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Pioggia

di Francesco Lamendola - 11/10/2009

 

Questa mattina, quando il mondo ha iniziato lentamente ad emergere dall'ombra, una fitta trama di perle lucenti lo aveva impreziosito.
Silenziosa come una principessa misteriosa, la pioggia è scesa nella notte coi suoi piedi delicati ed ha intrecciato le sue danze scintillanti nel buio, disegnando arabeschi d'acqua viva.
Ora, mentre la luce si fa strada con fatica entro il respiro di una minuta nebbiolina, la pioggia continua a cadere leggera, quasi senza rumore, e tutte le cose appaiono rivestite di una fresca luce nuova, come trasfigurate.
L'aria è tiepida e un po' afosa, come in certe giornate nuvolose della tarda primavera o al principio dell'estate: ed invece le giornate già stanno correndo verso l'autunno inoltrato. Eppure la vegetazione è ancora di un bel verde luminoso e, per quanto i platani del viale abbiano ormai lasciato cadere molte foglie, nell'insieme il paesaggio naturale si presenta ancora nella sua sontuosa veste estiva.
Ristagna sulle cose un'atmosfera languida e sfinita, come di serra; ma il cielo chiuso e la completa assenza di vento ci fanno avvertiti che è vano sperare sia in una schiarita, sia in un acquazzone vigoroso e gagliardo.
Il mondo tace, sospeso, meravigliato anch'esso dal silenzio che rende i passi ovattati, come quando è caduta la prima neve.

*  *  *
A questo punto ci si potrebbe lanciare nella solita filippica contro il mutamento climatico e le stagioni che non sono più quelle di un tempo, mentre la primavera e l'autunno sono scomparsi addirittura; ma a che scopo?
Questo è il mondo in cui ci è dato vivere; possiamo agire sulle cause artificiali del cambiamento, ma ci vorranno decenni per vedere il risultato; e noi non ci saremo.
Nel frattempo, la nostra vita è qui, il nostro mondo è questo: qui ed ora dobbiamo confrontarci col presente, con la rivelazione dell'Essere.
L'Essere si rivela ovunque; siamo noi che non sappiamo vederlo.
Si rivela nella magnificenza dorata dell'autunno, e si rivela in questa nebbiolina afosa e in questa pioggerella così lieve, che quasi non si ode.
Si rivela in un giardino vivificato dalla fragranza di mille fiori, e si rivela sui muri scrostati di un brutto palazzone di periferia.
Si rivela nel riflesso della fontana di marmo popolata di ninfee, e in quello della pozzanghera sull'asfalto che, mista di acqua e di benzina, si accende sotto un raggio di sole di una fiamma d'arcobaleno.
Si rivela nella pioggia scrosciante profumata di bosco, che le raffiche di vento sollevano come le onde del mare, e si rivela nella pioggerella stanca e triste che si sfilaccia nel grigiore dell'alba, senza gioia e senza dolcezza, ma non priva di bellezza.
La bellezza è ovunque, per chi abbia occhi capaci di vedere oltre le apparenze, e orecchi capaci di udire oltre gl'inutili rumori.
Ovunque è la bellezza, perché ovunque è l'anima universale  che pervade ogni cosa e che promana dall'Essere, sporgente perenne di tutto ciò che esiste.
Ma essa non si rivela all'uomo materiale, sprofondato nella duplice illusione del desiderio e del timore; solo chi abbia perfezionato la propria natura spirituale, riesce a scorgerla.
Come cantano quei versi stupendi della «Bhagavad-Gita» (XIII, 28-31):

«Colui che vede come, in tutti i corpi, l'Anima Suprema accompagni l'anima individuale, e comprende che mai né l'una né l'altra periscono, vede veramente.
Chi vede in ogni essere l'Anima Suprema, ovunque la stessa, non lascia mai che la sua mente lo trascini alla degradazione. Egli giunge infine allo scopo supremo e assoluto.
Colui che riesce a vedere che è il corpo, nato dalla natura materiale, a compiere ogni azione, mentre l'anima, all'interno, non agisce mai, vede realmente.
Quando l'uomo intelligente non vede più in termini d'identità multiple, dovute a corpi differenti, raggiunge la visione del brahaman.
Allora, ovunque, egli non vede che l'anima spirituale.»

