di scritti di sua mano, finisce per diventare anch'essa un esercizio di probabilità; ma, quando ci si confronta con la sua gigantesca personalità, non vi è modo di uscire da questo punto morto.
Coloro che vi riescono, infatti, lo fanno - per loro stessa ammissione - in virtù di un ordine di atteggiamenti e di pensieri che giacciono su un piano diverso da quello del Logos razionale: vale a dire, in virtù della fede.
Ma allora, si potrebbe obiettare, è impossibile fare un discorso storico su Gesù? Se, infatti, Gesù era il Figlio di Dio, non si può comprendere la sua vita e la sua opera che in una prospettiva di fede - a cominciare dai suoi miracoli, i quali, stando ai Vangeli, sono stati essenziali per il successo e la diffusione della sua predicazione.
Lo storico, tuttavia, non può partire dal presupposto che Gesù non sia stato un uomo come tutti, ma un Dio; non può anteporre le categorie della fede a quelle della normale ricerca storiografica. Vale a dire che lo storico può, eventualmente, giungere alla conclusione che Gesù fosse più che un uomo, ma non mai assumere questo punto di vista come un dato di partenza; tutt'altro. Come si vede, si tratta di una discussione vecchia e sarebbe perfino noiosa, se non vertesse intorno a una figura storica infinitamente affascinante, come è stata quella del Gesù storico; per non parlare delle immense ripercussioni che la sua predicazione ha avuto per il mondo e per il nostro stesso presente.
Ha scritto lo storico  inglese Humprey Carpenter nel suo breve, ma eccellente ed equilibratissimo saggio «Gesù» (titolo originale: «Jesus», Oxford University Press, 1980; traduzione di Anna Colombo, Milano, Dall'Oglio Editore, 1980, pp. 61-75, passim):

«Ma che opinione aveva Gesù di se stesso? Chi credeva, lui, di essere?
La Chiesa cristiana credeva, e in complesso crede ancora, che la risposta a questa domanda sia di semplicità elementare. "Gesù credeva, o piuttosto sapeva d'essere, il Messia, per quanto in un senso un po' particolare, meglio espresso dall'appellativo Figlio d'uomo. I suoi seguaci a poco a poco si resero conto di ciò, e soltanto la stupidità e irrimediabile malvagità degli altri li trattenne dal rendersene pure conto durante la sua vita".
Che ci può essere di vero in questa interpretazione? E prima di tutto cosa significano, realmente, i termini Messia e Figlio d'uomo?
[Segue una parte in cui l'Autore sostiene che il concetto di Messia, per gli Ebrei del tempo di Gesù, esprimeva inequivocabilmente l'idea di un liberatore nazionale, sul tipo di Davide; e che si trattava, dunque, essenzialmente di un Messia politico.]
Ma può davvero, Gesù, aver accampato pretese politiche? Può essersi considerato il "re dei Giudei", venuto a liberare Israele dalla dominazione romana? L'idea, certo, non è assurda […]. Però, che Gesù personalmente avesse aspirazioni politiche precise, ci sembra assai improbabile. Da quanto la Chiesa ci ha tramandato del suo insegnamento, non traspare nulla di simile, e i Vangeli asseriscono espressamente che egli non si considerava un agitatore politico […].
Le parole "Figlio d'uomo" sono forse le più controverse dei Vangeli. I teologi non possono mettersi d'accordo sul preciso significato che Gesù voleva suggerire con esse - anzi, discutono perfino se egli intendesse davvero dar loro un significato particolare.
L'espressione "Figlio d'uomo", in sé e per sé, è una tipica tautologia ebraica per dire "uomo". Chiunque, parlando, poteva designarsi "un figlio d'uomo", senza con ciò attribuirsi alcun titolo particolare, anzi, senza voler dire altro che "me". Alcuni commentatori biblici credono che così l'usasse Gesù; secondo loro, egli si diceva semplicemente "un uomo", o "quest'uomo qui".
