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Iraq: vittoria o sconfitta mascherata?

di Alessandro Iacobellis - 08/10/2009

 

Replicare in Afghanistan la strategia irakena.
Questa, da qualche mese a questa parte, sembra diventata la frase rituale, il mantra dei principali analisti ed opinionisti di politica internazionale (solitamente di provata osservanza atlantica) che si sforzano di venire a capo del rompicapo afghano.
Già, perché in effetti ad una analisi superficiale può sembrare che ormai l’Iraq sia un Paese quasi pacificato. Ricordiamo le scene che per anni sono arrivate quotidianamente sui nostri televisori dall’ex Mesopotamia: ogni giorno bollettini interminabili di battaglie campali tra occupanti e guerriglieri, col terribile corollario delle stragi di civili morti sotto ai bombardamenti o per le autobombe. Improvvisamente, o quasi, la pacificazione. Stando ai filo-statunitensi più entusiasti, l’autore del miracolo è stato il generale David Petraeus, artefice della strategia vincente di Washington. Addirittura Il Foglio di Giuliano Ferrara ha pensato bene di dedicargli un libro per celebrarlo, intitolato “Il caso Petraeus”. L’America sull’orlo della disfatta, quindi, almeno in Iraq avrebbe trovato la chiave di volta per uscire dal pantano ed evitare in extremis un nuovo Vietnam. Insomma, ce ne è voluto ma alla fine hanno vinto.
Ma sarà veramente così?
Torniamo indietro di un paio d’anni. 2007: l’anno in cui la violenza in Iraq ha raggiunto il suo picco. I numeri nella loro freddezza parlano chiaro: in quell’anno si sono registrate il maggior numero di vittime fra la popolazione irakena, i militari stranieri (più di 900 statunitensi e circa una cinquantina fra i britannici) e i loro collaborazionisti di esercito e polizia locali. Il Paese era sull’orlo del collasso definitivo, e il governo di Maliki sembrava appeso ad un filo, senza un briciolo di autorità effettiva. I gruppi della guerriglia ad un passo dal controllo totale del territorio, compresa Baghdad, dove al di fuori dell’enclave della Zona Verde infuriava un tutti contro tutti: già, perché alla resistenza contro l’occupante si era aggiunta anche una guerra civile già in essere fra sciiti e sunniti.
Il caos totale, insomma. Anche perché le altre grandi città erano perse: la multietnica Mosul al nord, in una posizione strategica in mezzo ai campi petroliferi della provincia di Ninive; ad ovest, nella provincia di Al Anbar, che arriva fino al confine con la Siria, Ramadi, Qaim, Haditha e Falluja erano roccaforti off-limits per gli americani. E questo nonostante le ripetute offensive lanciate, soprattutto su Falluja, dove nel 2004 e nel 2005 i marines avevano dato sfogo a tutta la loro potenza di fuoco, fosforo bianco ed esecuzioni sommarie comprese. Ma anche nel sud sciita le cose non andavano meglio, e a Bassora gli inglesi erano ormai costretti a non uscire dalla loro base nell’aeroporto cittadino. In pratica, l’unica zona in cui non si combatteva rimaneva il Kurdistan irakeno, nell’estremo nord, ormai semi-indipendente e di fatto autonomo già dai tempi della guerra del 1991. Un’avanzata inarrestabile, considerando che nei primi mesi post-invasione a Washington si cantava vittoria (“Mission Accomplished”), si minimizzavano gli attacchi e si parlava di “sparuti gruppi di nostalgici dell’ex-regime” che agivano soltanto nel cosiddetto Triangolo Sunnita.
Non restava quindi che un’ultima, disperata strada: l’escalation. Già a partire dal 2006, Bush e il suo staff presentano al Congresso il piano per un drastico aumento delle truppe nel Paese arabo (“troop surge”). L’aumento prevede un aumento di più di ventimila soldati, con cinque nuove brigate di combattimento (che passano così da 15 a 20), da essere utilizzate nei santuari della resistenza. Il numero complessivo dei soldati Usa giunge quindi a superare le 150000 unità, il massimo dai tempi dell’invasione di marzo 2003. Il comando delle forze multinazionali passa da George Casey a Petraeus. Il battesimo del fuoco per la nuova strategia è a marzo, nella provincia di Diyala, dove viene lanciata una serie di operazioni di ampio respiro che dureranno diversi mesi. Un luogo non casuale.
Diyala, il cui capoluogo è Baquba, era nota già prima dell’invasione a stelle e strisce per due cose: i suoi rigogliosi agrumeti e la sua lealtà al presidente Saddam Hussein, che da lì reclutava gran parte del suo personale più fedele, in particolare gli agenti del Mukhabarat (il servizio di intelligence). Inoltre, la provincia è geograficamente di grande rilevanza strategica: si estende dalla periferia est di Baghdad fino al confine con l’Iran. E, attenzione, è multietnica (maggioranza araba, ma con zone curde la cui sovranità è rivendicata dal Governo Regionale del Kurdistan), e multireligiosa. Insomma, il luogo adatto per intraprendere l’unica strada che possa evitare il disastro completo per gli americani: il divide et impera.