Noi siamo un frammento, una scintilla di tutta questa bellezza, di tutto questo splendore, perché la nostra anima individuale è parte dell'anima universale.
Il fatto è che, finché viviamo come immersi nel sonno, non ne siamo consapevoli, e ci crediamo separati dal tutto e abbandonati a noi stessi.
Pertanto, la prima cosa che ci si rivela, all'atto del risveglio spirituale, è proprio questa: che noi non siamo soli, che non siamo abbandonati. Una forza immensa ci sostiene, purché sappiamo essere abbastanza umili da riconoscerla e da rivolgerci a lei, per levare una preghiera di lode e di ringraziamento.
Con le nostre sole risorse, infatti, non possiamo fare nulla: siamo deboli come bambini, impotenti come dei ciechi.
Colui che si libera dalla falsa vista spirituale e acquisisce la vista spirituale, si libera con ciò stesso anche dalla paura e diventa «abhaya»: (in sanscrito) «senza paura»; perché sa che non deve temere nulla, essendosi affidato interamente alla pienezza dell'Essere.
Chi si riconosce parte dell'Essere e vi si abbandona con fiducia, ha vinto la paura, perché non desiderando più nulla, è al di là dei capricci della contingenza.

*  *  *
Ora la pioggia è cessata e il silenzio è divenuto ancora più grande.
Il gorgheggio dell'usignolo, dal ramo del giardino, si leva timido e quasi soffocato, come se avesse timore di rompere un incantesimo.
La pioggia è cessata, ma ha lasciato in dono una magnifica veste lucente, che, posandosi al suolo e sui tetti delle case, dappertutto riflette la vastità del cielo, come una serie infinita di specchi o di laghi o di fontane, che si aprono ad accogliere la rivelazione del mondo.
Ed ecco, la musica di Bach si spande nell'aria d'improvviso, possente, meravigliosa, di una sublime eleganza architettonica, come una cattedrale gotica che spinga i suoi archi e le sue volte sempre più in alto, sempre più in alto, direttamente verso il cielo.
L'emozione che le sue note diffondono nell'anima è talmente pura e profonda, che nessuna parola umana potrebbe renderne nemmeno una pallida idea.
Così è della musica di Bach, la più spirituale e la più perfetta che la potenza divina abbia ispirato ad un essere umano per levare al cielo il più alto inno di lode e di ringraziamento; così è della pozzanghera formatasi, dopo la pioggia, in una buca dell'asfalto, là dove qualche goccia di benzina l'ha accesa dei colori fatati dell'iride, non appena un fugace raggio di sole ha fatto capolino tra le nubi squarciate.
Ovunque bellezza, armonia: e una commovente preghiera che si leva dalle creature verso il mistero luminoso dell'Essere.
Anche questo alberello, che ha spezzato letteralmente il cemento del marciapiede per emergere dal buio della terra, trasformando il suo slancio vitale in un tronco, nei rami e nelle foglie; anche questo alberello, le cui radici hanno vinto ogni resistenza, per affermare il proprio diritto alla vita, aprendosi un varco là dove non avresti detto esservi lo spazio neppure per la crescita di un ciuffo d'erba: anch'esso è un prodigio dell'Essere, un frammento splendente d'infinito, che anela a raggiungere la luce che l'ha tratto dal nulla del non essere.
Tutto parla della rivelazione dell'Essere, della gloria dell'Essere: la pioggia ed il sole, il giorno e la notte, il calore ed il gelo, la salute e la malattia, la gioia e il dolore. Sì, tutto: anche il dolore; anche la morte.
Perché la morte non è una porta che si chiude, ma una porta che si apre.
È un mistero troppo grande per noi e per tutta la nostra filosofia.
Non possiamo spiegarlo razionalmente, ma possiamo intuirlo con un movimento dello spirito che vada oltre il pensiero strumentale e calcolante.
Del resto, tutto ciò che è più prezioso, tutto ciò che è veramente essenziale, si trova al di là del pensiero razionale: delle sue astuzie e dei suoi calcoli interessati.
Davanti al mistero dell'Essere, il pensiero razionale finisce per stringere il nulla: perché, come dice Dante («Paradiso», XXXIII, 139), «non eran da ciò le proprie penne».
È necessario un altro modo per avvicinarsi a quel mistero, che contiene anche il mistero della vita e della morte: l'abbandono fiducioso nel seno dell'Essere, dal quale tutto ciò che esiste ha tratto origine, e senza il quale nulla vi sarebbe o potrebbe mai esservi.