D'altra parte, moltissimi commentatori credono che Gesù attribuisse all'espressione "Figlio d'uomo" particolari sottintesi teologici; che, cioè, col parlare in tal modo di sé, egli s'identificasse con una figura messianica iniziante la fine del mondo e il giudizio universale. Il motivo principale per attribuire tanta forza a questo termine, si trova nell'evidente esistenza d'una figura simile nel libro di Daniele. A dispetto della sua pretesa di risalire alla cattività babilonese, questo libro […] era stato scritto poco più di 150 anni prima della nascita di Gesù. Ed ecco il passo in cui Daniele descrive la visione dell'avvento del regno di Dio:
"Ecco con le nubi del cielo venire come un Figlio d'uomo, che giunse fino all'antico di giorni (cioè Dio)e fu fatto avvicinare al suo cospetto. A lui viene concessa potenza, maestà e regno…La sua potenza è potenza eterna, che non passerà, e il suo regno è tale, che mai non sarà distrutto (Dan., 7, 13-14).
Questo brano è frutto di quella corrente, in Israele, che immaginava attuate le sue speranze attraverso una soprannaturale fine del mondo piuttosto che attraverso un trionfo nazionale limitato a questo mondo. Però l'esatto significato della visione è lungi dall'esser chiaro, specialmente perché il "Figlio d'uomo" è certo, qui, una figura allegorica, simboleggiante i credenti d'Israele. Fino a qualche tempo fa, alcuni teologi sostenevano che sia Daniele, sia, al suo seguito, Gesù.,  avevano sfruttato un concetto - del Figlio d'uomo - già bell'e pronto: con esso, nonostante il significato letterale del nome, si sarebbe indicato un essere, non umano, sì divino, celestiale, formato da Dio prima della creazione del mondo; il suo volto avrebbe avuto angelico splendore, ed egli avrebbe avuto poteri miracolosi. Fino all'avvento del regno di Dio, sarebbe rimasto celato in cielo; giunto poi il momento, sarebbe sceso sulla terra "con le nubi del cielo". Sarebbe venuto come il lampo, avrebbe convocato tutte le nazioni a sottostare al suo giudizio di vicario di Cristo. Questo giudizio sui vivi sarebbe stato accompagnato dalla Risurrezione dei morti, perché lo subissero anch'essi. I giusti - o più particolarmente i giusti israeliti, - ammessi ad eterna beatitudine avrebbero ricevuto autorità sul regno di Dio; le altre nazioni sarebbero cadute tutte ai loro piedi, e ai piedi del Figlio d'uomo, per venerarlo.
Oggigiorno però si dubita molto di tutto questo. C'era davvero fra gli ebrei un così preciso concetto del Figlio d'uomo, a disposizione di Gesù; o quest'espressione era in verità assai più ambigua che non appaia dall'interpretazione ora accennata? […]
Per trovare una via d'uscita da questo labirinto, occorre investigare in quali accezioni i Vangeli sinottici usano la frase "Figlio d'uomo" (Giovanni di solito preferisce dire semplicemente: "il Figlio" - s'intende, di Dio). In tutto, l'usano circa settanta volte., ma spesso, naturalmente, in versioni parallele dei medesimi episodi. E tuttavia è davvero illuminante, l'esercizio di distribuire i ,oro usi del termine, in varie categorie.