Già, perché nella turbolenta Diyala, come nel resto dell’Iraq, la resistenza irakena è fortissima, ma ha un punto debole: è divisa al suo interno fra diverse sigle dalle agende politiche più disparate. Proprio qui, poco distante da Baquba, nel giugno 2006 un bombardamento mirato aveva ucciso il fantomatico capo di Al Qaeda nel Paese, il giordano Al Zarqawi. Ora, il peso reale dei seguaci di Bin Laden nella guerriglia è sempre stato oggetto di contesa: al di là dei proclami statunitensi, in realtà gli analisti sono sempre stati concordi nel ritenere che questi fossero solo una piccola parte della variegata e complessa galassia anti-americana fra il Tigri e l’Eufrate. Anzi, si è sempre ritenuto che in realtà la resistenza fosse ancora guidata dai quadri del partito Baath passati in clandestinità, in particolare dal vicepresidente e membro del Consiglio del Comando Rivoluzionario irakeno, Izzat Ibrahim ad-Douri. Ma evidentemente questa è una verità che agli americani non conviene più di tanto: molto meglio propagandare all’opinione pubblica la presenza anche in Iraq del nemico metafisico, l’impalpabile Spectre islamica che colpì New York nel 2001. Tanto più che in questa maniera si riesce anche a dividere il fronte avversario. I metodi dei qaedisti irakeni (ribattezzatisi Stato Islamico dell’Iraq, dopo avere proclamato una sorta di califfato-ombra nelle aree a maggioranza sunnita) si contraddistinguono per efferatezza. Attacchi indiscriminati agli sciiti con autobomba, decapitazioni di ostaggi (ricordiamo l’americano Nick Berg nel 2004, la cui esecuzione fu diffusa con un video-choc proprio in concomitanza dell’emergere dello scandalo-torture nel carcere di Abu Ghraib, coincidenza particolare…), insomma, più che resistenza, terrore. Molto spesso senza il bisogno di rivendicazioni affidabili, ma non importa: la firma di Al Qaeda è chiara, ci ripetono i tg ad ogni strage. Come anche nel febbraio 2006, quando mani ignote distrussero la moschea dorata di Samarra, luogo sacro per l’Islam sciita, dando di fatto il via alla guerra civile tra le due fazioni musulmane. A voler pensare male (come è noto, alle volte ci si azzecca), pare quasi che l’arrivo di Al Qaeda in Iraq sia servito a distruggere la resistenza dal suo interno, proprio nel momento in cui gli americani erano sull’orlo della sconfitta totale. Composta in maggioranza da stranieri uniti dall’estremismo religioso e con poco o nessun interesse per la causa nazionale irakena, la sua brutalità porta gran parte della popolazione a ribellarvisi e a considerarla come una sorta di seconda occupazione del Paese, quasi alla pari di quella statunitense. Addirittura, il gruppo non esiterà a rivolgere le armi anche contro le altre organizzazioni della guerriglia locale che si rifiutano di condividerne metodi e finalità. Soprattutto i gruppi di matrice baathista (il Comando generale delle Forze Armate), nazionalista, ma anche nazional-religiosa (come l’Esercito Islamico in Iraq). E’ proprio questo che gli americani sfrutteranno nel banco di prova a Baquba: in questo teatro, per la prima volta viene offerta una tregua e un accordo ai militanti della guerriglia purchè non facenti parte di Al Qaeda: cioè praticamente il 90% della resistenza! In particolare gruppi di ex appartenenti all’esercito di Saddam, come le sedicenti “Brigate Rivoluzionarie del 1920”, vengono riutilizzati come milizie anti-qaediste e finiscono per trovarsi dalla stessa parte della barricata di chi avevano combattuto ferocemente fino a poche settimane prima. A ciò si unisce un altro tassello: comprare a suon di dollari le tribù, spina dorsale della società civile.
Già a fine 2005 si era formato a Ramadi un nucleo di capi tribali, detto “Consiglio del Risveglio” (“Sahwa” in arabo). Anche loro fino a poco prima avevano combattuto i marines, piazzato gli IED (ordigni esplosivi improvvisati) per attaccare i convogli militari, martellato le basi nemiche con razzi e mortai… ma anche loro si erano ritrovati a fare i conti con i metodi di Al Qaeda, i suoi attacchi indiscriminati e il suo disprezzo per le vite dei civili. Il gioco di Petraeus era semplice: foraggiare a suon di dollari i consigli tribali per convincerli ad allearsi agli occupanti e al governo-fantoccio, cooperando con le sue forze di sicurezza. In cambio, il controllo del territorio veniva affidato proprio a quelli che per anni hanno ucciso centinaia di soldati statunitensi.
Altro che strategia vincente, insomma: una vera e propria ammissione di sconfitta (o di impossibilità di vittoria), accompagnata da un significativo esborso di dollari per non farsi più ammazzare. Il tutto senza risolvere realmente nulla, perché i rapporti tra questi gruppi ed il governo centrale restano tutto meno che idilliaci (più volte Maliki e i suoi collaboratori hanno denunciato lo sdoganamento degli ex baathisti, evidentemente impauriti da ciò che potrebbe accadere loro una volta che saranno rimasti senza la tutela dei padrini atlantici).
Una “irakizzazione” di facciata del conflitto, in concomitanza della quale gli americani hanno stilato la “exit-strategy” dal Paese e, per correre ancora meno rischi, si sono rinchiusi nelle basi poste fuori dai centri abitati.
La iperpubblicizzata dottrina Petraeus non vede quindi nemmeno l’ombra di una vittoria militare sul campo, anzi.
Vedremo come evolveranno le cose in Afghanistan, dove ci si è affidati allo stesso Petraeus e alle stesse tattiche. Per adesso, di male in peggio. Questo perché nel Paese centroasiatico, diversamente dall’Iraq, il sentimento di società civile e di comunità nazionale è di gran lunga più arretrato, diviso com’è in un mosaico di etnie diverse in guerra fra di loro praticamente da sempre. Il divide et impera non funziona in un luogo che è già storicamente frammentato di suo. Ma soprattutto in Afghanistan sarà difficile usare il trucchetto di Al Qaeda per comprarsi degli alleati: quello l’hanno già usato per l’invasione di otto anni fa, e i risultati oggi sono sotto gli occhi di tutti.