Prima di tutto, ci sono i passi in cui l'espressione "Figlio d'uomo" si riferisce indubbiamente al passo di Daniele. Il più notevole è l'episodio del processo, che citiamo prima nella versione di Marco:
"Da capo il Sommo Sacerdote l'interrogò e gli disse: Sei tu il Cristo, il Figliuolo del Benedetto? E Gesù rispose: Sì, lo sono; e vedrete il Figlio d'uomo seduto alla destra della Potenza e venire colle nuvole del cielo" (Marc., 14, 61-62).[…] Ma è verosimile che questi impliciti riferimenti a Daniele siano autentiche parole di Gesù? Non posiamo esserne certi; e senza dubbio la pretesa risposta di Gesù al Sommo Sacerdote, durante l'interrogatorio, sembra piuttosto bizzarra a chi l'esamini nel suo contesto. Fino a quel punto della narrazione, Gesù ha rifiutato di lasciarsi intrappolare, dagli accusatori, a pretendersi chissà che cosa; e adesso, improvvisamente dichiara di essere il Figlio d'uomo. Viene il sospetto che le parole siano state incluse […] semplicemente per concedere a Gesù un istante di gloria di fronte agli accusatori, e per offrire a questi un chiaro motivo per condannarlo. Quanto invece agli altri passi in cui Gesù predice la sua prossima venuta quale Figlio d'uomo, non si capisce davvero perché mai sarebbero stati inclusi, se non riportassero parole autentiche di Gesù. Al tempo in cui furono composti i Vangeli, il vaticinio d'una imminente venuta del Figlio d'uomo […] s'era dimostrato errato, e senza dubbio i più tra i discepoli diretti di Gesù erano morti, sicché la predizione che alcuni di loro sarebbero vissuti fino a vedere l'avvento del Regno, doveva per lo meno apparire soggetta a cauzione. È dunque difficile capire perché mai sarebbero stati, questi passi, inventati di sana pianta; è ben più probabile che essi riflettano l'autentica convinzione di Gesù, che il Regno fosse imminente. D'altra parte, il loro carattere di sicurezza ottimistica contrasta stranamente con un altro passo, in cui Gesù dice impossibile prevedere la data dell'avvento del Regno:
"Ma quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno li sa, neppure gli angeli nel cielo, né il Figliuolo; ma il Padre soltanto" (Marc., 13, 32; cfr. Matt., 24, 36).
Insomma, sarebbe avventato dare troppo peso a uno di questi passi, per provare che Gesù si considerava Figlio d'uomo, nel senso che quest'espressione ha in Daniele […]
D'altra parte, è difficile immaginare che gli scrittori dei Vangeli, e i tanti membri della Chiesa primitiva custodi delle tradizioni che alimentarono i Vangeli, credessero che Gesù non reclamasse per sé, nell'usare quel termine una prerogativa particolare. Se essi avessero considerato "Figlio d'uomo" in tutto equivalente a "me stesso", perché si sarebbero dati la pena di registrarlo così di frequente?  O vogliamo supporre che, ogniqualvolta essa compare nei Vangeli, l'espressione "Figlio d'uomo" vi sia stata interpolata dalla Chiesa? Certo, è possibile, ma non verosimile. Le connotazioni della frase erano così vaghe - più assai di quelle di "Messia" - che sembra improbabile che qualcuno se la sia inventata di sana pianta; sarebbe più ragionevole pensare che Gesù l'avesse usata abbastanza spesso per imprimerla nella mente degli ascoltatori. Non possiamo però dire con certezza che cosa egli intendesse con certezza - anche se possiamo farvi su congetture.
Prima di cominciare a congetturare, è bene por mente a un'altra opinione, che Gesù può aver avuto di sé. Né il Messia nazionale ebraico né colui "come un Figlio d'uomo" del libro di Daniele potevano suggerire idee di sofferenza: esse erano ambedue figure gloriose, di vincitori, non d'oppressi. Eppure i vangeli ritraggono Gesù che collega la sua missione  di Messia o di Figlio d'uomo - e notate come i due termini appaiano qui affiancati - coll'idea di sofferenza:
"… domandò ai discepoli: La gente, chi dice che io sia? … E Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo (il Messia). Ed egli intimò loro severamente che a nessuno dicessero ciò di lui. Poi cominciò a far loro sapere che era necessario che il Figlio d'uomo soffrisse molte cose, e fosse riprovato dagli anziani e dai capi sacerdoti e dagli Scribi, e fosse ucciso.." (Marc., 8, 27-31).[…]
I passi in questione sono tutti nel libro d'Isaia, sebbene i commentatori moderni li credano opera, non d'Isaia né del "Secondo Isaia", ma d'un terzo scrittore o scuola di scrittori. Si tratta di poesie, che sono state incluse nel testi d'Isaia.. […]
Non è facile interpretare tali poesie, ma sembra probabile che il loro autore avesse in mente un essere reale, un profeta le cui sofferenze personali erano ora considerate un'espiazione per i peccati d'Israele. La credenza che una certa specie di sofferenza potesse  aver forza di magia "simpatica" era certamente condivisa da vari profeti, tra cui Isaia stesso, del quale si ricorda che se n'andò nudo e scalzo per tre anni, per causare eguale sventura ad Etiopi ed Egiziani. […]
Nei Vangeli sinottici, in un solo passo Gesù collega esplicitamente la propria morte coll'idea di espiazione o di "riscatto":
"Gesù, chiamatili a sé, disse loro (ai discepoli): Voi sapete che quelli che son riputati principi delle nazioni, le signoreggiano. Ma non è così tra voi; anzi, chiunque vuol esser grande tra voi, sia vostro servitore… Poiché anche il Figlio d'uomo non è venuto per esser servito, ma per servire, e per dare la vita sua come prezzo di riscatto per molti" (Marc., 10, 42-45; cfr. Matt., 20, 25-28).
Se queste parole sono di Gesù, non ci può esser dubbio che egli credesse nel potere di riscatto della propria morte sulla croce; ma le disse davvero? Un esempio isolato è un puntello troppo fragile per una costruzione così grandiosa, tanto più che, al momento in cui furono composti i Vangeli, la Chiesa aveva certo sviluppato ormai le sue proprie idee intorno alla crocifissione quale riscatto. […]
Un filosofo potrebbe domandare se egli avesse bisogno, in fondo, d'una qualsiasi legittimazione, per fare dichiarazioni morali del genere a lui solito. Era necessario mostrare, per dir così, credenziali prima d'ammonire la gente a trattare gli altri come ne avrebbe voluto esser trattata, ad amare i propri nemici, a dare il proprio denaro ai poveri? Lezioni morali di questo genere si potrebbero supporre ovvie. […] Appunto per questa ragione il teologo H. J. Cadbury dubita che Gesù abbia davvero iniziato i propri detti colle frasi menzionate nei Vangeli; egli sospetta che "In verità vi dico", lungi dall'essere una sua frase solita, sia stata introdotta nei Vangeli proprio per rilevare il contrasto tra il proprio insegnamento e la Legge (si pensi al Discorso della Montagna in Matteo, dove la frase ha chiaramente tale funzione). Il Cadbury scrive:
"Penso che egli si aspettasse degli ascoltatori, che si fidassero più di sé che di lui. Una volta almeno disse questo esplicitamente, facendone loro rimostranze: Perché non giudicate addirittura da voi stessi quel che è giusto?"
Se il Cadbury ha ragione, abbiamo davanti a noi un Gesù che pronuncia verità morali ovvie, incitando gli ascoltatori a consultare le loro proprie coscienze. Può darsi che sia così; ma - come sottolinea il Cadbury stesso - in tal caso la gente deve aver avuto un motivo particolare per ascoltarlo.
Se nel 20° secolo uno avesse a saltar su a predicare una dottrina morale il cui nocciolo fosse: "Nelle vostre coscienze troverete la verità", non credo che adunerebbe molti ascoltatori - a meno che in lui ci fosse un che di molto notevole. Quanto più, dunque, questo dev'esser stato vero nella Palestina del primo secolo, dove c'era, seppure interrotta da tempo, una tradizione di messaggi profetici e una fede universale nel soprannaturale. La dottrina morale di Gesù, così come ci è giunta, non spiega di per sé il grado d'attenzione che destò: semplicemente, a noi non pare che basti a motivare la sua condanna a morte, e la formazione, intorno alla sua persona, d'una nuova religione d'immenso potere. […]
Come spiegheremo, dunque, l'immenso influsso di Gesù e delle idee a fondamento della sua predicazione? Inevitabilmente ci si presenta una sola risposta - ovvia, e quasi intollerabile per la maggior parte delle persone del nostro tempo, anche se cristiane. Per dirla col Cadbury, "all'insegnamento di Gesù, diedero prestigio i miracoli. Non c'è da dubitarne.
I Vangeli dicono chiarissimamente che Gesù compiva miracoli.; che guarì malati cronici, che ridiede la vista ai ciechi e l'udito ai sordi, e persino riportò dei morti alla vita. Raccontano pure altri fatti contro-natura: come abbia calmato con la sola parola una tempesta sul lago di Genezaret; come abbia camminato sulle acque, e abbia saziato migliaia di persone con pochi panucci e un pugno di pesci. Quale ha da essere il nostro giudizio su simili eventi?»

Riassumendo.
Gesù era chiamato, da molti suoi seguaci, il Messia; ma egli certamente non volle essere un Messia nel senso comunemente accettato dai suoi connazionali a quell'epoca, ovvero come un liberatore nazionale di tipo politico: in quel caso, dal dominio romano.
Egli stesso amava definirsi con l'espressione un po' enigmatica di Figlio dell'uomo. Ora, è quasi certo che egli l'adoperasse in un significato particolare, diverso da quello comune nella cultura ebraica del suo tempo (che lo adoperava come sinonimo di creatura umana); ma non ci è possibile precisare meglio quale ne fosse, esattamente, il significato profondo.
Sembra certo, comunque, che in tale particolare accezione fosse inclusa l'idea, risalente al cosiddetto «terzo Isaia», del Servo sofferente: una figura profetica destinata a patire volontariamente molti dolori e umiliazioni dai suoi correligionari, e ad essere rifiutato dai sacerdoti, per offrire la propria vita in riscatto dei peccati del popolo.
D'altra parte, questa idea legalistica del rapporto fra Dio e uomini, bastata sul concetto della colpa e della punizione, nonché sul riscatto da parte di un innocente per la salvezza dei colpevoli, contrasta un po' troppo con l'accento che la predicazione di Gesù stesso pone continuamente sul concetto della misericordia di Dio e sul rapporto fra Lui e gli uomini, visto essenzialmente come paterno ed estremamente amorevole (la pecorella smarrita, il figlio prodigo, eccetera).
A tutto ciò si aggiunga che, per alcuni studiosi moderni, gli insegnamenti di Gesù non erano di natura tale da abbisognare di una sorta di garanzia divina; almeno secondo l'interpretazione del Carpenter. Questo, peraltro, ci sembra il passaggio meno convincente del suo ragionamento. Infatti, a noi sembra che gli insegnamenti di Gesù fossero realmente sconvolgenti per i suoi ascoltatori, e ciò per due ordini di fattori: intrinseco e storico.
Intrinseco, perché la dottrina dell'amore esteso ai propri nemici supera di molto la morale comunemente insegnata e ammessa all'epoca, e non solo in ambito giudaico: qui ci troviamo realmente in presenza di una grossa novità sul piano etico. Nell'ambito delle antiche culture e religioni mediterranee, nessuna si era spinta così in là, fino ad estendere il precetto dell'amore incondizionato e del perdono delle offese, non solo ai membri del proprio gruppo etnico e religioso, ma all'umanità intera; e non solo ai buoni ed ai pii, ma anche ai malvagi .
Storico, perché i compatrioti di Gesù non erano affatto disposti a riconoscere che la salvezza di Dio fosse rivolta a tutti gli uomini, a meno che si convertissero all'ebraismo; e, a maggior ragione, nessun ebreo sarebbe stato disposto a riconoscere nel Servo di Dio, sofferente e ripudiato da tutti, nonché condannato a morte, un sostituto accettabile di quel Messia politico, vittorioso e trionfante, che ardentemente aspettavano.
Tale genere di aspettativa era talmente diffuso (pochi decenni dopo la morte di Cristo sarebbe scoppiata la violentissima insurrezione antiromana destinata a concludersi con la distruzione di Gerusalemme, nel 70 d. C.), che Gesù, per rendere più accetti i propri insegnamenti morali a un siffatto uditorio, sentì il bisogno di certificarne la provenienza divina, adoperando espressioni come «in verità vi dico», tali da conferire una speciale solennità ai suoi discorsi.
Gesù, in conclusione, doveva cercare di superare una doppia resistenza dei propri connazionali ad accogliere il suo messaggio etico: quella relativa alla pregiudiziale nazionalistico-religiosa, e quella relativa all'attesa di un Messia politico, trionfante sui nemici d'Israele.
È giusto, infine, il collegamento istituito dal Carpenter fra la predicazione di Gesù e la fama dei suoi miracoli: bisogna ammettere, infatti, che, se il suo insegnamento etico era, al tempo stesso, troppo semplice (il primato assoluto della coscienza e dell'amore) e troppo ostico agli orecchi dei suoi ascoltatori (perché sovvertiva le loro aspettative circa l'atteso riscatto nazionale e religioso dagli odiati pagani), esso, di per sé, difficilmente avrebbe creato un nucleo di fedelissimi attorno alla sua persona, che lo avrebbero poi trasformato in una nuova religione, realmente universale.
Bisogna, cioè, riconoscere che, senza i miracoli, il messaggio di Gesù difficilmente avrebbe fatto presa sulle masse; anche se è vero che la sua grandezza non aumenta di una virgola in virtù di quelli, e anche se Gesù stesso fece del suo meglio per non pubblicizzare troppo i miracoli, arrivando al punto di proibire ai discepoli di divulgarne alcuni.
Insomma, più ci si interroga sulla vera natura del «mistero» di Gesù, più ci si rende conto che al centro delle sue preoccupazioni vi era il costante timore di essere frainteso, di vedere stravolto il messaggio che egli intendeva recare agli uomini. Doveva, perciò, procedere con molta cautela, dire e non dire, parlare talvolta per enigmi ed agire anche in maniera contraddittoria (fare un miracolo e proibirne la pubblicità). Alla donna sira, che lo supplicava di guarirla, rispose che non bisognava dare ai cani i bocconi riservati ai figli, alludendo all'azione salvifica di Dio fra i soli figli d'Israele; anche se, poi, non rimase sordo alle sue preghiere. Al tempo stesso, per abituare i suoi nazionalisti uditori a un'idea meno gretta della salvezza, non esitò a scegliere la figura del buon Samaritano quale esempio ideale di bontà e amore del prossimo.
Insomma, Gesù doveva muoversi su un terreno minato. Gli stessi Vangeli ci narrano che perfino i dodici, fino all'ultima cena ed al suo arresto nell'Orto degli ulivi, continuarono a fraintendere in maniera radicale il senso della sua missione; a maggior ragione, possiamo immaginare quali difficoltà gli si presentassero allorché predicava alle grandi folle.
In realtà, tutto lascia pensare che Gesù, nel solco della tradizione dei grandi maestri spirituali d'ogni tempo, riservasse le verità più semplici al pubblico impreparato e indifferenziato, e quelle più ardue alla cerchia ristretta dei suoi discepoli; il che non fu sufficiente, a quanto pare, ad evitare malintesi e fraintendimenti fino all'ultimo, anche in quella cerchia selezionata.
Il fatto che, dopo la morte e dopo l'evento della resurrezione, quei discepoli si siano organizzati e siano riusciti a fondare una vera e propria chiesa, che, per molti aspetti, costituiva un superamento della religione mosaica, ha realmente del miracoloso; anche se si dovrebbe sempre tenere presente che il cristianesimo, così come lo conosciamo oggi, è frutto molto più dell'insegnamento di Paolo di Tarso, che non aveva conosciuto personalmente Gesù, che non dei diretti seguaci del Maestro.
Rimane la domanda da cui eravamo partiti: Gesù, chi pensava di essere? Che idea aveva di se stesso e della propria missione?
Si tratta, senza alcun dubbio, di una questione assolutamente cruciale per comprendere il senso della sua figura e della sua opera; ma, come abbiamo visto, è una questione alla quale risulta estremamente arduo dare una risposta certa e inequivocabile.
Vagliando bene gli elementi storici in nostro possesso, siamo arrivati alla conclusione che i miracoli attribuiti a Gesù occupano un posto fondamentale nell'economia della sua predicazione: lungi dall'essere un aspetto accessorio e, magari, mitico - come piacerebbe credere a molti teologi di stampo razionalista, sulla scia di Rudolf Bultmann - essi costituiscono il proverbiale ago della bilancia, capace di far pendere la nostra interpretazione dell'idea che Gesù aveva di se stesso in un senso, piuttosto che nell'altro.
Che egli avesse dei poteri taumaturgici fuori del consueto, anzi, decisamente straordinari, è cosa che non può mettersi in dubbio, a meno di rifiutare ogni credibilità storica ai Vangeli nel loro complesso: perché i miracoli, in essi, occupano un ruolo centrale, e sono così numerosi e così straordinari, che svolgono realmente la funzione di preparare il lettore alla rivelazione finale, mediante l'evento della resurrezione, dell'origine divina di Gesù. In questo senso, vi è tutto un crescendo, un autentico climax, che parte dalla nozze di Cana e dalla pesca miracolosa, fino alla resurrezione di Lazzaro - che, a differenza della fanciulla e del figlio della vedova, dichiarati morti da poche ore, era morto da tre giorni «e già puzzava», per usare l'espressione di Giovanni - procede fino al mistero supremo della resurrezione di Gesù stesso.
A questo punto, si tratterebbe di vedere come Gesù interpretasse i propri poteri taumaturgici - e anche, naturalmente, fino a che punto noi moderni siamo disposti ad ammettere la possibilità del soprannaturale, senza entrare per ciò stesso in un ambito di pura fede, sottratto alle categorie razionali della storia. Come si vede, siamo tornati al punto di partenza, dopo aver descritto un cerchio intorno all'interrogativo iniziale.
Apparentemente, ci troviamo in un vicolo cieco. Perché diventa secondario stabilire se Gesù interpretasse i propri poteri come il sigillo della propria origine divina, se poi non siamo disposti ad ammettere, nemmeno come ipotesi di lavoro, che tale origine divina fosse qualche cosa di più di una semplice forma di autosuggestione di Gesù stesso.
E dunque?
Il mistero di Gesù è sempre lì, che continua a sfidarci attraverso i secoli.
Dalla sua figura affascinante promana una forza indefinibile, ma sublime, che esercita una potente attrazione su di noi e che, senza dubbio, la esercitò anche sui suoi contemporanei, stando alla profondità con cui il suo ricordo si impresse nella mente e nel cuore dei suoi seguaci, anche dopo l'evento che avrebbe dovuto, ragionevolmente, por fine ad ogni speranza a suo riguardo: la morte, dolorosa e infamante, sulla croce, dalla quale nessun miracolo divino era venuto a sottrarlo..
Perciò, dalla domanda su che cosa Gesù pensasse di se stesso, siamo giunti alla domanda, inevitabile, su che cosa noi pensiamo di lui.
Rispondere a una tale domanda, dopo aver espletato coscienziosamente il dovere della ricerca storica, rimane un atto della coscienza individuale, al quale ciascuno è chiamato.